Niger, Mali, il nuovo califfato jihadista punta sul Sahel
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Niger, Mali, il nuovo califfato jihadista punta sul Sahel

E' di oltre 70 civili morti il bilancio dell'attacco lanciato da un gruppo di miliziani contro due villaggi del Niger al confine con il Mali, Tchombangou e Zaroumdareye. E dietro c'è una strategia...

Jihadisti
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

3 Gennaio 2021 - 11.41


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Niger, Mali, il nuovo “califfato” punta sul Sahel. E’ di oltre 70 civili morti il bilancio dell’attacco lanciato da un gruppo di miliziani contro due villaggi del Niger al confine con il Mali, Tchombangou e Zaroumdareye. L’attacco non è stato ancora rivendicato, ma è molto probabile che i responsabili siano stati membri dei gruppi jihadisti vicini ad al -Qaeda che insanguinano da otto anni il Sahel.

La strage avviene mentre è in corso lo scrutinio dei risultati delle elezioni politiche dello scorso 27 dicembre. I dati parziali vedono in vantaggio il Partito per la Democrazia e il Socialismo, ora al potere. Nel Nord Est del Mali due soldati francesi sono stati uccisi dall’esplosione di un ordigno rudimentale. Dal 2013 l’esercito francese è schierato nel Mali con l’operazione Barkhane, che impegna più di 5.000 militari a contrasto dell’insurrezione jihadista contro il governo, una cinquantina i soldati di Parigi morti in questi anni. Cinque giorni fa altri tre militari francesi erano morti a causa dell’esplosione di una bomba posta sulla strada dove stava passando il loro convoglio. L’attacco era stato rivendicato dalla branca di al Qaeda nel Sahel. Un combattimento nella regione di Tipaza, a ovest di Algeri ha visto la morte di quattro jihadisti e due soldati. L’operazione antiterrorismo durante la quale è avvenuto lo scontro è ancora in corso, ha affermato il ministero della difesa. L’Algeria fu teatro dal 1992 al 2002 di una guerra civile tra truppe governative e milizie islamiste che causò circa 200 mila morti. Nonostante la riconciliazione siglata nel 2005, nel Paese rimangono attivi gruppi armati che prendono di mira le forze di sicurezza, soprattutto nel centro e nell’Est. 

Africa, trincea jihadista

Scrive, Raffaella Scuderi su Repubblica: “L’Africa del Sahel e della fascia subsahariana si sta facendo sempre più insicura. Il terrorismo indebolisce i governi, le forze di sicurezza governative sempre più fragili abusano della popolazione civile e i gruppi jihadisti si rafforzano e si espandono. È il quadro che emerge dall’ultimo rapporto di Verisk Maplecroft, società internazionale di ricerca strategica e analisi dei rischi, che ogni trimestre stila un indice di pericolosità a livello globale.
L’ultima relazione parla di Africa in caduta libera. Sette Paesi sui 10 più pericolosi del mondo sono nel continente, sotto il Sahara. A cui se ne aggiungono altri 9 che prima erano ritenuti sicuri. La percentuale di aumento del rischio terrorismo rispetto all’analisi del 2019, è del 13%. Burundi, Costa d’Avorio, Tanzania, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Kenya, Mozambico e Senegal, sono diventati più pericolosi dell’anno scorso. Solo Ruanda e Repubblica Centrafricana sono più sicuri”.

