“Raccontami Alessandro”: Manzoni sul lettino di Freud
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“Raccontami Alessandro”: Manzoni sul lettino di Freud

All’OFF/OFF Theatre di Roma in scena il lato più umano del poeta, tra seduta di psicoterapia e lettere di famiglia con Nicola Bizzarri e Andrea Pellizzoni.

Raccontami Alessandro con Nicola Bizzarri e Andrea Pellizzoni - recensione di Alessia de Antoniis
Raccontami Alessandro con Nicola Bizzarri e Andrea Pellizzoni
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7 Dicembre 2025 - 15.36


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di Alessia de Antoniis

Mettere Alessandro Manzoni sul lettino dell’analista è un atto di eresia salutare.
In “Raccontami Alessandro”, in scena 6 e 7 dicembre all’OFF/OFF Theatre di via Giulia, Nicola Bizzarri e Andrea Pellizzoni partono proprio da qui: dall’idea che il padre dei Promessi sposi non sia un busto di gesso scolastico, ma un uomo pieno di ansie, vertigini, lutti, sensi di colpa e piccole manie contemporanee.

Lo spettacolo – prodotto da StendhArt Teatro, con la ricerca storica di Paola Panzeri – immagina una lunga seduta di psicoterapia. A un tavolo ingombro di libri, tazze da tè, carte, Manzoni-Bizzarri si presenta nello studio di uno psicologo-Pellizzoni divertente ma non caricaturale: è un ascoltatore paziente, un contrappunto discreto che invita a mettere ordine, senza giudicare, nel caos di una vita. La scelta più radicale è che quasi tutte le parole pronunciate in scena sono autentiche: lettere di Manzoni, epigrafi, corrispondenze dei figli, brevi brani poetici.

Ne nasce un ritratto in cui la biografia procede a scarti, come in una seduta vera: non c’è linearità, ma un continuo andirivieni tra il bambino lasciato in collegio, la giovinezza parigina con la madre Giulia Beccaria che non vedeva da anni, l’incontro con Enrichetta Blondel, le conversioni, le crisi nervose, i lutti. La drammaturgia usa il dispositivo clinico e i tempi comici per far emergere le crepe sotto la superficie dell’agiografia: il Manzoni che teme di impazzire, che si guarda la lingua allo specchio per diagnosticarsi da solo, che si cura con improbabili “acque frizzanti” e aceto, convinto di avere il ventricolo infiammato.

Bizzarri lavora su una fisicità nervosa: il corpo allungato, vestito di nero, occupa la scena con scatti, irrigidimenti, improvvise flessioni. Il microfono gli permette una recitazione quasi confidenziale: la voce si abbassa, sussurra, si spezza quando Alessandro parla dei figli morti: otto su nove, “troppi ne ho visti morire”, confessa; o della figlia Matilde che lo chiama al capezzale e che lui non raggiungerà mai, rimpiangendolo per tutta la vita.

La seduta diventa un’indagine sulla paternità mancata. Gli interventi dei figli – lettere vere, anche qui – irrompono come fantasmi: richieste di denaro, suppliche, dichiarazioni d’amore deluse. Filippo che ipoteca la propria quota d’eredità, Pietro che si sposa di nascosto con una ballerina, Enrico imprenditore dissipatore, le figlie che si sentono orfane di un padre vivo.

Pellizzoni, in camice bianco, gioca in sottrazione. Il suo psicologo è più coscienza che personaggio: pone domande minime, restituisce le parole, ogni tanto fa emergere un giudizio implicito: “forse i tuoi figli ti ricordano che devi far loro da padre”; ma resta soprattutto uno specchio. Guida il pubblico dentro l’archivio delle lettere, ne evidenzia i nodi, permette a Manzoni di riconoscersi.

La scena di Loredana Mazzoleni è un piccolo universo manzoniano: sedie scompagnate, volumi accatastati, fogli sparsi a terra come neve cartacea. Non c’è nulla di museale; anzi, l’impressione è quella di un archivio in disordine permanente, che il gesto dell’attore rimescola di continuo. Il violino di Francesco Romeo interviene come un pensiero musicale: a volte commento lirico, a volte strappo, a volte rumore che accompagna gli attacchi di panico, il senso di vertigine, le immagini oniriche di Ugo Foscolo che appare in sogno a Manzoni.

Lo spettacolo ha il merito di umanizzare senza sminuire. Non c’è compiacimento nel mostrare il lato buffo: l’ossessione per la cravatta che si gira mentre cammina troppo in fretta, la paura del dentista che lo porta a cavarsi da solo un dente, le strane cure d’allegria prescritte dai medici. C’è forse la consapevolezza che quei dettagli costruiscono, più di mille manuali, il profilo psicologico di un uomo geniale e fragilissimo; molto ontano dal quel padre della lingua italiana che i manuali scolastici ci hanno restituito granitico davanti a qualsiasi lutto familiare: semplicemente il figlio di Giulia e il nipote di Cesare Beccaria.

Allo stesso tempo, il lavoro non dimentica lo scrittore: alcune pagine poetiche – dal Cinque maggio ai versi per la morte di Carlo Imbonati – emergono nella confessione. L’effetto è interessante: i testi lirici non sono citazioni scolastiche, ma la risposta, quasi fisica, di un corpo che non riesce a contenere il dolore e lo trasforma in forma alta. Mentre la nevrosi diventa letteratura.

“Raccontami Alessandro” è, in fondo, un esercizio di empatia laica. Togliendo Manzoni dal piedistallo e mettendolo davanti a un terapeuta, Bizzarri e Pellizzoni ci restituiscono un uomo che sbaglia, che ferisce, che si sente inadeguato come padre e come credente, che vive attacchi d’ansia e paura del futuro. Un uomo quasi moderno.

Si esce non con un amore ritrovato per un Manzoni che pochi di noi hanno apprezzato, ma con un occhio più umano verso il figlio di una famiglia disastrata, il padre assente di figli orfani come lo era stato lui. Con Giulia Beccaria che non è più la regina dei salotti culturali, ma una donna concentrata su se stessa. E con l’impressione che, forse, la cosa più moderna di Manzoni non sia la lingua, ma il suo essere un paziente perfetto per il nostro tempo.

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