In Afghanistan dilaga il marchio insanguinato dell'Isis: talebani sotto attacco
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In Afghanistan dilaga il marchio insanguinato dell'Isis: talebani sotto attacco

Nel paese si è aperto lo scontro nella triade jihadista. I fatti lo confermano: la branca afghana dell'Isis ha rivendicato la serie di attacchi che hanno colpito negli ultimi due giorni Jalalabad.

Miliziani dell'Isis del Khorasan
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20 Settembre 2021 - 16.25


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Globalist lo aveva scritto giorni fa: in Afghanistan si è aperto lo scontro nella triade jihadista. I fatti lo confermano.

 La branca afghana dell’Isis ha rivendicato la serie di attacchi che hanno colpito negli ultimi due giorni Jalalabad. Lo riferisce l’organo di propaganda Amaq, secondo quanto riporta il Site.  “Nella sua provincia di Khorasan, l’Isis ha compiuto sei attentati in due giorni contro i combattenti talebani a Jalalabad”, provocando “oltre 35 morti e feriti”. Presi di mira veicoli di talebani e un raduno di combattenti. 

L’Isis-K, ramo afghano dello Stato islamico nato, tra il 2014 e il 2015, nella provincia afghana del Khorasan, conta poco più di 1500 miliziani (darti Onu), tra ex foreign fighters siriani e miliziani provenienti principalmente da Pakistan, Tagikistan ed Uzbekistan e molti ceceni. Ricordiamo che l’Isis, una sorta di franchising del terrore, nasce dall’idea di un solo stato islamico mondiale – e vedremo che questa è una delle differenze sostanziali con i Talebani. L’Isis-K è la parte orientale del Califfato di Raqqa, nata nel 2014 quando tra gli obiettivi di Abu Bakr Al Baghdadi, leader dello Stato islamico, c’era la formazione di cellule distribuite nei vari territori, per la realizzazione di un Califfato globale. Nacquero allora i “wilayat” (province o governatorati), alcuni di maggiore rilevanza come Isis-Sinai o Isis-Raqqa. Quello dell’Isis-k ha sua base operativa, dal 2015, a Jalalabad, nella zona tribale al confine con il Pakistan 

