Apocalisse Tigray: una guerra "ignorata"
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Apocalisse Tigray: una guerra "ignorata"

Non solo Gaza. L’apocalisse umanitaria sconvolge anche aree del mondo, segnate da guerre “dimenticate”.  Una di queste è il Tigray

Apocalisse Tigray: una guerra "ignorata"
Guerra del Tigray
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

9 Febbraio 2024 - 01.14


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Non solo Gaza. L’apocalisse umanitaria sconvolge anche aree del mondo, segnate da guerre “dimenticate”. 

La tragedia del Tigray

Dobbiamo dire grazie ad Oxfam se tragedie “ignorate” tornano a squarciare quella disumana coltre di silenzio che l’avvolgono.  A 2 anni dall’inizio di uno delle più brutali conflitti degli ultimi anni, oltre 3 milioni e mezzo di persone nella regione etiope del Tigray sono sull’orlo della carestia. Quasi 400 persone – soprattutto bambini e anziani – sono morte letteralmente di fame solo negli ultimi sei mesi, in un contesto in cui alla guerra si è unita la totale assenza di piogge che rischia di compromettere i raccolti nei prossimi mesi.

È l’allarme lanciato oggi da Oxfam, di fronte ad una situazione che nelle prossime settimane rischia di precipitare ulteriormente.

Nonostante il cessate il fuoco nel novembre 2022, tra il governo etiope e le forze del Tigray, la guerra in corso in alcune parti della regione dell’Amhara ha infatti già costretto oltre 1,55 milioni di persone a fuggire dalle proprie case, lasciando 9,4 milioni di persone nel nord dell’Etiopia in condizioni di fame estrema, circa 1 persona su 3.

L’impatto della crisi climatica tra siccità e invasioni di locuste ha dimezzato i raccolti

Alle conseguenze del conflitto si è aggiunto l’effetto della crisi climatica: la siccità, la carenza di sementi e l’invasione di locuste, tra la fine del 2023 e l’inizio di quest’anno, hanno causato la perdita della metà dei raccolti: da 1,32 milioni di ettari disponibili a 660 mila. 132 mila ettari di coltivazioni sono state letteralmente arse dalla mancanza di precipitazioni e decine di migliaia di capi di bestiame sono morti.

Se la stagione delle piogge tarderà ancora, la situazione potrebbe precipitare ulteriormente colpendo altri milioni di persone.

Il calo della produzione alimentare ha inoltre fatto schizzare alle stelle i prezzi dei generi alimentari, ai livelli più alti degli ultimi 5 anni. La conseguenza è che milioni di persone non possono più permettersi l’acquisto dei beni alimentari di base e la gran parte degli agricoltori non ha più nulla.

“La situazione nel Tigray sta precipitando. – ha detto Paolo Pezzati, portavoce per le crisi umanitarie di Oxfam Italia – Oltre 1 persona su 3 è alla fame, senza un aumento immediato e massiccio degli aiuti internazionali, molte altre persone rischiano di morire nei prossimi mesi”.

“Siamo costretti a far dormire il più possibile i nostri figli per lenire i morsi della fame”

“La fame è insopportabile, i nostri figli non hanno niente da mangiare per giorni e giorni, al punto che l’unica soluzione possibile è far dormire il più possibile i bambini o nutrirli con le radici che diamo agli animali”, racconta Hareyat (50 anni), madre di quattro ragazze che si trova con altri sfollati a Kola Tambien presso la scuola Meles Preparatory.

“L’emergenza che sta colpendo l’Etiopia settentrionale è una delle più gravi al mondo. – conclude Pezzati – Il calo dei finanziamenti per la risposta umanitaria, compresa la sospensione dell’invio di aiuti alimentari per 6 mesi l’anno scorso, da parte di USAID e World Food Program, ha aggravato ulteriormente la situazione: l’appello delle Nazioni Unite per l’Etiopia nel 2023 è stato finanziato solo per il 34%, con 1,3 miliardi di dollari su un totale di 4 miliardi di dollari necessari. E sebbene gli aiuti abbiano ripreso adesso ad arrivare la situazione resta disperata, soprattutto perché in Etiopia in questo momento ci sono quasi 1 milione di rifugiati e circa 4 milioni di sfollati interni allo stremo. Senza un cambio di passo nella risposta all’emergenza, tantissimi potrebbero essere investiti da una vera e propria carestia”.

