Migranti, diritto alla resistenza: per fortuna c'è un giudice a Roma
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Migranti, diritto alla resistenza: per fortuna c'è un giudice a Roma

La suprema corte ha assolto due migranti che si erano opposti alla loro deportazione in Libia dopo essere stati salvati in mare da una nave. È stata una legittima difesa

Migranti, diritto alla resistenza: per fortuna c'è un giudice a Roma
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

18 Dicembre 2021 - 18.39


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C’è un giudice a Roma. O meglio ancora: c’è una Corte che fa giustizia. 

Corte di giustizia. Quella vera.

A ricostruire la vicenda, su Avvenire, è Stefano Zirnella: “Con una sentenza per molti aspetti storica – scrive – la Corte di Cassazione ha deciso una questione giuridica del tutto nuova,  La questione è se possa considerarsi legittima la condotta di persone migranti che, dopo essere state soccorse in acque internazionali da una nave italiana (il rimorchiatore Vos Thalassa), assumano atteggiamenti aggressivi verso l’equipaggio per evitare di essere riconsegnate alle autorità libiche, costringendo il comandante a rivolgersi alle autorità italiane e ottenendo, infine, di essere portate in Italia.

La norma applicata dalla Cassazione è la “legittima difesa”, che nel suo nucleo centrale è rimasta immutata da quasi un secolo: «Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa» (articolo 52 Cp).

Prima di giungere in Cassazione, la questione era stata oggetto di pronunce di segno opposto da parte dei giudici di merito. Nel 2019 il gup di Trapani aveva riconosciuto la legittima difesa, affermando che i migranti avevano difeso il proprio diritto a non essere respinti verso la Libia (un Paese nel quale rischiavano di subire torture e trattamenti inumani e degradanti), ossia quel diritto al nonrefoulement che è cristallizzato nell’ordinamento italiano e internazionale, già riconosciuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo proprio in un caso di respingimento verso la Libia (sentenza Hirsi del 2012). Nel 2020, tuttavia, la Corte d’Appello di Palermo aveva ritenuto che i migranti, intraprendendo il viaggio verso l’Europa, avessero volontariamente generato il pericolo dal quale pretendevano di difendersi, e che ciò precludesse l’operatività della legittima difesa. 

Conseguentemente, i giudici palermitani avevano inflitto agli imputati una severa condanna per i reati di resistenza, violenza e minaccia a pubblico ufficiale, nonché di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Il procedimento è giunto infine in Cassazione e la Suprema Corte ha annullato la condanna, riconoscendo che gli imputati avevano in effetti agito per legittima difesa, come originariamente stabilito dal gup di Trapani. Le motivazioni non sono state ancora depositate, ma fin d’ora si possono esprimere alcune valutazioni. 

Anzitutto, è evidente che la sentenza della Corte d’Appello era incorsa in un errore logico, confondendo il pericolo al quale si erano esposti i migranti (quello di naufragare durante la traversata) con il pericolo generato dal comandante della Vos Thalassa, sulla base delle istruzioni ricevute dalle autorità italiane (quello di subire atti di violenza da parte delle autorità libiche). In secondo luogo, la sentenza Vos Thalassa può essere letta congiuntamente alla sentenza Rackete, nella quale la Cassazione aveva ritenuto giustificata la resistenza a pubblico ufficiale realizzata dalla comandante della Sea Watch-3 sulla base dell’adempimento del dovere di soccorso in mare. 

Tanto l’adempimento del dovere di soccorso, quanto la legittima difesa, sono regole che servono a risolvere contrasti tra interessi confliggenti, determinando la prevalenza dell’interesse di rango superiore. Ecco allora che, ogniqualvolta si cerchi di far prevalere l’interesse alla protezione dei confini rispetto ai diritti fondamentali alla vita e all’integrità fisica, è del tutto fisiologico che queste norme vengano in rilievo per giustificare il ripristino, persino con la forza, del corretto bilanciamento dei valori in gioco. Di fronte ai tentativi di trasformare il Mediterraneo in un confine italiano ed europeo invalicabile per migranti e richiedenti asilo, l’ordinamento giuridico sta dimostrando di essere in grado di reagire, grazie all’intelligenza, alla lucidità di pensiero e anche al coraggio degli avvocati difensori e a magistrati fermi e sereni nel giudizio”.

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Così Avvenire.

