I nuovi violenti: compatti in tuta nera, invisibili a volto scoperto
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I nuovi violenti: compatti in tuta nera, invisibili a volto scoperto

Il giorno dopo il May Day Parade, un racconto da dentro il blocco di giovani No Expo che ha usato il corteo per devastare alcune vie di Milano.

I nuovi violenti: compatti in tuta nera, invisibili a volto scoperto
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2 Maggio 2015 - 18.12


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di Miriam Giovanzana

Ti chiamerò Sergio. Ci incontriamo, o meglio tu mi spunti alle spalle all’improvviso – colpa mia che non ti avevo preso in considerazione – a metà di via De Amicis, e con una mano mi fai abbassare il telefono con il quale avevo scattato una foto a due che stavano sradicando un archetto di quelli che impediscono alle auto di invadere i marciapiedi e dici deciso “Mai più, mai più!”. I gesti e le parole non ammettono replica, ma non urli.

Ti inseguo, e mi presento, e ti stringo la mano. Se leggi ti ricorderai. È fuori dalle regole, e per un momento ti sorprendo. Provo a dirti – visto che tu non ti presenti – che la mia foto era innocua, visto che i tuoi (amici? compagni? crew?) – probabilmente non li conosci nemmeno – sono totalmente incappucciati, vestiti di nero, di spalle e quindi completamente irriconoscibili.

Disordini NoExpo

Pochi secondi, non fai in tempo a pensare – né tu né – io, alzo il telefono non nell’atto di rifotografare (non sono così coraggiosa né provocatoria), ma dalle spalle spunta un altro, più alto di te, più veloce, forse uno o due anni più di te. Ti chiamerò Marco. Mi rubi il telefono (dire che me lo strappi sarebbe improprio, perché il gesto è più abile che violento), rapina, velocità, sottrazione dello spazio altrui.

Sono alcune delle cose che vi caratterizzano in questo primo maggio: tutto si consuma rapido, quasi automatico, ma nulla per caso. Ci si copre le spalle a vicenda, anche se non ci si conosce, ma ci si riconosce e si agisce come un corpo solo (e questa è ebbrezza che vi pervade), tutto molto diverso rispetto al resto del corteo, corpo molle che al primo imprevisto non sa che fare.

Voi no. Non ci sono imprevisti nel vostro agire. Tutto è improvvisazione, decisione istantanea, rapidità, ma non imprevisto. Mordi e fuggi. Lascia il tuo segno, la tua impronta e scompari.

Non vi importa di comparire. E non siete inconsapevoli (questo è uno dei punti a cui tenete). Però non sapete, non avete visto in faccia la desolazione del proprietario del negozio di cucine a cui avete devastato porta e vetrine. Vi sorprenderebbe.

Perché prendersela con un negozio di cucine, neppure particolarmente lussuoso? Non siete perfetti, e neppure v’importa. L’errore è ammesso. I ripensamenti no.

Marco, anche te ti rincorro (pochi metri per la verità), anche tu coperto il volto con casco e sciarpa sotto il naso, e anche a te ridico che le foto sono innocue, e quando ti metti a insultarmi e a darmi del provocatore e a incominciare ad alzare il tono – penso che non me lo ridarai il telefono – da destra si avvicina una donna, a volto scoperto, che mi prende sottobraccio e m’invita a non insistere, ad andarmene, ad allontanarmi.

Nella situazione è come un piccolo samaritano che interviene per proteggermi, per impedirmi di cacciarmi in un guaio più grosso –e gliene sono grata-. Poi scompare.
Nel frattempo tu, Marco (inutile dire che i nomi sono di fantasia), mi hai ridato il mio telefono. Pensavo che l’avresti lanciato da qualche parte, sfasciandolo.
Alla fine avete usato gentilezza.
Nulla accade per caso. I due che svellono l’archetto a cui i milanesi appiccicano le loro bici, Sergio che mi ammonisce, Marco che viene in suo aiuto, la samaritana che mi protegge. Chissà se vi conoscete? Certo, vi riconoscete.

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Non è una rabbia di pancia. Tutta di testa. Non colpite a caso.

Alla domanda perché, e come, ho cercato risposta prima che tutto accadesse.