L’Etiopia, la guerra e le grandi potenze

A inquadrare il conflitto è un documentato report di Giovanni Carbone, Head Ispi Africa programme. 

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“Fin dall’inizio della guerra – annota Carbone – il fronte governativo e quello ribelle si sono scontrati non solo attraverso le armi, ma anche contrapponendo i principi e le parole scelte dall’uno e dall’altro per definire e inquadrare il conflitto in ambito diplomatico e mediatico. Addis Abeba ha sempre sottolineato il suo carattere di questione interna, rivendicando la propria piena sovranità nazionale e il connesso diritto e dovere, in quanto governo legittimo, di applicare la legge (law enforcement) su tutto il territorio nazionale, imponendo quindi l’autorità centrale sulla ribellione “terrorista” del Tigray. Il Tplf, d’altra parte, ha insistito nel denunciare le violazioni dei diritti umani da parte di un governo (e delle forze eritree) ritenuto illegittimo per essere rimasto in carica nel 2020 dopo la scadenza del suo mandato, il duro intervento armato con violenze indiscriminate sui civili – parte dei crimini di guerra di cui si sarebbe macchiata Addis Abeba – e il prolungato isolamento del Tigray che ha causato una gravissima crisi alimentare e umanitaria.

Queste posizioni sono state in buona misura appoggiate da campi contrapposti all’interno della comunità internazionale – una contrapposizione del tipo “the West versus the rest” che richiama quella manifestatasi in altri scenari contemporanei, dal Sahel all’Ucraina – rivelando le profonde distanze che li separano rispetto ai principi portanti dell’ordine globale, ai modelli di regimi politici privilegiati e alle stesse alleanze e allineamenti internazionali.

L’Unione europea e gli Stati Uniti, assieme al Regno Unito, si sono dichiarati in linea di principio neutrali, ma nei fatti sono stati molto critici nei confronti delle violenze scatenate dal conflitto e di una crisi umanitaria aggravata dalla strategia di Addis Abeba. I paesi occidentali hanno per questo concentrato i loro sforzi diplomatici sui tentativi di sbloccare l’accesso degli aiuti umanitari al Tigray e su una mediazione guidata dall’Unione Africana per porre fine alla guerra. Già nel dicembre 2020, ovvero poco più di un mese dopo l’inizio del conflitto,l’Unione europea aveva sospeso 90 milioni di euro di aiuti non umanitari. A questo fecero seguito le sanzioni contro la National Security Authority dell’Eritrea (marzo 2021), mentre, con una risoluzione dell’ottobre 2021, il Parlamento europeo condannò la guerra ed esortò gli stati membri ad attuare l’embargo sulle armi nei confronti di Etiopia ed Eritrea.

Più complessa l’evoluzione seguita da Washington. Dal 2018 gli Stati Uniti avevano fortemente sostenuto il primo ministro Abiy Ahmed come riformista filo-americano, con l’obiettivo di allontanare l’Etiopia dalla Cina, superando gli attriti che avevano caratterizzato i rapporti con il precedente governo dell’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (Eprdf), illiberale e vicino appunto al Partito comunista cinese. Appoggiando le riforme ma anche il consolidamento del potere da parte di Abiy – un processo segnato dalla creazione di un nuovo partito di governo a vocazione pan-etiopica, il Prosperity Party, dal rinvio delle elezioni durante la pandemia, e dalla progressiva repressione delle opposizioni – vennero in gran parte ignorati i rischi di reazioni avverse da parte di forze politiche e movimenti antigovernativi, incluso il Tplf e l’Oromo Liberation Front, e di una possibile, connessa destabilizzazione. Guerra e crisi umanitaria in Tigrai hanno però spinto Washington, come detto, ad adottare gradualmente un approccio ben più critico, un cambio di linea culminatopoi anche nella sospensione dell’Etiopia dall’African Growth and Opportunity Act (Agoa), la normativa americana che garantisce accesso privilegiato alle merci provenienti dai paesi africani che soddisfano i requisiti richiesti. Questo nuovo approccio è stato inteso come un sostegno di fatto alla ribellione del Tigrai, generando come reazione la rapida diffusione in Etiopia di una retorica governativa e di manifestazioni popolari di protesta anti-statunitensi. La distanza con il governo di Addis Abeba è andata dunque crescendo, e le critiche e la sospensione hanno verosimilmente contribuito ad avvicinare ulteriormente l’Etiopia a Pechino (e a Mosca).

