Sono i Balcani la filiera più prolifica della nuova Jihad
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Sono i Balcani la filiera più prolifica della nuova Jihad

La radicalizzazione della comunità islamica nei Balcani venne favorita da una serie di operazioni economiche e militari portate avanti, tra gli altri, dalla Third World Relief Agency (Twra).

L'Isis rivendica l'attentato di Vienna
L'Isis rivendica l'attentato di Vienna
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

4 Novembre 2020 - 15.48


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Altro che il Mediterraneo. Sono i Balcani la filiera europea della Jihad. E una conferma viene dagli attacchi di Vienna. Lo Stato islamico ha rivendicato l’attacco di ieri sera a Vienna.
La rivendicazione è giunta con una dichiarazione ufficiale diffusa tramite i mezzi di propaganda dell’Isis, in cui si dice che l’attacco è opera di un “soldato del califfato”, che viene identificato come Abu Dujana al-Albani definendolo albanese. L’agenzia Amaq, dell’Isis, ha diffuso inoltre una foto dell’assalitore. “Sembra coincidere con un’altra foto che circolava online direttamente a seguito dell’attacco”, sottolinea Rita Katz, la direttrice del Site Institute, società che si occupa di monitorare e verificare le attività online dell’Isis. Lo stesso Site scrive anche che gruppi jihadisti affermano in rete che: “l’attacco di Vienna fa parte del conto per il coinvolgimento austriaco nella coalizione a guida americana”.
La radicalizzazione della comunità islamica nei Balcani venne favorita da una serie di operazioni economiche e militari portate avanti, tra gli altri, dalla Third World Relief Agency (Twra). L’agenzia, con sede a Vienna, poteva contare non solo sul finanziamento diretto dell’Arabia Saudita e di altri paesi come l’Iran, il Pakistan e la Turchia, ma anche e soprattutto sul sostegno di Al Qaeda che puntava a fare della Bosnia la base centrale per le operazioni terroristiche in Europa. Le stime più caute (Strazzari, 2008) parlano di oltre 350 milioni di dollari raccolti dalla Twra tra il 1992 e il 1995 per finanziare militarmente i combattenti musulmani in Bosnia.

Dopo un anno dallo scoppio delle ostilità il reparto El Mudžahedin dell’Armija BiH (l’esercito bosniaco musulmano) poteva contare su quasi 2mila uomini provenienti soprattutto dall’Afghanistan e dal Pakistan. In totale i mujaheddin presenti sul campo di battaglia furono oltre 4mila. Una presenza così importante di combattenti altamente radicalizzati dal punto di vista militare e religioso, unita alle conseguenze della guerra, favorì la diffusione di un Islam di stampo salafita nella regione. Il caso più famoso ed eclatante è senza dubbio rappresentato dal villaggio di Gornja Maoca e dal suo fondatore Nusret Imamovic.

Leader del movimento wahhabita in Bosnia, Imamovic contribuì a fare del piccolo villaggio nel nord-est del paese una roccaforte jihadista in cui vigeva la legge islamica e in cui pochi anni fa furono ritrovati numerose bandiere e oggetti inneggianti all’Isis. Imamovic infatti è considerato, insieme con Husein “Bilal” Bosnic, come uno dei principali reclutatori di foreign fighters per Al Nusra in Siria. Nel giro di un decennio quindi la Bosnia si è trasformata da paese di arrivo dei foreign fighters ad uno di partenza, destinazione Stato islamico in Siria e Iraq.

I Balcani Occidentali, le Repubbliche nate dalla dissoluzione della ex Jugoslavia più l’Albania, sono “la regione d’Europa con la più alta concentrazione di foreign fighters ritornati” dalla Siria e dall’Iraq. Un problema ben noto, alle porte di casa, trascurato dall’Europa e lasciato nelle mani di Stati dai mezzi limitati, che devono oltretutto fronteggiare la «minaccia» costituita dai jihadisti «indigeni». Dopo che si è saputo che uno dei terroristi che ha attaccato i civili nel centro di Vienna, abbattuto dalla polizia austriaca, viene dalla Macedonia del Nord, si ripropone drammaticamente il problema dell’islamismo jihadista nei Balcani, i cui termini sono sviscerati in uno studio pubblicato dal Combating Terrorism Centre di West Point, “Western Balkans Foreign Fighters and Homegrown Jihadis: Trends and Implication“, di Adrian Shtuni.