“Esprimiamo grande soddisfazione per questa importante pronuncia che, in linea con l’orientamento già espresso nella vicenda della comandante Rackete e, prima ancora, nella sentenza Hirsi Jamaa e altri del 23 febbraio 2012, ribadisce, una volta di più, che le operazioni di soccorso in mare che si concludano con il rimpatrio dei naufraghi in Libia costituiscono una violazione di principio del non refoulement e violano il diritto delle persone soccorse ad essere portate in un posto sicuro dove la loro vita non sia più minacciata e sia garantito il rispetto dei loro diritti fondamentali”, dicono gli avvocati che hanno seguito i migranti, Fabio Lanfranca e Serena Romano.

Si è trattato di una sentenza storica alla luce dell’udienza di Palermo nei confronti di Matteo Salvini, ma soprattutto considerando gli oltre 30 mila migranti intercettati dall’inizio dell’anno dalla guardia costiera libica e riportati indietro, in un paese non sicuro dove i più basilari diritti umani non sono garantiti. E la Cassazione lo ha confermato inequivocabilmente.

Elezioni, la farsa è differita

Nel caos libico a regnare è la “diplomazia delle armi”. Nella serata di mercoledì gruppi armati hanno circondato i palazzi delle istituzioni, come riporta la stampa locale e internazionale. Le proteste sarebbero scattate in seguito alla scelta del presidente Mohammed al Menfi di sostituire il comandante supremo dell’esercito libico, Abdul Basit Marwan, con Abdel Qader Mansour come comandante della zona militare di Tripoli, anche se è molto probabile che la ribellione sia serpeggiata in seguito all’impossibilità di tenere le elezioni presidenziali il 24 dicembre, come inizialmente previsto. Tensioni, dunque, ma nessun colpo di Stato, hanno assicurato fonti libiche all’Adnkronos, secondo cui la situazione è tornata “alla quasi piena normalità”.

La protesta è nata dalla sostituzione del capo della zona militare di Tripoli Abdul Basit Marwan con Abdel Gader Mansur, legato alla milizia 444 di Mahmud Hamsa, che sarebbe vicino alla Turchia, decisa dal Consiglio presidenziale. Una decisione legittima nell’ambito delle sue competenze e una scelta anche giusta, sottolineano le fonti, dal momento che Marwan era considerato troppo legato al periodo della guerra contro il generale Kalifa Haftar, ma contestata dalle milizie che ritengono di essere state private di un loro “protettore”. E che ne hanno approfittato per ‘umiliare’ sia il consiglio presidenziale che il premier del governo di unità nazionale e candidato alle elezioni Abdul Hamid Dbeibah. Che, come gli altri candidati, ha bisogno del sostegno delle milizie di Tripoli e di chiudere un accordo con l’est e con Haftar, preoccupato come lui per la candidatura di Seif Gheddafi, secondo quanto sostengono alcuni osservatori.

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Si va dunque verso un rinvio “tecnico” delle elezioni alla fine di gennaio, primi di febbraio, elezioni che in molti volevano evitare per non perdere la propria fetta di potere, mentre si lavora ad un nuovo governo di unità nazionale, a presiedere il quale potrebbe essere lo stesso Dbeibah o Fatih Bashagha, ex ministro dell’Interno con Serraj e candidato anche lui alle presidenziali. Intanto oggi si è fatto risentire Salah Badi, comandante della ‘Brigata Al-Somoud’, tra le protagoniste dell’azione di mercoledì notte. “Non ci saranno elezioni presidenziali fin quando ci saranno i nostri uomini. Non ci accontentiamo di elezioni in questo modo, a partire da ora le cose cambieranno, ci siamo accordati su una decisione semplice che ribalterà le cose”, ha scandito in un video postato su Facebook, nel quale ha accusato la consigliere speciale per la Libia del segretario generale dell’Onu, Stephanie Williams, di aver avuto un “ruolo criminale” nell’aprile del 2019 a Tripoli, durante l’offensiva del generale Khalifa Haftar.

