Viaggio fra i buddisti del Nepal
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Viaggio fra i buddisti del Nepal

Dopo l'invasione cinese del Tibet decine di migliaia di tibetani fuggirono a piedi in Nepal, sfidando il gelo. E oggi in tantissimi studiano al Monastero Bianco.

Viaggio fra i buddisti del Nepal
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27 Febbraio 2012 - 11.27


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di Thomas Cattoi

Il visitatore del distretto di Boudha, a Nord di Kathmandu, rimane stupito dal numero e dalle dimensioni dei monasteri buddisti che punteggiano la valle e che costituiscono il centro della vita religiosa e culturale della minoranza tibetana in Nepal. Ciò che ancor più sorprende è la scoperta che la stragrande maggioranza dei monasteri sia stata edificata nel corso degli ultimi trent’anni, a dispetto della difficile situazione dei tibetani della diaspora, e nonostante i drammatici rivolgimenti politici che dal 1990 ad oggi hanno trasformato il Nepal dall’ultima monarchia assoluta del subcontinente indiano in uno stato maoista semi-vassallo della Cina. La visita del primo ministro cinese a Kathmandu nello scorso gennaio, e la firma di un trattato di amicizia fra Cina e Nepal, hanno innervosito non poco la leadership tibetana locale, timorosa di un irrigidimento del nuovo regime nei riguardi della comunità esule.

La storia dei rapporti fra Nepal e Tibet risale al diciottesimo secolo, quando con una serie di campagne militari il re di Gorkah Prithvi Narayan Shah unificò le varie città stato della valle di Kathmandu e nel 1769 si autoproclamò re del Nepal. La dinastia Shah, che avrebbe regnato sul Nepal fino al 2008, era di religione induista, e seguendo il modello di regalità tipico dell’India del Nord dopo la rinascita visnuista del sedicesimo secolo, i suoi monarchi decisero di presentare se stessi come manifestazione o avatar del dio Visnu, adottando il calendario indiano Bikram Sambhat e il cerimoniale di corte di origine persiana che veniva utilizzato dagli imperatori Mughal.

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L’imposizione dell’induismo come religione di stato avrebbe portato ad una costante tensione fra il potere regale e gran parte della popolazione della valle di Kathmandu di etnia Newari, che praticava una variante del buddismo Vajrayana e il cui dialetto apparteneva alla stessa area linguistica del tibetano. Per secoli, la via carovaniera fra Kathmandu e Lhasa era stata al centro degli scambi commerciali e culturali fra i due popoli, e la colonia newari nella capitale tibetana era nota per l’eccellenza dei suoi artigiani ed architetti, tanto che il quinto Dalai Lama affidò a degli architetti newari la ricostruzione e l’ampliamento del palazzo del Potala.

La situazione sarebbe precipitata nel 1792, quando il re del Nepal, approfittando di alcuni conflitti interni nel governo di Lhasa, avrebbe cercato di invadere il Tibet e di sottometterlo al suo potere. Il conflitto si concluse rapidamente con la ritirata dell’esercito nepalese vista l’impossibilità di inviare i necessari approvvigionamenti alle altezze vertiginose dell’altopiano tibetano. Il confine fra i due paesi venne tuttavia ridisegnato in modo da includere all’interno del Nepal non solo le vette dell’Himalaya, ma anche una porzione dell’altopiano con la sua popolazione sherpa e una piccola minoranza tibetana. Nel corso dell’Ottocento, questa minoranza avrebbe costituito un’importante pedina nei rapporti diplomatici fra Nepal e Tibet, due stati che mantenevano un’orgogliosa quanto precaria indipendenza fra la Cina delle concessioni commerciali e l’India del colonialismo britannico.

Nel corso del ventesimo secolo, dopo l’invasione del Tibet da parte della Cina e la fuga del Dalai Lama in India nel 1959, la situazione del Nepal divenne ancora più difficile. Negli anni sessanta e settanta decine di migliaia di tibetani decisero di abbandonare la loro terra e affrontarono il terribile viaggio a piedi dal Tibet al Nepal, spesso durante la stagione invernale in cui l’esercito cinese si ritirava al piano ed era più facile sfuggire ai controlli di frontiera. Se nel passato la monarchia degli Shah aveva avuto un atteggiamento più aggressivo nei riguardi del Tibet, nel periodo della guerra fredda la politica del governo di Kathmandu tendeva a mantenere un atteggiamento di cauta equidistanza dall’India e dalla Cina, e la disponibilità ad accogliere i rifugiati tibetani era un’importante segnale che il Nepal non avrebbe accettato le pretese territoriali di Pechino. Dopo la rivoluzione culturale degli anni sessanta e la distruzione in Tibet di centinaia di templi e di monasteri, il Nepal divenne anche il centro culturale della diaspora tibetana, e pur tra mille difficoltà, numerose università monastiche della zona di Lhasa vennero ristabilite nella valle di Kathmandu.

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Negli anni fra il 1960 e il 2008, un costante flusso di emigrazione dal Tibet occupato alla valle di Kathmandu ha portato ad un’esplosione della popolazione tibetana, passata da poche centinaia all’inizio degli anni sessanta ad una stima di circa centocinquantamila al giorno d’oggi.
Se nel 1960 vi erano solo due monasteri tibetani attivi nella capitale nepalese, il loro numero attuale è circa di una cinquantina, e numerosi altri centri sono in costruzione. Un esempio fra molti è il cosiddetto Monastero Bianco (Ka-Nying Shedrub Ling), ora sede del Centro di Studi Buddisti dell’Università’ di Kathmandu che attira studenti da ogni parte del mondo.

Il monastero venne fondato nel 1974 da Chokyi Nyima Rinpoche, discendente di un’importante famiglia della tradizione Nyingma che si era inizialmente trasferita nel Sikkim, per poi fuggirne dopo l’invasione di quest’ultimo da parte dell’India. Il Monastero Bianco ora ospita circa quattrocento monaci e il numero di coloro che desiderano entrarvi come novizi è talmente elevato che solo il 25% viene accettato.

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Dopo la deposizione del re Gynanendra nel 2008, il nuovo regime nepalese ha ostentatamente preso le distanze dalla politica pro-induista della dinastia Shah, e ha favorito invece la riscoperta della cultura newari “autoctona”, tanto da proporre la reintroduzione come calendario ufficiale del computo newari in uso nella valle di Kathmandu prima del 1769. Allo stesso tempo il nuovo regime ha adottato una politica più restrittiva nei riguardi dell’immigrazione dal Tibet, chiudendo ai visitatori stranieri il principale centro di accoglienza dei profughi e permettendo all’esercito cinese di penetrare in territorio nepalese e di arrestare i rifugiati tibetani anche quando questi ultimi hanno già oltrepassato la frontiera. Il paradosso del nuovo regime “popolare” è che in nome del rinascimento culturale newari, i maoisti filo-cinesi stanno introducendo una divisione culturale e persino religiosa fra i buddisti nepalesi e i buddisti tibetani, da lunghi secoli uniti da lingua e pratiche di culto profondamente affini.

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