L’inferno-Niger

 “Le organizzazioni europee per la difesa dei diritti umani si occupano in genere dei diritti di libertà (di stampa, di espressione, di manifestazione ecc.). Qui in Niger abbiamo compreso che la varietà dei diritti negati è molto più ampia e ricomprende prima di tutto quelli elementari alla sopravvivenza, alla salute, all’istruzione, al lavoro, all’energia e, perfino, allo stato civile (dal momento che solo il 30% dei bambini sono registrati alla nascita). L’insicurezza alimentare è il primo problema del Niger. Il Paese si colloca all’ultimo posto (182° su 182) nell’indice Pnud dello sviluppo umano. E tutte le cifre sono spaventose: il reddito medio per abitante è di 627 dollari all’anno, la speranza di vita è di 50,1 anni, il tasso di mortalità infantile è altissimo, quello di scolarizzazione bassissimo…”, documenta Nicola Quatrano su Osservatorio internazionali dei diritti. E ancora: “Precarietà e disoccupazione sono generalizzate e ognuno è costretto a darsi vorticosamente da fare, nei modi più vari, per mettere insieme il pasto della sera. Niamey, la capitale, è un immenso mercato, dove ogni marciapiede, ogni spazio, è occupato da venditori, che sembrano essere di gran lunga più numerosi degli acquirenti. Moltissimi bambini, anche piccolissimi, chiedono l’elemosina, la maggior parte sono figli di famiglie povere che sono stati affidati a un marabutto (una sorta di sacerdote, titolare di una scuola coranica) e sono costretti dal loro “maestro” a mendicare. Chi non porta la somma pattuita resta senza mangiare, o addirittura viene percosso. Ma è possibile assistere ad altre scene tremende: i redattori del giornale ‘Alternative’ hanno raccontato di avere incontrato delle donne (tra cui Aissa, 70 anni) che fanno ogni giorno diversi chilometri a piedi per recarsi nella discarica della fabbrica di riso di Tillaberi, dove passano la giornata a cercare qualche grano di riso che potrà servire a preparare il pasto della sera….”. L’economia si basa per l’80% sull’agricoltura di sussistenza e l’allevamento del bestiame. Ma l’agricoltura in Niger è costretta a lottare contro molte insidie: siccità e inondazioni, scarsa qualità del terreno, mercati sottosviluppati in tema di sementi e fertilizzanti, povertà dei pascoli. Con circa il 60% della popolazione che vive sotto della soglia di povertà, i consumi alimentari delle famiglie sono un grave problema legato alle stagioni. Per molti abitanti del paese l’insicurezza alimentare e la fame sono croniche. I tassi di malnutrizione sono altissimi: la piaga colpisce circa il 40% dei bambini, e la malnutrizione acuta grave raggiunge un allarmante 10%. Il Niger è il Paese dove i bambini sono maggiormente minacciati ed esposti a rischi per la loro vita e il loro sviluppo, seguito da Angola, Mali, Repubblica Centrafricana e Somalia, documenta Save the Children, nel rapporto “Infanzia rubata”, il primo Indice globale sull’infanzia negata nel mondo “Chi ha fame – sottolinea un missionario che da anni vive in Niger – non si ferma con gli eserciti, ma con lo sviluppo”. Che in questo abisso do senza fondo di miseria e degrado possano attecchire jihadisti e trafficanti non dovrebbe destare sorpresa. 

Patto criminale

Annota Luca Raineri, analista presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa che ha svolto diverse ricerche sul campo per lo più nel Sahel, in Mali, in Niger e nel Senegal. “L’industria del traffico di esseri umani contribuisce all’aumento del reddito del Niger e alla stabilità del suo attuale Governo. Ad esempio, si dice che le società di autobus – che sono strettamente legate al contrabbando di esseri umani – appoggino l’attuale governo. Così, qualora quest’ultimo volesse interrompere tale traffico, queste persone – che sono molto potenti e rappresentano, forse, la fonte di economia più importante del Paese, indirizzerebbero altrove il loro sostegno, il che comprometterebbe la stabilità del regime. Inoltre, coloro che guidano le auto, i pullman e i furgoni con a bordo i migranti attraverso la città di Agadez, alle porte del Sahara, sono spesso anche le stesse persone che alcuni anni prima prendevano parte a insurrezioni e rivolte. Pertanto, si capisce come il Governo non abbia intenzione di lasciare questi individui senza lavoro, nonostante non svolgano la loro attività in modo legale. Il terzo elemento – prosegue Raineri – che vale la pena sottolineare è che anche l’esercito, approfittando dell’industria del traffico umano, sta facendo tanti soldi. Un esempio di questo fiorente mercato è dato dall’applicazione di una tassa che viene fatta pagare a tutti coloro che passano sulle principali rotte di contrabbando nel Paese. Il Niger, in realtà, è una nazione in cui hanno avuto luogo diversi colpi di Stato, cinque o forse di più, e tutti hanno provocato il rovesciamento dei precedenti regimi. Da questo si può capire quanto sia fondamentale la stabilità dei poteri al fine di assicurare la tranquillità del sistema di sicurezza. Ed è dunque, forse, questo il motivo per cui coloro che sono al potere vedano il perpetrarsi di tale istigazione sistematica alla corruzione o ad attività di traffico, a scapito dei migranti, come una sorta di male minore rispetto a un’eventuale destabilizzazione del Paese...”. Considerazioni che portano ad una prima conclusione: in Niger, come in Mali, e negli altri Paesi dell’Africa subsahariana o subsaheliana di origine e di transito di migranti, pensare di contrastare i trafficanti e i loro alleati jihadisti senza attivare nel contempo progetti volti a migliore le condizioni di vita della popolazione locale, più che una illusione appare un pericoloso azzardo.

Una tesi condivisa da Pierre Haski, direttore di France Inter, che in un articolo su Internazionale, rileva: “Oggi i gruppi che si ispirano all’Isis e ad al- Qaeda sono attivi soprattutto in Africa, e non solo nella regione del Sahel. I jihadisti seminano il terrore anche se non controllano concretamente territori, come invece hanno fatto in Medio Oriente.  Questa estensione geografica è legata alla debolezza delle strutture statali e alla miseria più che al potere di attrazione del jihadismo globale.