Ore 14, venerdì primo maggio.
L’appuntamento è noto. Al tg delle 13.30 il giornalista ha alle spalle una piazza XXIV maggio ancora largamente vuota. Faccio in tempo ad avviarmi. Alle 14,15 non c’è ancora molta gente, l’appuntamento era alle 14 ma qui nessuno ha fretta. Si celebra il lavoro e soprattutto il lavoro che non c’è, in un venerdì che è anche di ponte. Il cielo è gonfio di nuvole e a Milano è il giorno più freddo di questo inizio di primavera. Poi, la piazza si riempie. Molto più che negli anni precedenti. Il corteo parte attorno alle 14,40, allo slogan “Inaugurano Expo, noi ci prendiamo la città”; quando la testa del corteo è all’incrocio con corso Genova, noi siamo ancora fermi in piazza XXIV maggio.

Voi avete scelto la fine di viale D’Annunzio per prepararvi. Più in là c’è la Darsena appena riaperta e inaugurata per Expo: in queste notti e in questi giorni è già iniziata la battaglia di guardie e ladri tra chi imbratta di notte e il Comune che cancella di giorno.
Piazza XXIV maggio è un incrocio di quattro vie: viale Gabriele D’Annunzio dove v’incontro è la più larga delle quattro. Ma, soprattutto, è priva di telecamere, o almeno così a me pare. Un caso?

Come vi si cerca quando siete a volto scoperto?

Che buffo: quando siete coperti, mimetizzati, vestiti di blu scuro o di nero, con i caschi, anche questi quasi tutti neri, quando fate i casseurs vi vediamo, quando invece siete a volto scoperto noi non vi vediamo. Illusione?
Nella piazza ci guardiamo negli occhi, molti del corteo vi incrociano, con qualcuno vi salutate.

Età media attorno ai vent’anni, qualcuno di più, qualcuno di meno. Soprattutto italiani.
Volti dolci, giovani. Non arrabbiati. Ma concentrati sì. Si parla poco, quasi solo saluti e qualche parola. Nessuno di voi, mi pare, ha in mano un telefono. Strano per dei giovanissimi. Neanche un selfie. Il resto del corteo è caciarone e festoso, pur nella drammaticità dei temi che si affrontano con gli slogan. D’altra parte è perfettamente normale, e voi lo sapete: il telefono cellulare, utilissimo in molte occasioni, ha il brutto difetto di tracciare la vostra posizione, e se un giorno qualcuno dovesse incolparvi di essere stati lì certamente non vorreste che fosse proprio il vostro telefono a confermare la cosa. Niente telefoni dunque.

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Ad un certo punto una borsa vuota, un borsone da quelli di poco prezzo, mi viene lanciato tra i piedi, abbandonato. Poco più in là alcuni di voi si abbassano e tolgono dagli zaini felpe e k-way. Gli occhiali scuri, nonostante il cielo a pioggia, sono già tanti. Poi vedo qualche casco nero. Cominciate a cambiare colore, impercettibilmente. Non vi si distingue ancora. Ci guardiamo negli occhi, a lungo. Io ho i capelli bianchi, ben visibile nel mio abbigliamento chiaro. Mi tengo sulle mie. Ad un certo punto compaiono e mi affiancano gli avvocati del legal team. È evidente a tutti che non siamo parte del corteo, nessuno si scandalizza o si inquieta. Questa è la parte in chiaro della manifestazione. Appartiene a tutti, nessuno ha più diritto di un altro di stare qui o lì.

Ad un certo punto, quasi un’ora dopo l’inizio del corteo, non so qual è il segnale, ma vi muovete. D’improvviso è come se, oltre l’angolo, si fosse creato un vuoto e rapidamente questo vuoto vi inghiottisse. Il vostro posto: un’ora dopo la testa del corteo, prima dei migranti, prima dei cobas, prima della coda del corteo.
Vi siete mossi all’unisono. Mi spiace di avere perso il segnale di partenza.
Chi vi guarda dalle finestre di corso di Porta Ticinese vi vede ma, appunto, non siete neri e non vi riconosce.