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Con scelte non inattese, la Cina e la Russia hanno fin da subito offerto sostegno diplomatico incondizionato al governo di Addis Abeba, soprattutto all’interno del Consiglio di sicurezza e dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Pechino si appella al principio di non ingerenza come principio cardine, criticando fermamente il ricorso alle sanzioni e l’interventismo occidentale. Ma a preoccupare i cinesi è stata anche la prospettiva di vedere affossata la “storia di successo” in stile cinese che l’Etiopia rappresenta in Africa ormai da diversi anni, un successo di sviluppo guidato saldamente da un partito quasi unico (il tasso di crescita dell’economia, tra il 2000 e il 2020, è stato pari all’8,9% medio.

Mosca, da parte sua, ha sostenuto integralmente la visione di Addis Abeba di un’Etiopia unita e centralizzata, che vede la guerra con una regione ribelle come “un affare interno” di esclusiva competenza del governo sovrano. Una visione portata avanti costruendo sui legami passati di epoca pre- e post-1989 (la Russia nel periodo 1991-2020 ha fornito il 51% degli acquisti di armamenti dell’Etiopia) e posizionandosi deliberatamente come leader ideale di un fronte globale antimperialista in un crescendo di propaganda anti-occidentale. Anche per questola Russia ha ottenuto la neutralità dell’Etiopia nelle votazioni alle Nazioni Unite sull’invasione dell’Ucraina: gli etiopi si assentarono strategicamente dal voto del marzo 2022 con cui l’Assemblea generale condannò l’invasione e si astennero nell’analogo voto nel 2023, mentre nell’aprile 2022 votarono contro l’espulsione della Russia dal Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani.

Le potenze regionali non africane e le armi all’Etiopia

La guerra del Tigray è stata anche un teatro che ha mostrato il ruolo crescente dei droni e dei loro fornitori stranieri nei conflitti nazionali e internazionali. Il Tplf/Tdf è stato schiacciato militarmente solo dopo che Addis Abeba si è assicurata il supporto militare della Turchia. L’accesso ai droni TB2, messi a disposizione da Ankara dalla fine del 2021, infatti, è stato decisivo nel ridefinire i rapporti di forza e condurre a conclusione la guerra.

Negli anni precedenti alla crisi del Tigray le relazioni dell’Etiopia con la Turchia si erano raffreddate per via dell’avvicinamento di Addis Abeba agli Emirati Arabi Uniti e all’Arabia Saudita a partire dal 2018. Con l’avvio della guerra, tuttavia, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan aveva fatto esplicite aperture rimarcando l’attenzione di Ankara per gli sviluppi nella regione – “la pace, la tranquillità e l’integrità dell’Etiopia, che ha una posizione e un’importanza strategica in Africa, sono importanti per noi”, tanto che la disponibilità a svolgere un ruolo di mediazione nelle dispute di confine con il Sudan riemerse proprio durante la crisi del Tigray. L’opzione di Erdoğan a favore del sostegno militare per il governo di Abiy venne sancito formalmente da accordi stipulati durante la visita del primo ministro etiope nella capitale turca nell’agosto 2021. Il diretto riflesso delle nuove relazioni è stato il forte aumento delle esportazioni verso l’Etiopia nel settore della difesa e dell’aviazione – tra le quali centrali sono i già citati droni – passate da un valore di 203.000 dollari nel 2020 a 51 milioni di dollari nel 2021.