La filiera balcanica

Anzitutto, i foreign fighters, che sono le avanguardie del jihadismo. Dal 2012 al 2019, spiega Shtuni, circa “1.070” cittadini di Kosovo, Bosnia-Erzegovina, Nord Macedonia, Albania, Serbia e Montenegro sono andati in Siria e Iraq per combattere sotto le insegne dello Stato Islamico e, in misura minore, per Jabhat al-Nusra, poi ribattezzata Hayat Tahrir al-Sham (Hts). Il flusso di jihadisti balcanici ha avuto un picco nel 2013-14, per poi recedere e fermarsi nel 2016. Circa due terzi, il 67%, erano maschi adulti al momento della partenza, il 15% donne e il 18% bambini. Il Kosovo è quello che ha mandato più uomini (256), la Bosnia Erzegovina più donne (61) e bambini (81). Il contingente balcanico in Medio Oriente è poi cresciuto, perché i militanti hanno fatto figli; circa 260 persone sono state uccise in combattimento, circa un quarto del contingente originario. Altri 460 sono tornati nei loro Paesi di residenza, la maggioranza nel 2015. Nel 2018 l’Esercito Usa ha trasferito in Nord Macedonia alcuni foreign fighters che erano detenuti dai curdi delle Forze Democratiche Siriane, cosa che fa della Macedonia il primo Paese europeo a rimpatriare foreign fighters detenuti in Siria. Nell’aprile 2019 il Kosovo ha accettato di riprendersi 74 bambini, 32 donne e 4 uomini; la Bosnia Erzegovina ha accettato il rimpatrio di un solo foreign fighter. Shtuni stima (lo studio è del 2019) che all’epoca rimanessero in Siria circa 500 individui di origine balcanica, per un terzo combattenti maschi e il resto donne e bambini. I bosniaci erano la nazionalità più rappresentata. Le unità monoetniche che combattevano per lo Stato Islamico sono state via via decapitate dai droni Usa, che prendevano di mira i capi: l’ultima in attività era una katiba (unità di combattimento) di uomini di etnia albanese che operavano intorno ad Idlib per Hts: venivano principalmente dalla Macedonia e dal Kosovo. Il comandante era Abdul Jashari, un 42enne albanese della Macedonia, nome di battaglia Abu Qatada al-Albani (l’albanese).

Fin dall’inizio della guerra civile in Siria, Kosovo, Bosnia Erzegovina e Macedonia hanno visto tassi “tra i più alti d’Europa” di mobilitazione per organizzazioni terroriste jihadiste in rapporto alla popolazione, sottolinea Shtuni. Anche per i foreign fighters ritornati, questi Paesi sono in testa, in rapporto alla popolazione: il Kosovo, che ha 1,8 mln di abitanti, ne ha visti tornare 242. L’Ue, che a metà 2019 aveva circa 500 milioni di abitanti (ora ne ha 460 milioni, perché ha perso il Regno Unito), ne ha riaccolti circa 1.500. Dall’anno scorso, altri foreign fighters hanno fatto rientro a casa, portandosi dietro l’esperienza della guerra e il ‘prestigio’ di ex combattenti per il Califfato. Per i Paesi dei Balcani Occidentali, che hanno “risorse molto modeste” se paragonate a quelle di altri Paesi d’Europa, si tratta di un problema enorme, aggravato dalla prassi dei Paesi europei di privare della nazionalità i cittadini che sono andati a combattere in Siria e in Iraq. Il risultato, spiega Shtuni, è che i cittadini dalla doppia nazionalità vengono scaricati sui Paesi dei Balcani, che dovrebbero perseguirli legalmente e prenderseli in carico. Nell’ottobre 2018, per esempio, il Kosovo ha accettato di riprendersi dalla Turchia un combattente islamista di etnia albanese e i suoi tre figli. Era nato in Germania da genitori kosovari, era cresciuto e si era radicalizzato in Germania, aveva combattuto in Siria per un’unità che parlava tedesco, la Lohberger Brigade. In Kosovo è stato processato e condannato a cinque anni di carcere, ma esclusivamente per essersi unito all’Isis, e non per i possibili crimini commessi in quattro anni di combattimento sotto le insegne dello Stato Islamico. La crescita della mobilitazione jihadista nei Balcani Occidentali potrà anche essere stata “improvvisa” nella sua manifestazione, scrive Shtuni, ma “non è avvenuta nel vuoto”. I foreign fighters sono solo “la manifestazione più visibile” di un fenomeno più vasto di militanza religiosa nei Balcani Occidentali, che “non è facile” misurare. Numerose operazioni antiterrorismo hanno portato a “centinaia di arresti e condanne”, rivelando il ruolo di reti ben organizzate di radicalizzazione, reclutamento e mobilitazione costruite attorno a “enclaves salafite, moschee non ufficiali, e una pletora di associazioni caritatevoli religiose, movimenti e associazioni condotte da chierici fondamentalisti e fanatici religiosi”.