“Non resterai nelle nostre terre”, ha minacciato. La consigliera del segretario generale delle Nazioni Unite Stephanie Williams oggi era  a Sirte, dove ha  incontrato il sindaco, gli anziani della città e alcuni rappresentanti della società civile. Prima di arrivare a Sirte, attraverso la strada costiera riaperta nelle settimane scorse nell’ambito del processo di  riconciliazione tra est e ovest, Williams ha avuto un breve incontro  con i membri della forza congiunta che si occupa della sicurezza della strada. In un tweet, la rappresentante dell’Onu ha sottolineato come questa confermi “la volontà del popolo libico di costruire la pace e  di andare oltre il passato, superando gli interessi ristretti e le  interferenze straniere”. Il leader della Brigata al-Samoud, Salah Badi, originario di Misurata, ha dichiarato che le elezioni non ci saranno. Per la prima volta, un funzionario dell’Alta commissione elettorale, ha ammesso che sarà “impossibile” votare il 24 dicembre, confermando il timore che circola da settimane. Anche quelle del capo della commissione Interni della Camera dei rappresentanti, Sulaiman Al-Harari, sembrano dichiarazioni di resa: tutti i segnali portano al necessario rinvio delle elezioni, ha avvertito chiedendo al capo dell’Alta commissione elettorale di ammettere di non essere in grado di organizzare le elezioni.  La mobilitazione dei gruppi armati sotto l’autorità di varie forze militari e di sicurezza a Tripoli “è avvenuta – ha spiegato una fonte militare alla France Press – poche ore dopo che il generale Abdelkader Mansour si è insediato come nuovo comandante militare della regione di Tripoli su ordine del Consiglio presidenziale”.

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Mercoledì il Consiglio, massima autorità esecutiva e ufficialmente alla guida degli eserciti, ha licenziato il generale Abdelbasset Marouane, titolare di questo incarico da diversi anni, per sostituirlo con Mansour. Un altro componente della Commissione elettorale libica (Hnec), Abubaker Marda, ha dichiarato alla tv al Jazeera che tenere le elezioni libiche già il 24 dicembre “è diventato impossibile”.

A riferirlo è stato  il sito Alwasat, ricordando che mancano meno di dieci giorni alla data del vito ma la Commissione non ha annunciato le liste finali dei candidati né per le elezioni presidenziali né per quelle parlamentari.  A Tunisi  si sono incontrati  l’ambasciatore Usa per  la Libia, Richard Norland, e il capo dell’Alta commissione elettorale  libica, Imad al-Sayeh. “In un incontro con Sayeh a Tunisi – si legge  in un tweet dell’ambasciata Usa con dichiarazioni attribuite a Norland – ho ribadito il sostegno degli Stati Uniti per le elezioni e la  nostra fiducia nella capacità dell’Alta commissione elettorale di  assicurare risultati del voto liberi e giusti”. Secondo fonti locali al Menfi e i membri del Consiglio presidenziale sono stati portati in un luogo sicuro dopo che erano circolate notizie circa la volontà dei miliziani di assaltare le loro case. Diversi quartieri di Tripoli sono rimasti senza corrente elettrica.  

Le elezioni, che dovrebbero traghettare la Libia fuori dal caos a dieci anni dalla caduta di Muammar Gheddafi, erano già appese a un filo dopo che sabato scorso a due settimane dal voto l’Alta Commissione elettorale libica (Hnec) aveva annunciato il rinvio sine die della pubblicazione della lista definitiva dei candidati presidenziali spiegando di dover ancora “adottare una serie di misure”, ma bloccando di fatto anche la già breve campagna elettorale. Sembra dunque sempre più improbabile che alla vigilia di Natale si svolga la sfida fra il generale Khalifa Haftar, il figlio del colonnello Seif al Islam Gheddafi e lo stesso premier Dbeibah. Una corsa potenzialmente allargata al presidente del parlamento di Tobruk Aqila Saleh, all’ex ministro dell’Interno Fathi Bashagha e al già vicepremier Ahmed Maitig. Il voto potrebbe quindi slittare al 2022, e la Libia scivolare in nuove sabbie mobili. 

Annota saggiamente su Huffington Post l’ambasciatore Michele Valensise: “Quando il passo è più lungo della gamba il rischio è di finire a terra. In Libia la data del 24 dicembre fissata da tempo per lo svolgimento delle elezioni si sta rivelando un passo troppo lungo rispetto alle capacità reali. E’ chiaro che la settimana prossima non si voterà, anche se finora manca un annuncio ufficiale. Non ci sono le condizioni essenziali per una consultazione elettorale, la legge elettorale è molto lacunosa, lo stesso sistema costituzionale in cui si inserirebbe il processo elettorale è tutt’altro che definito, né è stato chiarito se le elezioni debbano essere solo parlamentari o anche presidenziali, abbondano le contestazioni sulla ammissibilità di varie candidature. Prevalgono confusione e incertezza…”.

Libia e le elezioni.  La farsa continua. 

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