Quando vi cambiate?
Nello spazio di 600 metri, fuori dalla portata delle telecamere. Compatti, un cielo di caschi neri, uguali o abbastanza simili, così da essere, come tutto il vostro abbigliamento da qui in avanti irriconoscibili. Avete coperto anche le scarpe da ginnastica con delle piccole maglie nere, così che neppure il marchio commerciale si riconosca (in effetti mi ero chiesta come mai portaste tante Adidas, e se non fosse troppo facile così per la polizia sgamarvi in caso di vandalie).
Ora che siete tutti lì vi si prova a contare. Secondo me, vestiti di nero e senza marchi siete circa 500. Ma se poi ci aggiungiamo quelli che si vestono e si svestono, e i tanti “samaritani” che in qualche caso vi fiancheggiano, o quelli che rapidi vanno in avanscoperta nelle vie laterali, quelle non presidiate, siete un po’ di più.

Telecamere

La questione delle telecamere è interessante. Appena parte il corteo c’è un McDonalds, ma è come se non v’interessasse, non lo degnate di uno sguardo (poi qualcuno torna indietro ad imbrattarlo, ma fa poco danno). Ma è proprio lì, all’inizio dell’area C del centro storico, che ci sono le telecamere di sorveglianza del traffico, alte e irrangiungibili, tracciano tutto. Passate oltre. Così per la prima via del corteo, corso di porta Ticinese: anche qui ci sono telecamere a mezzo, e voi non siete ancora pronti. È alla svolta, in via Molino Dorino e poi in via De Amicis che tutto cambia. Ma ci vuole ancora del tempo, e poi ci sono ancora le telecamere della corsia riservata. Passate davanti alla sede di un concessionario Bmw, grandi vetrine, ma entrano in gioco solo le bombolette spray. E qualche sasso. La prima vetrina rotta è dopo corso Genova. E da qui in avanti le telecamere sono poche.

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A metà di via De Amicis è dove mi prendete il telefono.

Bastoni

Ma c’è un altro fatto. Quando siete partiti non avevate bastoni. Né armi contundenti. In parte ve li procurate sulla strada: i cartelli stradali e gli archetti divelti, i mattoni storici dei muretti intorno a sant’Ambrogio… Ma i bastoni? I martelli pesanti, i martelletti d’acciaio? Il primo bastone lo vedo in via De Amicis, Marco ne hai in mano uno, e mi fai paura. Ma poi tanti, tutti uguali e della stessa lunghezza. In mezzo al corteo, ormai completamente nero, spunta non so da dove un carrello di quelli da supermercato in cui tutti pescate, mentre gli altri fanno da schermo alla scena. Certamente i bastoni, e altro, qualcuno li ha portati sul percorso del corteo. Le birre no. Quelle scorrono a fiumi e le bottiglie vuote (perché in un corteo a rischio si vendono tante bottiglie?) sono ovunque e servono da munizioni in piazza Cadorna e via Magenta quando attaccate i cordoni di polizia. Poi la birra fa il suo corso e pisciate nei giardinetti dietro il Museo della Scienza.

A ben vedere, anche questo un gesto di riservatezza.

Perché lo fate?

Non so. Sarebbe interessante ascoltarvi. Ma non parlate. Il vostro agire è la vostra parola, dite. E così ho provato a raccontare il vostro agire, il vostro silenzioso trovarvi, il vostro agire come singoli, ognuno responsabile di sé, e insieme come un corpo che si riconosce, si materializza e si disperde in qualche misura all’unisono. Farcela è il vostro traguardo. E certo c’entra anche la sfida. Se capisco qualcosa, col vostro agire volete rendere evidente la violenza che c’è nel nostro agire sociale, nel nostro modo di produrre, di consumare, alla fine di vivere. Per questo le banche, per questo Expo, per questo tutto ciò che è simbolo diventa vostro bersaglio. Per fortuna non le persone.

Eppure, così diventate parte della violenza.

Ora che siete tornati tra noi, noi vi guardiamo e non vi vediamo. Ed è l’apice del successo: essere sotto gli occhi di tutti, e non essere visti. Anche voi avete i vostri démoni.
Voi dovete trovare nuove strade, noi dobbiamo incominciare a vedervi.

P.S. Avete lasciato sui muri il prossimo appuntamento: “No-Expo pride, 20 giugno 2015”. Come dire: ci rivedremo.
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