Le mani russe sull'Africa, dove lo zar Putin detta ancora legge
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Le mani russe sull'Africa, dove lo zar Putin detta ancora legge

Prendiamo l’Africa. Globalist ne ha scritto più volte, documentando la progressiva penetrazione russa nel Nord e nel Centro Africa

Le mani russe sull'Africa, dove lo zar Putin detta ancora legge
Miliziani del gruppo Wagner
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

13 Ottobre 2022 - 16.33


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Sarà pure impantanato in Ucraina, incalzato dai super falchi a Mosca, sanzionato dall’Occidente. Ma da qui a giungere alla conclusione che lo zar del Cremlino sia ormai un paria internazionale ce ne corre. Prendiamo l’Africa. Globalist ne ha scritto più volte, documentando la progressiva penetrazione russa nel Nord e nel Centro Africa. A darne conto è anche un approfondito report di Angelo Ferrari per Agi.

Mani russe sul Continente nero

Annota Ferrari: “Gli ultimi 130 soldati francesi dispiegati nella Repubblica Centrafricana lasceranno il paese entro la fine dell’anno. La conferma di questo ritiro è stata confermata dall’ambasciatore francese a Bangui con una lettera inviata al ministero della Difesa centrafricano. Con la partenza di questi ultimi militari finisce l’influenza di Parigi su questo ex bastione francese nell’Africa centrale.  Un ritiro che era nell’aria da tempo visto che il paese si è messo totalmente nelle mani della Russia – con una presenza massiccia dei mercenari della Compagnia Wagner – che di fatto controlla il paese. In tutto e per tutto Mosca ha sostituito Parigi. Adesso la Russia ha mano libera in Africa centrale.

Questa partenza dalla Repubblica Centrafricana arriva a pochi mesi dal ritiro dei militari di Parigi dal Mali, avvenuta al termine del consumato divorzio tra i due paesi e con la decisione della giunta militare di Bamako di avvalersi dei servizi degli istruttori russi per aiutare a proteggere e fronteggiare le milizie jihadiste nel paese. Militari, anch’essi, che appartengono alla Wagner. 

 Bamako, come Bangui, si è messa totalmente nelle mani dei russi.

Nella Repubblica Centrafricana, il contingente francese, di stanza al campo di M’Poko all’aeroporto di Bangui, fornisce la logistica ai soldati della Missione di addestramento dell’Unione europea (Etum) e a un contingente della Missione delle Nazioni Unite nel paese (Minusca). Questa missione logistica ha sostituito, nel giugno 2021, il distaccamento di supporto operativo francese a Bangui, che ha svolto cooperazione e, in particolare, addestramento militare per le Forze armate centrafricane (Faca).

Nell’estate del 2021 Parigi ha deciso di sospendere la sua cooperazione militare con Bangui, ritenuto “complice” di una campagna antifrancese guidata proprio dalla Russia. Ex potenza coloniale, la Francia è intervenuta regolarmente e militarmente nella Repubblica Centrafricana sin dalla sua indipendenza nel 1960. Nel territorio centrafricano erano presenti due basi militari, quella di M’Poko e quella di Bouar che insieme contavano circa 1600 effettivi per tutti gli anni Novanta dello scorso secolo, oltre a mezzi militari, tra cui aerei ed elicotteri da combattimento, che sono progressivamente diminuiti negli anni successivi. La Repubblica Centrafricana è sempre stata un presidio militare della Francianella regione. Oggi il paese si è trasformato in un avamposto africano di Mosca.

Nel 2013, Parigi ha schierato più di mille soldati nel paese nell’ambito dell’Operazione Sangaris, con il via libera della Nazioni Unite, per porre fine alla violenza tra le comunità. Operazione che è durata fino al 2016. Approfittando del vuoto creato dalla partenza del grosso delle truppe francesiMosca ha inviato in questo paese tra i più poveri del mondo “istruttori militari” nel 2018, e centinaia di paramilitari nel 2020 su richiesta del governo di Bangui, per far fronte alla guerra civile che imperversava e imperversa ancora oggi. La Francia, come ha fatto in Mali, ha accusato regolarmente questi paramilitari, i mercenari della Compagna Wagner, di aver commesso abusi contro i civili e di aver instaurato un regime “predatorio” delle risorse della Repubblica Centrafricana.

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Con la partenza dei francesi si apre una voragine nel supporto logistico alle truppe europee di Etum che si trovano di fronte ad un dilemma di non poco conto: trovare un’altra forza logistica in grado di fornire cibo, energia e acqua, oppure lasciare il paese. Gli europei, tuttavia, hanno già ridotto le loro attività da diversi mesi svolgendo più una funzione di consulenza strategica e non più di formazione.

A lasciare il paese non sono solo i militari francesi, anche la compagnia petrolifera di bandiera, la Total, sembra essere intenzionata a vendere le sue attività nel paese a causa, ufficialmente, della crisi dei combustibili e del clima imprenditoriale non più favorevole alla Francia.

