Guerini vince il premio del miglior "piazzista" d'armi alla Difesa
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Guerini vince il premio del miglior "piazzista" d'armi alla Difesa

Mantenendo il  low profile che lo caratterizza da sempre lavorando sotto-traccia, è arrivato a dama. A renderlo noto è l’Osservatorio Milex sule Spese Militari Italiane.

Guerini vince il premio del miglior "piazzista" d'armi alla Difesa
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

4 Dicembre 2021 - 13.41


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Nella corsa a chi ne piazza di più di programmi di armi, Lorenzo Guerini ” ha battuto tutti i suoi predecessori al ministero della Difesa. Mantenendo il  low profile che lo caratterizza da sempre, senza clamori mediatici che non sono mai stati nelle sue corde, lavorando sottotraccia, è arrivato a dama.   Nel corso del 2021 il ministro della Difesa del governo Draghi, Lorenzo Guerini, ha sottoposto all’approvazione del Parlamento un numero senza precedenti di programmi di riarmo. Diciotto in tutto, di cui ben tredici di nuovo avvio, per un valore già approvato di oltre 11 miliardi di euro e un onere complessivo previsto di oltre 23 miliardi”.

A renderlo noto è l’Osservatorio Milex sule Spese Militari Italiane.

Il ministro “piazzista”

“Dando il via libera a questi programmi, quasi tutti trasmessi alle Camere a tambur battente nell’arco di otto settimane tra fine settembre e metà novembre (due trasmessi ad agosto), le commissioni parlamentari competenti (Bilancio e Difesa) hanno autorizzato (o lo faranno entro fine anno) spese per quasi 300 milioni nel 2021 e oltre 400 milioni nel 2022. I pareri favorevoli – osserva Milex – sono stati espressi sempre all’unanimità”. 

La parte del leone la fa l’Aeronautica Militarecon programmi per oltre 6 miliardi e mezzo di euro complessivi: dall’avvio della fase di ricerca e sviluppo del nuovo caccia di sesta generazione Tempest (2 miliardi dei 6 previsti) ai nuovi eurodroniclasse MALE, dai nuovi aerei da guerra elettronica Gulfstreamalle nuove aerocisterne per il rifornimento in volo KC-46, dal nuovo sistema di difesa aerea NATO al nuovo centro radar spaziale di Poggio Renatico.

Una grossa fetta della torta, circa 2,4 miliardi di euro, è quella dei programmi interforze: i droni kamikaze per le forze speciali e soprattutto le nuove batterie missilistiche antiaeree basate sui missili Aster: il programma più caro, da oltre 2,3 miliardi di euro. 

I restanti programmi fanno capo a Marina Militareed Esercito, con stanziamenti di circa un miliardo ad Arma. Per la prima ci sono le nuove navi ausiliarie e da supporto logistico, i nuovi radar missilisticiper le fregate Orizzonte e la nuova rete diradar costieri.

Per l’Esercito ci sono i nuovi blindati Lince 2, i nuovi elicotteri AW-169, il nuovo posto di comando per le missioni. Stessi elicotteri e blindati, oltre a camionette e autocarri, anche per i Carabinieri, in coda con due programmi da poco più di 300 milioni di euro.”.Questo il succo del rapporto Milex.


Quell’invocazione inascoltata

Scrive su Avvenire Francesco Palmas
“C’erano state le invocazioni del Pontefice e dell’Onu, tutte tese a far tacere le armi, almeno nei momenti più drammatici della pandemia. E alcuni avevano sperato che il mondo post-Covid sarebbe diventato meno bellicoso. Invece il risveglio è stato ancora più duro. Nel 2020, le spese militari mondiali sono aumentate del 2,6% rispetto al 2019, anno record di esborsi, mai così iperbolici dalla fine della guerra fredda. L’anno scorso eserciti e armi hanno fagocitato quasi due trilioni di dollari (1.981 miliardi), a dispetto del crollo della ricchezza mondiale, prevista dal Fmi intorno al -4,4%. 