Isis-K, Al Qaeda e la culla del terrore 

Possiamo definire quest’area “la culla del terrore”. Qui è nata al- Qaeda  e da qui, e dai suoi dintorni, parlava Osam bin Laden ai mujaheddin e al mondo intero. Qui, nel 2001, si sono radunati i jihadisti in fuga dall’Afghanistan, e i disertori delle milizie pachistane non più in linea con gli ideali della vecchia generazione jihadista. Dal 2019, la regione del Khorasan è diventata la roccaforte dei foreign fighter in fuga dalla Siria dopo la sconfitta dello Stato Islamico. Già nel 2015 erano iniziate ad arrivare le prime rivendicazioni di un gruppo terroristico che si faceva chiamare Iskp o Provincia del Khorasan dello Stato Islamico, fondato dai talebani pakistani, con a capo Hafiz Saeed Khan, ex membro di Tehrik-e Taliban Pakistan (TTP). Il gruppo, che inizialmente è figlio di al- Qaeda, ben presto decide di giurare fedeltà al Califfato di Abu Bakr al Baghdadi, in quel tempo all’apice del potere in Siria e Iraq, per contribuire alla creazione di una provincia in Afghanistan e quindi alla realizzazione del Califfato globale. L’obiettivo dell’Isis-K è infatti quello di fondare un califfato nell’Asia Meridionale e centrale, basato su un’interpretazione rigida della sharia, conforme a quello presente in Siria e Iraq. Il movimento è cresciuto negli anni grazie ai finanziamenti dello Stato Islamico, all’appoggio dell’etnia pashtun del Pakistan, ma anche per la tolleranza del Governo e dell’intelligence di Kabul. Al gruppo sono attribuiti più di 100 attacchi, la maggior parte contro minoranze sciite, donne e bambini. L’Isis-K ha perso potere con la sconfitta dello Stato islamico e di conseguenza con la chiusura dei finanziamenti, ma continua ad essere una calamita per i veterani siriani in fuga dopo la caduta dello stato islamico in Siria e in Iraq e per i mujaheddin dei paesi limitrofi, dopo l’annuncio del ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan.   La convivenza Talebani/Isis-K Considerate le forze in campo è difficile credere che i miliziani possano competere con i Talebani per il controllo del paese, ma sicuramente sono una spina nel fianco del nuovo governo anche rispetto ai rapporti che lo stesso sta stringendo con Cina e Russia e nel rispetto di quegli accordi di Doha che prevedono l’impegno dei Talebani a rinunciare ad ogni legame con il jihadismo. Con l’attentato del 26 agosto il terrorismo è tornato sul palcoscenico mondiale con il rischio che l’Afghanistan torni ad essere il centro di gravità per le cellule dormienti. Talebani e Isis sono in guerra da anni anche se l’ideologia radicale fondata sul rispetto della Sharia sia alla base del pensiero talebano e dell’Isis. Lo Stato Islamico contesta ai Talebani di essere “alleati” degli americani, “apostati” incapaci di applicare la legge, interessati solo al potere politico a discapito della Sharia, e disposti a scendere a patti con il nemico principale: l’Occidente. D’altra parte i Talebani sono un gruppo nazionalista, con l’obiettivo di realizzare un emirato all’interno dei confini afghani, ma senza ambizioni internazionali e quindi in netto contrasto con il sogno di un califfato globale che identifica invece i terroristi salafiti. Situazione complessa però quella dell’Afghanistan: sulla rivalità con l’Isis si innestano anche i difficili rapporti con al-Qaeda (è probabilmente da leggere così quello che è successo nei giorni scorsi tra il mullah Baradar e il clan Haqqani vicino a al-Qaeda).  Il gruppo di Osama bin Laden è stato soppiantato in poco tempo dall’Isis sui campi di battaglia di Siria e Iraq, portando dalla sua parte finanziamenti e nuove reclute. Così, i due gruppi, sono diventati nemici. Ma in questa rete di attori e rapporti non sempre chiari non va sottovalutato un altro punto fondamentale: i talebani non sono un gruppo coeso ma formato da clan e se per ora ciò che interessa gli studenti del Corano è dimostrare, agli occhi dell’America e dell’Occidente, di voler proteggere l’Afghanistan dalle organizzazioni terroristiche, non bisogna dimenticare che i rapporti con Al Qaeda rimangono ancora ambigui, e che nelle file dell’Isis-K militano diversi ex talebani e Qaedisti  come il gruppo Haqqani, che ha avuto un ruolo fondamentale nell’entrata dei Talebani a Kabul come , d’altra parte, tra il 2014 e il 2015, ha contribuito all’affermarsi dell’Isis-K nella provincia di Nangarhar.     Oppio e baratto Altro punto determinante è il controllo del mercato dell’oppio che rappresenta il 90% della produzione mondiale e che è attualmente l’unico mezzo di sostentamento per gran parte delle aree rurali e non solo. Chi gestirà questo ingente mercato? Quale dei clan che formano il governo avrà la meglio? E servirà per ricattare l’Occidente? O sarà una forma di baratto così come è successo con “Al Qatar”, che in cambio della manutenzione dell’aeroporto di Kabul adesso, ha avuto la possibilità di avviare i voli commerciali con l’Afghanistan? 

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Guerra mediatica

Scrive sul Corriere della Sera Guido Olimpio, profondo conoscitore del terrorismo jihadista: “La rivista dello Stato Islamico al Naba ha pubblicato un commento sulla situazione in Afghanistan. Un intervento con alcuni spunti interessanti a proposito della strage a Kabul. L’attacco — ribadiscono — ha preso di mira gli americani infliggendo una delle perdite più gravi da tempo. Insieme a loro ha preso di mira i talebani, il secondo nemico. Un’azione che ha messo in crisi il concetto di sicurezza: l’intelligence è riuscita solo a prevedere che ci sarebbe stata un’operazione ma non a impedirla. Inoltre ha umiliato Biden, insieme ai mullah. Gli Stati Uniti — insiste l’autore — parlano dello Stato Islamico in Afghanistan come fosse una cosa emersa oggi solo per nascondere la sconfitta, l’attentato ha smentito i loro annunci di vittoria. 