Secondo quanto riporta Radio France international, più della metà delle stazioni di servizio della Total nella Repubblica Centrafricana sono ora chiuse per mancanza di carburante, solo quelle della capitale Bangui lavorano a singhiozzo, a seconda delle scorte disponibili con disagi enormi per la popolazione, ma anche per i trasportatori di merci e per i servizi di taxi e mototaxi. Ultimo importatore di carburanti nel paese, Total limita i suoi acquistiperché la vendita è stata effettuata in perdita per mesi. Il prezzo regolamentato di un litro di benzina è di 865 Franchi Cfa, circa 1,30 euro, alla pompa, ma costa al fornitore dal 30 al 40% in più.

Lo Stato dovrebbe sovvenzionare la differenza, ma attualmente ha un debito nei confronti della compagnia petrolifera di diverse decine di milioni di euro. Secondo un dirigente, che ha mantenuto l’anonimato, di Total sentito da Radio France, il mercato centrafricano è “l’equivalente di una stazione autostradale francese”.Il disimpegno militare francese ha reso ancora di più diseconomica una presenza di Total. Quello che era il bastione più importante francese nell’Africa centrale ora è totalmente nelle mani della Russia che proprio dalla Repubblica Centrafricana ha iniziato la sua avventura di “conquista” dell’Africa”.

Così Ferrari.

La partita libica

Il ministro di Stato libico per gli affari economici, Salama al-Ghwail, ha affermato che la Libia ha bisogno di circa 102,5 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni per potersi ricostruire.

In un’intervista a Sky News Arabia, il ministro ha sottolineato che l’entità delle perdite subite dall’economia non può essere stimata con precisione. Ha confermato che “il Paese è stato danneggiato a causa della mancanza di sviluppo interno e dell’assenza di sicurezza, oltre che alla stagnazione economica e al mancato sviluppo degli investimenti del settore privato nel Paese”. Al-Ghwail ha peraltro osservato che “l’assenza di stabilità politica e di sicurezza nel Paese è stato il fattore più importante che ha impedito alla Libia di beneficiare degli alti prezzi del petrolio”. Tuttavia ha spiegato che “la Libia dispone di risorse naturali che possono contribuire allo sviluppo e alla ricostruzione del Paese”.Ha infine affermato che la Libia “impiegherà manodopera egiziana e lavorerà per sviluppare relazioni con i Paesi vicini ed europei come Germania, Italia e Francia, oltre a Cina e Turchia, in concomitanza con il lavoro per attrarre investimenti nel Paese”. 

Il player russo

Scrive Lorenzo Vita su Insideover: “La Russia ha infatti da subito individuato nel caos libico una possibilità di inserirsi al centro del Mediterraneo con un modello di intervento molto simile a quello applicato in altri contesti africani. Avere una base nei cosiddetti “mari caldi”, incunearsi nel Mediterraneo e costruire un avamposto che potesse riprodurre lo schema siriano anche in Libia (quindi condominio con la Turchia e lesione degli interessi Nato) era apparso da subito sufficiente per capire gli obiettivi di Putin nel ginepraio nordafricano. Temi a cui andava aggiunto lo sfruttamento delle risorse energetiche, che rappresentano indubbiamente una delle principali arterie della politica estera russa, tanto in Europa quanto nel continente africano, al pari della vendita di armi o del sostegno agli eserciti locali.

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Il tema dell’energia è tornato poi particolarmente in auge proprio dall’inizio della guerra in Ucraina. Perché è chiaro che l’embargo a petrolio e gas russi avrebbe condotto anche a un’attenzione verso la diversificazione energetica europea. E la Libia, ricca di idrocarburi, non fa eccezione. La Russia l’ha capito immediatamente, al punto che anche una recente analisi di Foreign Policy, una delle più autorevoli riviste internazionali, ricorda come la presenza della Wagner nel Paese sia in larga parte circoscritta alle basi e ai campi petroliferi sotto l’autorità dell’esercito di Haftar. L’instabilità è dunque un elemento utile ma nell’ottica di un alleato che abbia in mano le redini di una parte fondamentale dell’oro nero – e dell’oro blu – libici. Proprio per questo motivo, va ricordato un fatto: alcune settimane fa, un misterioso articolo apparso sul Times a firma di Fathi Bahshagha, poi smentito dallo stesso autore, segnalava la volontà dell’uomo di Misurata di unirsi al Regno Unito nella battaglia per frenare le ambizioni russe. Un vero e proprio giallo che però aiuta a comprendere come sia ben più profonda e articolata la questione russa per la Nato e per le potenze inserite in Libia.