È lapidario l’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (Sipri) di Stoccolma: «La pandemia non ha inciso significativamente sulle spese militari mondiali». Il mondo si è fatto policentrico, non solo economicamente, ma anche dal punto di vista strategico. Le grandi potenze militari, Stati Uniti, Cina e Russia in testa, non spiegano da sole le dinamiche in atto. Il campo delle medie potenze è in forte ascesa, se solo si pensa alla Turchia, al Giappone, alla Corea del Sud, agli Emirati Arabi Uniti, all’Iran, a Israele. Tutte, o quasi, reclamano uno spettro d’azione più ampio, hanno una strategia integrale, combinano metodi di soft power, assoldano vassalli e «proxy», investono nel cyber e nello spazio, ordiscono operazioni militari interforze a distanze geografiche impensabili dieci anni fa. Riarmano. La potenza d’urto, brutale, dura, lungi dall’essere scomparsa, come profetizzato da alcuni analisti negli anni ’90, è divenuta la chiave di volta dei conflitti attuali, come si è visto nel Caucaso, nel Donbass e nelle tecno-guerriglie mediorientali e africane. 

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La sfida è immensa. Ci sarebbe da pensare alla pace, agli investimenti colossali del post-pandemia e invece i grandi del pianeta si stanno ri-preparando a scontri fra titani. Non è un caso che Stati Uniti (39%), Cina (13%), India (3,7%), Russia (3,1%) e Regno Unito (3%) concentrino il 62% delle spese militari mondiali

 Per il Sipri, Pechino spende molto più di quanto dichiari: 252 miliardi di dollari anziché 212. Le sue poste di bilancio crescono per il 26° anno consecutivo, obbligando la rivale India ad allungare il passo (72,9 miliardi). Le mire cinesi sullo scacchiere indo-pacifico spingono al rialzo anche gli investimenti giapponesi, sudcoreani e australiani. Potenza bicontinentale, la Russia sborsa sempre di più (+2,5%), costringendo i Paesi europei a rimodulare i loro investimenti (+4%), vuoi per controbattere, vuoi per sottostare agli obblighi con la Nato, vuoi per la ricerca di una maggiore autonomia strategica. Fatto grave, le spese militari tornano a crescere pure in Africa, soprattutto nei paesi più colpiti dalle ribellioni jihadiste, come il Mali (+22%), la Mauritania (+23%), la Nigeria (+29%), il Ciad (+31%) e, caso a parte, l’Uganda (+41%)”.

Una medaglia del disonore

Rimarca Alberto Bobbio su L’eco di Bergamo, in un articolo pubblicato il 12 agosto 2021, quando l’Italia si esaltava per le medaglie olimpiche:Abbiamo scalato la classifica dei primi quindici con una spesa di qualità, nonostante la pandemia, con una corsa fantastica all’ultimo miglio – scrive Bobbio -. I dati del Sipri, l’istituto svedese più autorevole del pianeta nel monitoraggio dei supermercati armati, ci inchiodano senza replica e svelano l’inganno dei numeri. Infatti se è vero che la nostra spesa complessiva non raggiunge il 2% del Pil e apparentemente il dato ci tiene al riparo dalle polemiche dei pacifisti, è purtroppo altrettanto vero che siamo quelli che corrono più veloce come a Tokyo 2020 e, soprattutto, abbiamo scelto il nuovo che si offre su un mercato meraviglioso. superando con uno scatto mai avvenuto nella storia della Repubblica la cifra record di sette miliardi di euro per nuovi armamenti. La dottrina del ministro della Difesa Lorenzo Guerini su un esercito più moderno, più efficiente, più «proiettato» sugli scenari internazionali è stata un successo. Il virus ha distratto le opinioni pubbliche e la pioggia di miliardi europei ha autorizzato una sorta di «tana libera tutti» e avviato processi mai accordati precedentemente, quando sulla spesa militare si andava più cauti. Questa volta invece mentre Bruxelles il mese scorso autorizzava la madre di tutti i bonifici, il ministero della Difesa con firma del ministro, pubblicava il Documento programmatico pluriennale della Difesa, 250 pagine nascoste tra un oro olimpico e l’altro, che pongono l’Italia in cima alla classifica della vergogna. Anche il dibattito sulla loro necessità è sparito. Per welfare, salute, lavoro, innovazione, digitale, opere pubbliche e il resto ora i soldi li abbiamo, dunque, senza più disagio e imbarazzo politico, occupiamoci gagliardamente di armi accontentando generali e centri studi strategici, lucidando il rapporto tra Forze armate e industria e sostenendo l’export, che per le armi significa vendere a chi le usa o intende usarle. La dottrina Guerini prevede un migliore coordinamento tra Difesa, Esteri, Sviluppo economico e Finanze. Insomma per produrre e vendere bene occorre «sincronizzare», come ha spiegato il ministro in un report di pochi giorni fa «tutte le componenti del Paese». Ecco giustificati i sette miliardi e più per nuovi armamenti”.