Nel testo si afferma che solo al-Qaeda ha creduto alle «bugie» dei talebani, la fazione di Osama — sottolineano — ha perso la bussola. Il propagandista si augura che i militanti scoprano la menzogna e si allontanino dai traditori. Per il Califfato i talebani diventeranno partner dell’Occidente nella «lotta al terrore», non hanno scelta, sono condizionati dalle intese di Doha. Vincoli che possono ingabbiare anche i qaedisti. L’analisi del magazine conferma come l’IS punti a portare dalla sua parte militanti e mullah che non si riconoscono nel nuovo potere. È un elemento sul quale insisteranno sfruttando anche i primi passi dei dirigenti di Kabul. Il messaggio è universale, va oltre le frontiere afghane: c’è solo un movimento a portare avanti la guerra santa, lo Stato Islamico. Al Naba esalta l’azione suicida all’aeroporto ricordando che è stata compiuta da un prigioniero appena liberato. E contrappongono la figura del «mujahed al comportamento dei rivali che, invece, hanno garantito l’evacuazione degli americani. Un dato di fatto, innegabile, svoltosi sotto gli occhi di tutti. Ma al quale — secondo l’articolista — potrebbero aggiungersi dei patti segreti non ancora emersi. In questo modo l’IS gioca utilizza una carta importante, quella dei «fratelli» detenuti e che devono essere tirati fuori dalle celle. Un obiettivo già visto e perseguito con successo nello scacchiere Siria-Iraq. Al tempo stesso la rivista lascia spazio a possibili rivelazioni future su accordi sottobanco tra Occidentali e mullah. Un filone di sospetti, teorie cospirative e di verità nascoste”. 

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Errore di analisi

Fallimento, errori, finanziamenti spesi male, infrastrutture inesistenti, popolazione allo stremo delle forze. Il tragico precipitare degli eventi in Afghanistan in questi ultimi giorni dopo il ritiro degli Usa, ha radici che affondano nel passato, all’inizio del conflitto, quando gli americani hanno messo in piedi una guerra contro un nemico che forse non conoscevano. Fra gli errori più eclatanti infatti, Jason Burke, per anni corrispondente del Guardian per l’Asia e attualmente per l’Africa, ne individua uno fondamentale e logico che risale alle origini del conflitto e che può spiegare lo sgretolamento di questi giorni:   Sin dall’inizio, nel 2002, quando gli Americani sono arrivati in Afghanistan, è stato subito chiaro che non riuscivano a distinguere tra al-Qaeda che era, ed è, un gruppo internazionale islamico militante principalmente arabo, e i Talebani che invece è un gruppo nazionalista, però afghano, che non ha ambizioni internazionali. E’ stato questo il vero problema che ha portato al fatto che ora non c’è spazio per negoziati, non c’è spazio per un accordo con i Talebani, e lo sforzo antiterroristico è stato confuso, mescolato con lo sforzo politico e quello per ricostruire il paese in Afghanistan, e questo è successo fin dall’inizio, è stato questo il problema fin dall’ inizio, non ci sono stati insediamenti inclusivi e le risorse sono state distribuite in maniera sbagliata, a pioggia, indiscriminate.   Quale sia oggi il rapporto tra al-Qaeda e i talebani sembra ancora poco chiaro, ciò che è certo è che al Qaeda è già in territorio afghano. Costretta a fuggire dall’Afghanistan dopo la guerra del 2001, vi è tornata lentamente. Non ha più la vasta infrastruttura di 20 anni fa, con i suoi numerosi campi di addestramento e oggi, secondo Burke, i suoi 200-500 combattenti, sono dispersi in gran parte del paese. Molti provengono da al-Qaeda nell’Asia meridionale, un’affiliata costituita nel 2014 con reclute pakistane, indiane e bengalesi per promuovere gli obiettivi dell’organizzazione nella regione. Altri hanno combattuto a fianco dei talebani, con i quali avrebbero rapporti stretti perché mantenere un’alleanza con il gruppo, secondo Burke, è stata la chiave per la sua sopravvivenza per 25 anni e sarà ancora più importante ora.