Essenzialmente, osserva Shtuni, le dinamiche sono simili a quelle osservate in Belgio con Sharia4Belgium o in Germania con Millatu Ibrahim o Die Wahre Religion, tutte organizzazioni “pesantemente legate” con il flusso di foreign fighters verso Siria e Iraq. Ma c’è una differenza: nei Balcani Occidentali il proliferare di organizzazioni ultraconservatrici è stato favorito dal contesto postbellico nei Balcani, in cui queste entità sono state in grado di sfruttare “fratture e vulnerabilità sociali”, mescolando l’aiuto umanitario con l’indottrinamento salafita e la militanza. Non ci sono dati attendibili per stimare l’ampiezza della ‘platea’ di estremisti pericolosi nei Balcani Occidentali, nota l’analista, ma si può procedere per analogia. In Francia i servizi di sicurezza stimano che il numero degli individui radicalizzati che costituiscono una minaccia potenziale per la sicurezza nazionale è circa 15 volte più alto di quello dei foreign fighters francesi noti alle autorità. In Gran Bretagna l’MI5 stimava nel 2017 il numero dei jihadisti ‘domestici’ che costituiscono una minaccia residuale o attiva per la sicurezza nazionale fosse superiore di 27 volte a quello dei foreign fighters britannici. Per Shtuni, “non è inconcepibile presumere un rapporto di almeno 15 jihadisti ‘domestici’ per ogni foreign fighter nei Balcani Occidentali. Altri due indicatori segnalano l’esistenza di un “contingente robusto e ideologicamente impegnato di jihadisti” in quei Paesi: le attività sui social network che sostengono la propaganda delle organizzazioni terroriste e il numero “senza precedenti” di attentati sventati e di terroristi ‘domestici’ arrestati in quei Paesi negli ultimi anni. Da notare è che gli attentati sventati hanno coinvolto individui che “non avevano viaggiato” in Siria e in Iraq, anche se “in molti casi” erano “connessi” o “associati” a noti foreign fighters. Shtuni raccomandava infine di dedicare una “attenzione speciale” e “risorse” a “valutare, monitorare e contrastare attivamente le robuste reti jihadiste” attive nei Balcani Occidentali. Inclusa la Macedonia del Nord, di cui era originario Kujtim Fejzulai, il ventenne abbattuto dai poliziotti viennesi. Fejzulai, era in contatto con una rete di jihadisti tedeschi: lo sostiene Spiegel online. L’attentatore era stato in Turchia nel 2018 nel tentativo di entrare in Siria per arruolarsi nell’Isis e lì aveva conosciuto due jihadisti tedeschi e uno belga. Lo riporta una sentenza del tribunale del Land di Vienna di aprile. Il giovane avrebbe incontrato i tre jihadisti ad Hatay tra Turchia e Siria, in un covo Isis. Poi sarebbe stato accompagnato in un hotel in Turchia e dopo poco arrestato dalla polizia. Nell’aprile del 2019 Fejzulai è stato condannato a 22 mesi di prigione per aver tentato di entrare nelle milizie dello “Stato islamico” ma poi rilasciato dalla giustizia austriaca il 5 dicembre.

Reclutamento locale

Una delle caratteristiche che distingue le tendenze della mobilitazione jihadista nei Balcani è che le reclute sono locali, vale a dire che non sono migranti e non provengono da minoranze culturali o religiose. In altri paesi europei, invece, le statistiche indicano che la maggior parte delle reclute siano migranti di prima o seconda generazione che spesso vivevano ai margini della società e che faticavano per integrarsi. Nei miei studi non ho osservato alcuna correlazione tra reddito o livello di istruzione e vulnerabilità alla mobilitazione. La maggior parte dei foreign fighters balcanici aveva un buon livello educativo e non era disoccupata al momento della partenza. Nel caso del Kosovo, sulla base di dati ufficiali, le reclute avevano tassi di istruzione formale più elevati rispetto alla media nazionale.

La concentrazione della mobilitazione in poche aree geografiche indica il ruolo cruciale delle reti fisiche e delle organizzazioni salafite nell’indottrinamento, reclutamento e mobilitazione in organizzazioni terroristiche. Questo è in qualche misura simile ai modelli di reclutamento osservati in paesi come il Belgio e la Germania dove organizzazioni come Sharia4Belgium e Die Wahre Religion sono state identificate come centri chiave di indottrinamento e di mobilitazione. Tuttavia, questa somiglianza ha in sé una differenza significativa.
A differenza degli altri paesi europei, le reti salafiste si sono diffuse nei Balcani all’indomani dei conflitti armati nella regione, mescolando l’assistenza umanitaria con l’indottrinamento islamista e facendo leva sempre più sull’assistenza di un gruppo di laureati locali provenienti da istituzioni educative islamiche in Medio Oriente, queste reti sono riuscite ad attrarre e reclutare i residenti in modo più efficiente sfruttando le loro vulnerabilità e sostenendo i loro bisogni. In Bosnia queste organizzazioni non ufficiali vengono spesso chiamate para-jamaats, sorta di para moschee.

I Balcani si islamizzano, ed esporta jihadisti. Ieri in Siria e Iraq, oggi a qualche centinaio di chilometri, nel cuore del Vecchio continente.

 

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