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Se per sole 26 ore…

 “Se i governi rinunciassero alle spese militari per sole 26 ore, avremmo 5,5 miliardi di dollari a diposizione per salvare 34 milioni di persone dalla fame nei prossimi mesi in paesi piegati da guerra, pandemia e cambiamenti climatici”. Lo denuncia Oxfam con altre 250 organizzazioni umanitarie, in una lettera aperta, con la quale rivolgono un appello ai leader mondiali per scongiurare la catastrofe umanitaria in Paesi come Yemen, Afghanistan, Etiopia, Sud Sudan, Burkina Faso, Nigeria, a un anno esatto dall’allarme delle Nazioni Unite sull’aumento esponenziale della fame. “Secondo le stime delle Nazioni Unite, già a fine 2020, 270 milioni di persone erano sull’orlo della carestia – rimarcava per l’occasione  Francesco Petrelli, policy advisor di Oxfam Italia -. Ebbene, 174 milioni di persone in 58 Paesi stanno già rischiando di morire di malnutrizione e questo numero potrebbe aumentare nei prossimi mesi, senza un intervento immediato da parte della comunità internazionale. Sono 80 i Paesi su 100 in cui le agenzie delle Nazioni Unite intervengono sono colpiti da conflitti. Bisogna spezzare il nesso mortale guerra-fame e simbolicamente noi chiediamo di farlo, smettendo di vendere armi anche solo per un giorno”.
Oxfam segnala inoltre che, nel primo trimestre del 2021, i grandi donatori internazionali hanno stanziato solo il 6,1% dei 36 miliardi di dollari richiesti dalle Nazioni Unite per fronte alle più gravi emergenze umanitarie in corso, mentre per la lotta alla fame aggravata dalla pandemia hanno destinato appena 415 milioni (il 5,3%) dei 7,8 miliardi di dollari necessari ad evitare milioni di morti. “Anche l’Italia, secondo gli ultimi dati disponibili, è passata da oltre 108 milioni di aiuti bilaterali per far fronte all’insicurezza alimentare nei paesi poveri nel 2018, a poco più di 66 nel 2019″. “Abbiamo avvertito i donatori più e più volte: la loro inerzia sta portando alla morte e alla disperazione dei bambini, come vediamo ogni giorno nei paesi di tutto il mondo. A inizio marzo, la conferenza per gli aiuti in Yemen non ha raccolto nemmeno la metà dei fondi necessari e ora quel Paese è a un punto critico”, ha commentato Inger Ashing, ceo di Save the Children International.

L’appello è del 20 aprile scorso. Sette mesi dopo, la situazione è peggiorata.

Dalla denuncia di padre Zanotelli…

“I dati dell’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri) dicono che lo scorso anno la spesa militare nel mondo è stata di 1981 miliardi di dollari, con un aumento del 2,6% rispetto al 2019. Un paese come l’Italia, che non è in guerra con nessuno, ha speso 27 miliardi di euro e si stima che a fine 2021 si toccheranno i 30 miliardi di euro. Con un export che sfiora i 4 miliardi”. Lo scrive su Nigrizia padre Alex Zanotelli, missionario comboniano che negli anni ’80 fu estromesso dalla direzione di questa rivista della sua Congregazione proprio per aver denunciato l’incoerenza del governo italiano in materia. 30 anni dopo l’Italia continua a figurare tra i costruttori e gli esportatori di armi, lasciando che la Costituzione e il Parlamento siano calpestati insieme ai bambini bombardati in Yemen dalle bombe fabbricate in Sardegna, a Domusnovas. “Non possiamo accettare tutto questo. Il sistema deve per forza armarsi perché una minoranza dell’umanità consuma la quasi totalità dei beni. Le armi proteggono privilegi e sfruttamento”, denuncia Zanotelli.