  La relazione tra al-Qaeda e i Talebani oggi è piuttosto complicata. Sicuramente i Talebani non vogliono che al-Qaeda gli causi dei problemi in termini di legittimità internazionale, detto questo, ci sono dei legami personali e anche dei legami ideologici, inoltre ci sono altre relazioni che rendono difficile per i Talebani la possibilità di marginalizzare al Qaeda anche se volessero farlo. I Talebani si sono evoluti significativamente negli ultimi 20 anni, sanno molto di più di quello che succede nel mondo, i leaders talebani hanno passato molto tempo in paesi del Golfo Persico, a Karachi, altre città o altri paesi della regione, e sanno quali sarebbero i rischi che si prenderebbero se dovessero sostenere al Qaeda, ma magari è anche un rischio che sono disposti a correre. Inoltre, vale la pena sottolineare che i talebani stessi non sono mai stati direttamente collegati a nessun attacco terroristico internazionale e il loro programma, i loro piani, i progetti sono drammaticamente diversi da quelli di al Qaeda. Va ricordato inoltre che i Talebani sono divisi, sono una coalizione e come in ogni movimento unificato, in ogni coalizione, ci sono diversità  di opinione tra i leader e gli elementi all’interno del movimento, come appunto con i Talebani.   Malgrado le divergenze interne, i talebani hanno avuto tutto il tempo necessario per considerare aspetti nuovi delle relazioni con l’Occidente, mostrando una facciata di pseudo modernità che li ha portati a Doha sotto nuove spoglie, prontamente scoperte nel momento in cui hanno rispedito a casa le donne negli uffici e hanno mostrato i muscoli nel minacciare ritorsioni se gli Usa non rispetteranno la deadline del 31 agosto per l’evacuazione definitiva dal paese. I cambiamenti sembrerebbero dunque solo apparenti ma ci sono comunque degli aspetti da considerare secondo Burke:  anche durante il periodo di “regno” del mullah Omar tra il ’96 e il 2001, c’era una diversità di opinioni all’interno del movimento talebano, soprattutto tra i leader e non erano neanche d’accordo sempre sugli elementi costitutivi del movimento. Non c’è mai stata una grande omogeneità tra i talebani. E’ vero che erano a maggioranza di etnia pashtun, la maggior parte venivano dal sud est del paese con un  piano, dei progetti ben definiti, ma comunque c’erano diverse fazioni, c’erano questioni legate alle personalità dei diversi leader e in diverse parti del paese arrivavano pressioni  per delle manovre di potere, ad esempio il mullah Omar aveva una linea particolarmente oltranzista, altri invece erano più moderati e volevano il coinvolgimento dell’Onu, delle Organizzazioni non governative della comunità internazionale. Quello che però abbiamo visto da allora ad oggi è stata una curva di apprendimento che è stata in salita sostanzialmente, con un arricchimento per quanto riguarda la conoscenza della regione, della politica, della diplomazia internazionale, dei negoziati, del modo di fare la guerriglia, tutte cose che i talebani non conoscevano o non prendevano in considerazione 20 o 25 anni fa. Chiaramente questo avrà un effetto significativo in futuro permettendo un approccio più pragmatico o più ideologico.   In un momento in cui l’occidente sembra il nemico meno preoccupante per i talebani, altre realtà potrebbero diventare la spina del fianco del gruppo che ha preso il potere: Salafismo jihadista, Stato islamico che proprio nei giorni scorsi ha rilasciato la sua prima dichiarazione ufficiale sulla questione, accusando i talebani di essere cattivi musulmani e agenti degli Stati Uniti e considerandoli apostati, incapaci di applicare la legge islamica con sufficiente rigore.  In particolare lo Stato Islamico della Provincia del Khorasan, una fazione fondata nel 2015 quando l’Isis ha cercato di estendersi più  a est , espansione a cui i talebani si sono opposti fortemente. Negli ultimi mesi l’ISkp ha ripreso forza e, l’Unama, la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan, ha riferito di ben 77 attacchi da parte di questo gruppo.  

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La guerra nella triade è solo agli inizi. 

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