Un gruppo di ricercatori italiani ha scoperto un meccanismo di resistenza ai farmaci di un tumore molto aggressivo e attualmente poco curabile, l’epatocarcinoma, per sfuggire all’azione dell’unico medicinale oggi in uso. Ed individuata una possibile strategia per potenziare l’azione della terapia ed accrescere le chance di cura, oggi non molto alte. Il risultato dello studio è stato pubblicato su ‘Scientific Reports’ e realizzato da Giovambattista Pani, ricercatore dell’Istituto di Patologia generale e dall’équipe di Antonio Gasbarrini, docente di Medicina interna e gastroenterologia all’Università Cattolica – Policlinico A. Gemelli di Roma.
Lo studio, molto articolato, ha coinvolto diversi ricercatori, sia dell’Università Cattolica – Giuseppe Maulucci, Istituto di Fisica; Roberto Scatena, Istituto di Biochimica Clinica – sia stranieri, Hans Spelbrink, Finlandia. “Abbiamo scoperto una possibile strategia per potenziare l’azione del farmaco – sottolinea Pani – che consiste nel limitare l’utilizzazione del glucosio da parte delle cellule maligne; infatti esistono già diversi tipi di agenti che potrebbero essere affiancati al Sorafenib, l’unico farmaco oggi disponibile, per potenziarne l’effetto”. L’epatocarcinoma primitivo è molto difficile da curare. Non è di per sé diffusissimo ma diventa più frequente in presenza di alcune condizioni predisponenti come la cirrosi epatica e l’epatite cronica, B e soprattutto C.
“In Italia – spiega Antonio Gasbarrini – nel 95% dei casi l’epatocarcinoma si sviluppa in pazienti con cirrosi e per tale motivo, anche se trattato in modo radicale, ha una sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi inferiore al 50%, anche perchè i pazienti sviluppano altri tumori o hanno una progressione grave dell’epatopatia sottostante”. Il problema, spiega Pani “è che si tratta di un tumore che risponde molto poco alla chemioterapia come pure all’unica terapia ‘biologica’ oggi disponibile, il Sorafenib o farmaci della stessa famiglia”. Purtroppo il farmaco ha una azione transitoria, e difficilmente è curativo perché le cellule tumorali sviluppano rapidamente resistenza attraverso vari meccanismi.
“Utilizzando delle cellule staminali di epatocarcinoma in provetta fornite dal team di Gasbarrini e trattandole con Sorafenib – racconta Pani – abbiamo osservato che il farmaco oltre a esercitare gli effetti già noti sugli oncogeni, danneggia fortemente i mitocondri delle cellule tumorali, le centraline energetiche di tutte le cellule. Abbiamo visto che le cellule tumorali sono molto furbe e rispondono al danno mitocondriale subito a opera del farmaco potenziando l’efficienza di una sorgente alternativa di energia, la cosiddetta ‘glicolisi anaerobia’”. Ecco perché solo poche cellule tumorali (circa il 30-40% nelle condizioni sperimentali esaminate) muoiono in risposta al Sorafenib.
Di qui è nata l’idea per aggirare questo ‘trucchetto’ messo in atto dal tumore. “Bloccando contemporaneamente anche la glicolisi anerobia con un altro agente – rileva Pani – abbiamo visto che l’azione curativa del Sorafenib migliorava drasticamente, fino a raggiungere il 100%”. Per dimostrare inequivocabilmente questo meccanismo sono state anche utilizzate delle cellule molto sofisticate, ingegnerizzate con un interruttore genetico che consente di ‘accendere’ e ‘spegnere’ a piacimento l’attività mitocondriale per mimare l’azione del farmaco.
Queste osservazioni, ancorché compiute esclusivamente in vitro, sono particolarmente importanti perché evidenziano un nuovo meccanismo di resistenza tumorale al farmaco (cioè l’aumento della glicolisi anaerobia che sopperisce al danno mitocondriale) e indicano una possibile strategia combinata per potenziare moltissimo l’azione del farmaco in terapia umana. Al momento gli inibitori della glicolisi disponibili sono molto tossici, ma è auspicabile che nel prossimo futuro possano essere messi a punto nuovi agenti più maneggevoli da accoppiare al Sorafenib nella terapia dell’epatocarcinoma primitivo. Questi esperimenti “sono importanti perché compiuti su cellule staminali tumorali, ovvero sulla sorgente stessa del tumore, attualmente il bersaglio d’azione preferenziale di ogni nuova terapia”, si legge in una nota.