Del resto la Libia, proprio nel momento in cui l’energia assume un ruolo totalmente preponderante nello scacchiere internazionale, può essere considerato un vero e proprio Eldorado nel caos. Foreign Policy parla di riserve accertate di petrolio per 48 miliardi di barili e di gas naturale che potrebbe trasformare la Libia anche nel più importante fornitore d’Europa. Il blocco della produzione libica ha già avuto modo di incidere sui mercati pur avendo delle infrastrutture minime rispetto al potenziale. È chiaro quindi che tutte le potenze abbiano l’interesse a gestire questo tesoro, ma soprattutto a evitare che qualcuno abbia il controllo al proprio posto. La Russia come le altre forze. E tutto questo risulta abbastanza evidente nel momento in cui il Paese di fatto non esiste ma in cui una delle poche istituzioni unitarie è proprio il colosso dell’energia, la Libyan National Oil Corporation. Controllare i giacimenti, i depositi e le rotte del gas e del petrolio libico è quindi fondamentale. Molto più di flussi migratori che nel contesto geopolitico dello scontro tra Nato e Russia appaiono quantomeno minimi.

Tutto ciò si sovrappone poi a una posizione geografica della Libia che risulta fondamentale anche per le varie ramificazioni della partita russa in Africa. Avere i propri uomini ai confini dell’Egitto, a ridosso del fianco sud della Nato e dell’Unione europea e non lontano dalla complessa e fondamentale regione del Sahel (dove la Wagner è presente anche in Mali) implica che la Cirenaica è essenziale per tutto il conflitto tra Russia e Occidente. Non è un caso che il Pentagono, Londra e le varie difese europee abbiano più volte lanciato l’allarme sulla presenza della Russia in Libia anche vista la capacità di Putin di inserirsi in quello che era il “territorio di caccia” delle vecchie potenze imperiali europee. Lo scontro è a tutto tondo. Credere che si possa ridurre a un presunto interesse del Cremlino per i partiti italiani rischia di essere un’ulteriore dimostrazione della miopia con cui alcuni segmenti della politica italiana hanno letto quanto accadeva in Libia e a sud di essa. Territori in cui Roma conta ormai sempre meno”.

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La torta petrolifera

Globalist ne ha scritto a più riprese. Da anni.  Perché da almeno due anni ciò che sta davvero accadendo in Libia è la “Grande spartizione” tra il Sultano e lo Zar, al secolo Recep Tayyp Erdogan e Vladimir Putin.  Russi e turchi sono pronti a spartirsi la Libia e a esercitare la loro crescente influenza nel Mediterraneo Occidentale, scrivevamo due anni fa.  E’ questo che dicono le manovre aeronavali turche a largo delle coste libiche e lo schieramento dei jet russi nella base di Jufra che, secondo alcuni, hanno parzialmente sostituito i mercenari della Wagner. Ankara vuole insediarsi in Tripolitania, Mosca punta a farlo in Cirenaica. Dagli equilibri che si raggiungeranno dipende l’assetto della Libia di domani che, ancora una volta, non si deciderà né a Tripoli né a Bengasi, prosegue il documento. Da tempo infatti quella in Libia si è trasformata in una guerra per procura dove sono gli attori esterni, regionali, e globali, ha determinarne gli scenari e i possibili compromessi.

Un progetto di spartizione della Libia che, secondo indiscrezioni, sarebbe partito allora e finalizzato in un vertice segreto tenutosi a Malta a fine ottobre 2020. La posta in gioco non è solo il controllo degli idrocarburi gestiti dalla Noc (National Oil Corporation) con importanti contratti all’Eni, ma l’intero asset mediterraneo. E di questa partita la Russia è uno degli attori principali. 

Il punto è  che undici  anni dopo quella sciagurata guerra voluta dalla Francia e subita dall’Italia, non si vuol prendere atto che la Libia del post-Gheddafi è uno Stato fallito, dove a farla da padroni, quelli veri, sono signori della guerra, trafficanti di esseri umani, banditi di vario genere e caratura, improbabili “tecnici” spacciati per leader politici, signor nessuno come era l’ormai dimenticato Fayez al-Sarraj. Il tutto in un Paese in cui operano, direttamente o per procura, attori esterni che ambiscono a mettere le mani sulla torta petrolifera libica. L’elenco è lunghissimo. Solo per citarne i più attivi: Russia, Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar. E un po’, ma nemmeno tanto, defilata, la Francia. La verità che si cerca di nascondere è che l’obiettivo praticato da molti di questi attori esterni è quello della spartizione territoriale della Libia, e delle sue ricchezze di gas e petrolio. 

Per riassumere: in Libia sono ancora presenti, stima in difetto, almeno 180 tra milizie e tribù in armi. Sul campo vi sono ancora diverse migliaia di mercenari di tutte le risme, per non parlare dei gruppi criminali che traffico in esseri umani e che controllano, in combutta con le autorità locali, intere aree, soprattutto costiere, del Paese.  Ed è in questo scenario da caos armato che si muovono, da padroni, lo zar del Cremlino e il sultano di Ankara. L’Italia? In panchina. 

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