Il caso Regeni e la realpolitik del direttore Molinari
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Il caso Regeni e la realpolitik del direttore Molinari

Le parole del direttore di Repubblica ospite di Lucia Annunziata mostrano la logica secondo la quale il rispetto per i diritti umani deve essere chiesto con parsimonia prima di perdere affari e mercati

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

7 Marzo 2021 - 17.29


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Non disturbiamo troppo il presidente-carceriere, altrimenti altri ne potrebbero approfittare per fregarci gli affari. A Mezz’ora in più di Lucia Annunziata, Maurizio Molinari, direttore de La Repubblica, direttore editoriale del Gruppo Gedi, grande esperto di politica internazionale, ha impartito in diretta una lezione di realpolitik al cubo. Con i toni pacati, un bell’argomentare, Molinari ha nella sostanza spiegato che sì, va bene protestare un po’ verso un regime che ha da cinque anni continua a sviare, depistare, prendere in giro l’Italia sul caso Regeni, il giovane ricercatore friulano rapito, torturato e ucciso nel paese delle Piramidi. Protestare ma con giudizio, senza esagerare, sennò il presidente golpista Abdel Fattah al-Sisi potrebbe inalberarsi e stracciare i contratti con le aziende italiane e favorire quei Paesi, tra cui la Francia, che non aspettano altro che farci le scarpe. Insomma, i diritti umani non devono ostacolare gli affari. Vale per l’Egitto e visto che c’è, anche per l’Arabia Saudita del principe ereditario mandante, secondo la Cia, dell’assassinio del giornalista e dissidente saudita Jamal Khashoggi, letteralmente fatto a pezzi da sicari alle dipendenze di MbS nel consolato saudita a Istanbul. 

Ora, che l’Italia abbia battuto i pugni sul tavolo per pretendere una vera collaborazione dalle autorità egiziane per individuare mandanti ed esecutori del rapimento e del barbaro omicidio di Giulio Regeni, è narrazione, non realtà. Una narrazione che serve al direttore di Repubblica per supportare la sua tesi. Ma quando, ma dove. In cinque anni, l’Italia ha preso schiaffi in faccia a ripetizione dalle autorità de Il Cairo, mostrando sempre l’altra guancia. Ma quando, ma dove, se neanche di fronte all’ultima, in ordine di tempo, provocazione della magistratura egiziana, supportata dal Governo egiziano, non abbiamo avuto la schiena diritta per richiamare il nostro ambasciatore o, quanto meno, per convocare alla Farnesina l’ambasciatore egiziano per manifestare, diplomaticamente, pacatamente, la nostra indignazione nei confronti di una Procura, quella del Cairo, che ha sentenziato che il caso Regeni è chiuso, e che a rapire e assassinare il nostro connazionale, è stata una banda di balordi fatti fuori dalla polizia egiziana. Di fronte a questo scempio di verità, un Paese con la schiena diritta avrebbe fatto fuoco e fiamme. Invece, come hanno affermato Paola e Carlo Regeni, i genitori di Giulio, quanti in Italia hanno continuato a battersi per verità e giustizia per Giulio, sono stati lasciati soli, traditi, sì traditi, dai governi che si sono succeduti negli ultimi cinque anni. Troppo duri?! Ma se non abbiamo neanche sospeso la vendita di armamenti all’Egitto. Ma se il riconfermato ministro degli Esteri non perde occasione per lodare il ruolo dell’Egitto come stabilizzatore del Mediterraneo. Altra narrazione che oltraggia la realtà (vedi la guerra in Libia). 

Al direttore Molinari non chiediamo di leggere con attenzione, non ne avrà tempo, i rapporti sfornati a decine da Amnesty International e Human Rights Watch sullo stato di polizia egiziano, sugli oltre trentamila desaparecidos, sui blogger, attivisti per i diritti umani, oppositori incarcerati a migliaia dal presidente golpista. Forse è chiedergli troppo. Ma almeno si rielegga articoli e inchieste pubblicate sul giornale che dirige, dalle quali emerge con nettezza che quello di Giulio Regeni è un omicidio di Stato.

Se il caso Regeni è diventato di dominio nazionale e internazionale è grazie alla testardaggine dei genitori Paola e Claudio, ma anche della società civile e delle organizzazioni come Amnesty International. Fin dal primo giorno hanno fatto sentire la loro voce, hanno sensibilizzato, hanno informato, e questo ha permesso che i riflettori continuassero a restare puntati sulla vicenda, senza che il desiderio di insabbiamento di molti riuscisse a essere portato a compimento.

Il più grande paradosso della storia di Regeni è quello messo in evidenza 

con grande cura da Luca Mastrodonato su Wired.it: “Uno stato come l’Egitto che per cinque anni ha continuato a mistificare il reale, a deviare le indagini, a proteggere i suoi carnefici, è allo stesso tempo uno stato che ha visto crescere i rapporti economici con quell’Italia che pubblicamente gli lanciava accuse, ma in privato firmava contratti commerciali. Il Cairo non solo continua a essere uno dei principali mercati di sbocco del made in Italy, ma lo è in particolare per quello che è un settore che suona una beffa alla luce della vicenda Regeni: l’industria bellica. In tutti questi anni, l’Italia ha continuato a mandare elicotteri militari, carri armati, armi e munizioni a un paese nella black list mondiale nell’ambito della violazione dei diritti umani e dove la prima delle vittime in questo senso è stato proprio un ragazzo italiano. Di fronte a una tragedia come quella di Giulio Regeni verrebbe da pensare che l’Italia stia tenendo economicamente e diplomaticamente sotto scacco lo stato egiziano. Invece sta avvenendo l’esatto contrario: Roma è totalmente sottomessa al Cairo e i pochi gesti forti che sono stati fatti, come il ritiro dell’ambasciatore, hanno avuto durata limitata. Così il messaggio che passa è che i diritti umani, la democrazia, costituiscano un contorno magari desiderabile ma sicuramente non decisivo nella ragnatela dei rapporti internazionali mondiali. L’atteggiamento dell’Italia e più in generale dell’Europa ha trasmesso al regime di al-Sisi il messaggio che la repressione contro il suo popolo e contro chi calpesta il suolo egiziano potrà al massimo causare qualche condanna a parole nei consessi internazionali, ma per il resto tutto andrà avanti come prima”.

Certo, ci vuole un giornalismo all’”americana” o all’”israeliana”, Paesi che Molinari conosce molto bene, per porre queste questioni al centro di una intervista con il presidente al-Sisi. Ma il giornalismo all’italiana è altra cosa. Cosa? Ad esempio l’intervista in due puntate, manco fosse il presidente degli Stati Uniti o il Papa, che Repubblica (il merito di averla ottenuta e girata al giornale di Largo Fichetti se l’è auto-attribuito Matteo Renzi, a quel tempo presidente del Consiglio), ha dedicato ad al-Sisi. Il direttore non era Molinari, allora a La Stampa. Resta impressa la domanda posta al presidente egiziano. Ficcante, pungente, incalzante: “Signor Presidente, ma Lei che idea si è fatto della morte di Giulio Regeni?”. 

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