Sembra che droni siano stati forniti anche dagli Emirati Arabi Uniti (Eau) e dall’Iran. Il Tplf, nel 2021, accusò gli Emirati di aver preso di mira il Tigray con droni del tipo Wing Loong II, di fabbricazione cinese. Il piccolo ma ambizioso paese del Golfo, come accennato, si era avvicinato all’Etiopia dal 2018, sponsorizzando peraltro lo storico accordo di pace con l’Eritrea, con la quale Abu Dhabi già aveva rapporti stretti da almeno un decennio. Proprio dalla loro base militare ad Assab, in Eritrea, utilizzata dagli Eau per il conflitto nello Yemen, sarebbero partiti i droni oggetto delle accuse del Tplf, e successivamente droni sembrerebbe siano stati anche forniti direttamente al governo, assieme ad altre attrezzature militari.

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Quanto all’Iran, si è molto parlato di una sua fornitura di droniMohajer-6, all’origine peraltro di sanzioni americane sull’industria iraniana degli unmanned aerial vehicles (Uav) nell’ottobre 2021, oltre all’offerta di competenze antiterrorismo. Dopo aver recentemente perso influenza sugli alleati – con l’Eritrea che ha optato per Eau,  Arabia Saudita e Sudan nella fase di incertezza seguita alla caduta di Omar al-Bashir – Teheran ha visto nelle tensioni tra Stati Uniti e Addis Abeba un’opportunità per mantenere profondità strategica nel Corno d’Africa, e specificamente in un paese vicino alla penisola arabica in generale e allo Yemen in particolare.

Il Corno d’Africa è una regione storicamente attraversata da conflitti che sistematicamente si ripercuotono nell’intricato tessuto di relazioni dei paesi che ne fanno parte – nella sua definizione più stringente il Corno include Etiopia, Eritrea, Somalia e Gibuti, in una nozione allargata si aggiungono gli stati cornice, Sudan, Sud Sudan, Kenya e talvolta Uganda – nonché su quelli che in questa area hanno profondi interessi, l’Egitto su tutti. La guerra del Tigrai non fa eccezione, benché la sua durata limitata abbia in parte contenuto il riverberarsi dei suoi effetti nel resto della regione.

Con l’Eritrea, il trattato di pace stipulato dall’Etiopia nel 2018 non aveva solo rilassato le tesissime relazioni dopo un ventennio di chiusura e contrapposizione, ma le aveva anzi rivoluzionate con l’emergere di un solido asse di cooperazione tra il presidente Isaias Afewerki e il primo ministro Abiy. Proprio sulla base di un’avversione condivisa nei confronti del Tplf, da lungo radicatissima nel leader eritreo, le forze armate di Asmara sono da subito intervenute direttamente nel conflitto accanto a quelle etiopi, stringendo così a tenaglia il territorio tigrino. Il duro intervento militare ha dato adito ad accuse nei confronti delle Eritrean Defence Forces (Edf) di aver commesso crimini di guerra di vario genere. Gli eritrei hanno infatti colto l’occasione per radere al suolo quanto più possibile il Tigrai (incluse infrastrutture e campi agricoli), spingere al rientro forzato decine di migliaia di rifugiati eritrei fuggiti dal paese e ospitati in campi delle Nazioni Unite proprio nel Tigrai e ristabilire il proprio controllo militare lungo il confine condiviso. La tenuta della pace interna in Etiopia dipenderà anche da come Asmara deciderà di porsi rispetto all’accordo siglato da Addis Abeba con il Tplf.[…] Indiretti ma rilevanti anche gli effetti della guerra nel Tigrai oltre i confini più a sud dell’Etiopia, in Somalia. Nella necessità di rafforzare la propria azione sul nuovo fronte interno, durante le prime fasi del conflitto Addis Abeba aveva richiamato alcune migliaia di soldati impiegati a sostegno del governo somalo nella lotta contro i jihadisti di al-Shabaab. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, intanto, emergevano notizie di un coinvolgimento di truppe dell’esercito somalo nel Tigray accanto agli eritrei, accusa che Mogadiscio ha negato…”.

Il report dell’analista dell’Ispi è del 4 aprile 2023. Dieci mesi dopo, la situazione è ulteriormente peggiorata, come ben documenta Oxfam. 

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