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All’analisi del professor Simoncelli…

Di grande interesse è il dettagliato report del professor Maurizio Simoncelli, tra i più autorevoli studiosi di armamenti, pubblicato da Sbilanciamoci: “Oltre a lievitare il valore del nostro export, – rimarca Simoncelli – in questo nuovo millennio aumenta anche il numero dei paesi nostri clienti: dalla settantina del primo decennio agli oltre 80 del secondo decennio. Inoltre quasi il 60% del nostro export s’indirizza verso paesi extra NATO/UE e per l’esattezza quasi il 39% approda nel Nord Africa e nel Medio Oriente, dove abbondano guerre, aree di crisi e dittature varie. Infatti l’Egitto di al-Sisi si posiziona con 991,2 milioni di euro come primo acquirente a livello globale, avendo concluso un maxi contratto, che comprende la fornitura immediata di due navi FREMM (a cui dovrebbero seguire altre 4 fregate, 20 pattugliatori d’altura di Fincantieri, 24 caccia Eurofighter Typhoon, 20 velivoli da addestramento M346 di Leonardo, più un satellite da osservazione, per un valore totale stimato sui 10 miliardi di euro). Il Cairo, dopo un breve rallentamento del nostro export in seguito all’omicidio di Giulio Regeni, ha visto risalire enormemente la quota di armamenti da noi inviatigli: dai 7,4 milioni di euro del 2017 ai 69,1 del 2018, agli 817,7 del 2019 sino a quasi un miliardo dello scorso anno.   Tra gli altri clienti troviamo il Qatar, il Turkmenistan, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, la Cina (peraltro oggetto di un embargo dell’UE), la Turchia e Israele.

Insomma, anche nell’anno del Covid il settore continua a reggere e ben 354 sono le società iscritte nel Registro nazionale che raccoglie le ditte impegnate in questo ambito produttivo.

E’ opportuno notare anche che quasi la totalità del valore esportato (91,48%) è comunque relativo alle prime 15 società esportatrici (sulle 123 segnalate nella Relazione). Infatti l’export delle prime quattro aziende rappresenta circa il 71,32% del valore totale: Leonardo (31,58%), Fincantieri (25,27%), Iveco Defence Vehicles (8,66%) e Calzoni (5,81 %). All’interno della voluminosa Relazione troviamo nella sezione del ministero della Difesa anche una valutazione preoccupata della recente revoca dell’export di bombe e missili all’Arabia Saudita, accusata di crimini di guerra in Yemen dall’ONU: “Il dicastero della Difesa, in conclusione, rimarca come le recenti restrizioni imposte alle esportazioni verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, avendo suscitato perplessità presso le Autorità locali, possano configurare un potenziale rischio di natura economica per tutto il volume dell’export nazionale generalista verso i citati Paesi”, evidenziando solo un’apprensione di tipo economico e ignorando le ripercussioni geopolitiche, se non morali, delle nostre forniture a paesi impegnati nella sanguinosa guerra nello Yemen.

Per arrivare a concludere che: “Considerato che la legge 185 vieta l’export verso paesi in guerra o dove non sono rispettati i diritti umani, si può rilevare come lo spirito della legge sia stato di fatto aggirato e questo, purtroppo, è avvenuto negli anni indipendentemente dal colore dei diversi governi succedutisi a Palazzo Chigi. E’ contemporaneamente possibile notare che la conflittualità nordafricana e mediorientale rappresenta un ottimo mercato per l’export italiano, europeo e mondiale, salvo poi costituire un problema quando le popolazioni locali fuggono da quei territori infiammati e si presentano alle nostre frontiere.

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