Costruire un “muro cinese” tra gli interessi economici e quelli politici nelle relazioni diplomatiche con i paesi vicini: potrebbe essere la svolta nella politica israeliana in medio oriente, in particolare con la Turchia.
A ben vedere, potrebbe essere questa la chiave di lettura per spiegare il perché della telefonata privata al premier turco Erdogan fatta dal rieletto premier israeliano Benjamin Netanyahu, con cui ha finalmente chiesto scusa per l’incidente avvenuto al largo di Gaza, alla Freedom Flottilla nel maggio del 2010. Allora morirono otto cittadini turchi ma Israele, fino ad oggi, aveva sempre negato la propria responsabilità per l’accaduto, come invece aveva più volte chiesto pubblicamente Recep Tayyip Erdogan.
A seguito di quell’episodio, la Turchia aveva espulso l’ambasciatore israeliano e sospeso qualsiasi accordo militare con Israele (comprese le esercitazioni militarti congiunte, che vantavano una solida tradizione). E sempre nel settembre 2011 la Turchia aveva intensificato la propria presenza militare nel Mediterraneo orientale.
Sebbene siano entrambi partner strategici per gli interessi statunitensi nella regione, le relazioni tra Israele e Turchia sono rapidamente deteriorate negli ultimi due anni e non solo per motivi politici ma più significativamente per motivi economici. Quando ad ottobre 2011 il governo greco cipriota ha annunciato una joint venture con la compagnia texana Noble Energy, per lo sfruttamento di possibili giacimenti di gas naturale al largo delle sue acque territoriali, la Turchia ha subito alzato la voce.
Anche se Cipro ha dichiarato che il piano di trivellazioni si basava su accordi siglati con Noble Energy fin dal 2008, le nuove esplorazioni riguardavano un bacino, il cosiddetto Block 12, che confina con il giacimento israeliano Leviathan. Non solo, Noble Energy aveva annunciato che avrebbe usato al largo di Cipro la stessa trivella Homer Ferrington, correntemente al lavoro nel bacino Noa al largo di Ashkelon, sollevando presunti timori di spionaggio in una zona sensibile del Mediterraneo da parte turca.
Ma soprattutto, per la Turchia la vera questione risiedeva nel via libera allora dato dal governo israeliano alle imprese Delek Drilling ed Anver Oil di acquisire il 30% dei diritti di estrazione nei giacimenti di gas e petrolio al largo delle acque meridionali di Cipro, compiute ad opera della stessa Noble Energy.
Accordo che è stato recentemente finalizzato lo scorso febbraio 2013, così come un altro importante accordo tra il governo cipriota e la francese Total, per trivellazioni nei lotti 10 e 11 delle proprie acque territoriali. Accordi entrambi sotto la diretta ostilità del governo turco, stando alle posizioni ufficiali di Ankara.
Tuttavia, gli interessi turchi non riesiedono esclusivamente nel riaffermare la propria influenza sull’isola di Cipro così come la propria influenza geopolitica nella regione.
A causa della recente instabilità di importanti paesi del Nord Africa, dovuta a cambiamenti di regime in rilevanti partner energetici quali l’Egitto, in termini strettamente economici sembrerebbe mero buon senso una cooperazione energeticha tra Israele e la Turchia, poiché entrambi i paesi avrebbero gli stessi interessi economici nel Mediterraneo orientale ed hanno ben più da guadagnare come alleati che come nemici: entrambi hanno bisogno di petrolio e gas naturale (e i continui attentati ai gasdotti egiziani nel Sinai e a quelli algerini al confine con la Libia, hanno causato diversi problemi) entrambi hanno interesse nell’ esportare questa fonte di richezza all’estero e soprattutto verso l’Europa.
Alcuni analisti considerano che questo cambiamento di prospettiva, soprattutto dal punto di vista israeliano, sarebbe il risultato dell’intenso lavoro diplomatico dell’ex capo missione all’ambasciata israeliana in Turchia, Alon Liel. Lavoro culminato nelle pubbliche scuse compiute da Israele alla Turchia, a margine della visita del presidente statunitense Barack Obama nel paese.
Produrre energia in casa, anzicchè contare sugli approvviggionamenti di paesi esportatori in una delle regioni più instabili del pianeta, sembra essere la nuova strategia del ventunesimo secolo in materia di sicurezza energetica, da parte di molti paesi leader. Primi tra tutti gli Stati Uniti durante l’amministrazione Obama (che ha incoraggiato le trivellazioni offshore e la ricerca di fonti energetiche non convenzionali) così come in Europa un buon esempio è raprresentato dal consolidato modello norvegese.
E le ripercussioni della crisi economica internazionale sembrano aver dato solo la spinta finale verso questa opzione.
Tuttavia correre da soli sia per Israele sia per la Turchia, potrebbe rivelarsi un vicolo cieco. E sia l’Europa sia gli Usa potrebbero risentire, alla fine, di uno scenario in cui la Turchia decidesse di rivolgersi ai suoi vicini orientali, come la Cina o l’India, nel campo della cooperazione energetica.
Al contrario, Israele e la Turchia potrebbero entrambi beneficiare di un gasdotto congiunto che porti il gas estratto dagli israeliani nel mercato europeo.
Questa non è la prima volta che un suggerimento del genere arriva all’attenzione del premier neoliberista Benjamin Netanyahu. Quello che pochi mesi fa era stato bocciato come “wishful thinking”, ossia la possibile cooperazione energetica tra Israele e la Giordania, ancora risiede su valide ragioni economiche. Così come valida appare in termini economici una cooperazione tra Israele e Turchia.
Un muro cinese tra interessi politici irrisolti e possibili profitti economici sembra il frutto di un calcolo molto cinico. (Sebbene finora ha felicemente funzionato tra alcuni paesi occidentali e gli Stati del Golfo per il rifornimento energetico nonostante le accuse del presunto foraggiamento del terrorismo internazionale da parte di questi ultimi).
Ma sul lungo periodo, una politica che porti paesi tradizionalmente antagonisti sul piano politico ad affrontare sfide comuni in campo economico, potrebbe rappresentare l’unico terreno comune verso la pace che sia mai stato messo sul tavolo.
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