 I terroristi sanno approfittare delle debolezze dei governi, che si tratti di Stati ‘falliti’ come la Somalia o impotenti come la Nigeria. In Mozambico i jihadisti agiscono in una zona che sta diventando una sorta di Eldorado del gas naturale, con un progetto pilota gestito dall’azienda francese Total. I contadini poveri, perfettamente consapevoli che non riceveranno alcun beneficio dallo sfruttamento delle risorse, sono facili prede per i gruppi violenti. Questo contesto evidenzia che la risposta al terrorismo non può essere esclusivamente basata sulla sicurezza, nemmeno nel Sahel, dove l’attività militare è più sviluppata, con la presenza dei soldati francesi dell’operazione Barkhane e di quelli di altri paesi europei, oltre al rafforzamento degli eserciti africani. Decenni di problemi irrisolti facilitano la destabilizzazione e lo spargimento di sangue”.

Radiografia dell’arcipelago jihadista

A fornirla, è un documentato report di Roberto Colella su ilfattoquotidiano.it: “In Africa restano saldi la Jamaat Nusrat al-Islam wal-Muslimin (Jnim) e soprattutto Al Shabaab. La prima incentrata sul Mali, che opera anche in Burkina Faso e Niger, istituita nel marzo 2017. Si tratta di una federazione di gruppi jihadisti filo-qaedisti guidata dal carismatico Iyad ag Ghaly. La seconda, Al-Shabaab – un affiliato di al-Qaeda in Somalia, specializzato soprattutto in attentati e rapimenti”. Quanto allo Stato islamico, annota Colella, 2 seppur privo di un leader carismatico, gode in Africa di una organizzazione meticolosa. Nel marzo 2015, il leader di Boko Haram, Abubakar Shekau, aveva prestato giuramento ad Abu Bakr al-Baghdadi e allo Stato Islamico. Da allora il nome Boko Haram scomparve, cedendo il posto all’Iswap oggi definito un protoesercito. Shekau fu poi rimpiazzato dalla testa dell’Iswap che scommise le sue carte su Abu Musab al-Barnawi, figlio del fondatore di Boko Haram, Mohammad Yusuf.  Shekau continua oggi ad operare vicino alla foresta di Sambisa con una fazione di 1.500 combattenti, sotto il nome internazionale di Boko Haram o con quello locale di Jama’at Ahl as-Sunnah lid-Da’wah wa’l-Jihad (Jas), ma è spesso citato come seconda branca dell’Iswap, avendo rigettato il decreto dell’Isis.

Il gruppo salafita-jihadista affiliato allo Stato Islamico, Wilayat Sinai (Ws) è invece la principale minaccia alla sicurezza nazionale egiziana. Dal 2013, il gruppo ha compiuto quasi 2000 attentati, causando oltre un migliaio di vittime solo tra i militari. Infatti, il 1° maggio 2020 un attacco contro un convoglio dell’esercito avvenuto a Bir al-Abd, nel Sinai del Nord, ha ucciso 14 soldati. Varie fonti stimano gli affiliati africani all’organizzazione intorno ai 6.000 uomini.

C’è poi l’Islamic State in Greater Sahara (Isgs) nato a metà del 2015, quando Adnan Abu Walid al-Sahraoui, dirigente degli Almoravidi qaedisti, ha prestato giuramento di fedeltà al (defunto) califfo Al Baghdadi Un atto sconfessato e rigettato dal capo degli Almoravidi che ha defenestrato Al-Sahraoui e mantenuto la linea qaedista. A quel punto Al-Sahraoui e altri almoravidi filo-Daesh hanno abiurato per formare lo Stato Islamico in Mali, poi denominato Isgs.

Nell’ottobre 2017 l’Isis ha cominciato a integrare le azioni dell’Isgs nella sua propaganda. La forza dello Stato islamico nel Grande Sahara è di 425 jihadisti. Il tutto sotto la regia dell’Isis che rilancia l’idea del califfato in salsa africana”.

Partita finale

Nella zona delle tre frontiere tra Mali, Burkina Faso e Niger, nel sud-ovest nigerino – concordano gli analisti di geopolitica ed esperti dell’Islam radicale armato – si gioca il futuro non solo del Sahel. L’area brucia da tempo, ora la situazione è incandescente. I terroristi jihadisti che da 7 anni si sono impadroniti delle terre di confine del Mali sconfinano abitualmente in Niger per colpire scuole, chiese e intimidire i musulmani che non vogliono arruolarsi. E da mesi i membri del cosiddetto Stato islamico dell’Africa Occidentale (Iswap), che mira a creare il califfato del Sahel, hanno intensificato gli attacchi in Burkina Faso. Le truppe maliane e burkinabè non hanno saputo fermare le colonne motorizzate delle milizie jihadiste che colpiscono con bombe, rapiscono e uccidono con brutalità crescente e rapidità. Sono i foreign fighters venuti prima in Libia dalla Siria e poi fuggiti nel deserto. Ceceni, azeri, siriani, iracheni, libici unitisi ai miliziani locali. E’ la “pandemia” jihadista che sta infettando l’Africa. Ma la comunità internazionale non sembra rendersene conto. 

 

 

 

 

 

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