Le sfide di Marte: entusiasmi e fallimenti nella conquista del 'pianeta rosso'
Top

Le sfide di Marte: entusiasmi e fallimenti nella conquista del 'pianeta rosso'

Il libro Le sfide di Marte racconta, con abbondanza di aneddoti e informazioni e con grande passione, gli alti e i bassi della corsa alla conquista del “Pianeta rosso”, tra entusiasmi e fallimenti.

Le sfide di Marte: entusiasmi e fallimenti nella conquista del 'pianeta rosso'
Marte
Preroll

globalist Modifica articolo

27 Aprile 2023 - 14.46


ATF

di Rock Reynolds

C’è un fascino antico nell’idea che un giorno l’uomo possa mettere piede sul pianeta Marte. Non è un caso se quel pianeta porta il nome del dio della guerra. Eppure, nonostante da anni si abbia la sensazione che l’impresa sia a portata di mano, le difficoltà sembrano ancora soverchie e l’enorme differenza ambientale rispetto al nostro pianeta, con una gravità di circa un terzo di quella terrestre, un’atmosfera tenue, le profonde depressioni e gli elevatissimi picchi, per non dire nulla degli sbalzi di temperatura, comunque gelida, ha finora rinviato il momento.

Il fisico Paolo Ferri ha lavorato per quasi quarant’anni per l’Agenzia Spaziale Europea, dirigendo il dipartimento di operazioni spaziali e coordinando missioni come Rosetta, Mars Express ed ExoMars. Il suo libro Le sfide di Marte (Raffaello Cortina Editore, pagg 279, euro 22) racconta, con abbondanza di aneddoti e informazioni e con grande passione, gli alti e i bassi della corsa alla conquista del “Pianeta rosso”, tra entusiasmi e fallimenti. E la passione traspare anche nelle risposte che ha fornito alle nostre domande.

Perché Marte ha attratto la gente, nel corso della storia, tra scienza e mitologia?

Se guardiamo con attenzione il cielo notturno, Marte ci appare chiaramente come un punto di colore rosso. Per questo fin dall’antichità il pianeta è stato associato al fuoco o alla guerra, e di conseguenza, essendo un corpo celeste, agli dei della guerra. Insomma un oggetto celeste molto speciale, che da sempre incuteva particolare timore. Facendo un balzo nell’epoca dell’astronomia moderna, non appena gli scienziati hanno avuto a disposizione il telescopio per osservare il cielo, lo hanno puntato verso Marte, scoprendone gradualmente, con il progredire della tecnologia e della qualità dell’ottica dei loro strumenti, sempre nuove caratteristiche, come il periodo di rotazione, le calotte polari, e soprattutto strani segni sulla superficie. Questi segni, per una serie di equivoci, sono stati interpretati nell’Ottocento come costruzioni artificiali, i famosi canali marziani. Da quel momento in poi, Marte è diventato, nell’immaginario collettivo, il pianeta degli extraterrestri, degli omini verdi, dei marziani. Ci sono volute le sonde spaziali inviate negli ultimi decenni a fotografarlo da vicino per sfatare questa illusione, mostrando che Marte è essenzialmente un pianeta desertico, senza vegetazione e senza vita, almeno sulla superficie. Ma il pianeta rimane di grande interesse scientifico: è il più vicino alla Terra, è più piccolo ma roccioso come il nostro, ed è stato nel passato ancora più simile alla Terra, con acqua liquida che scorreva sulla superficie, e probabilmente anche un campo magnetico e un’atmosfera più densa. È importante studiarlo per capire perché si sia evoluto in modo così diverso dalla Terra e per capire in che direzione possa andare l’evoluzione del nostro pianeta.

Il linguaggio dell’astronomia può risultare astruso. Qual è la più grande difficoltà nel parlare di cose “tecniche” a un pubblico generalista?

Quando si scrive per un pubblico di non esperti, bisogna prestare molta attenzione a spiegare termini e concetti che nel nostro lavoro, parlando con i colleghi, usiamo quotidianamente e automaticamente, dato che sono noti a tutti gli interlocutori. Ma quando cominciavo a spiegare un termine o un concetto specialistico, mi rendevo conto che usavo altri termini specialistici che dovevo spiegare. Insomma la difficoltà non è la singola spiegazione di un concetto scientifico o tecnologico in parole semplici, ma questa catena di spiegazioni, che va ordinata e spezzettata, facendo attenzione a costruire un castello di chiarimenti e spiegazioni che sia logico e coerente, allo stesso tempo cercando di non annoiare il lettore. Per questo nei miei libri mi piace cominciare dal racconto delle missioni attraverso le mie esperienze, usare aneddoti personali, intercalandoli con spiegazioni tecniche o scientifiche, senza esagerare. Nella mia carriera ho fatto tante presentazioni orali al pubblico, interviste con la stampa, articoli su giornali o riviste. Ma scrivere libri divulgativi mi ha portato a un livello di complessità diverso. Al mio terzo libro, sto ancora imparando, e in questo mi aiuta moltissimo leggere o ascoltare i commenti dei lettori e anche le domande di chi mi intervista. L’effetto secondario che mi dà grande soddisfazione è che, cercando e trovando le spiegazioni semplici, mi sono accorto che imparo e capisco meglio io stesso le cose di cui sto scrivendo.

Parlando di un collega statunitense, lei dice che il suo atteggiamento le è parso di “sbruffoneria americana”. Le è capitato spesso di imbattersi in quell’aria di superiorità?

Sono differenze culturali tra i nord-americani e noi europei che si notano continuamente quando si lavora con loro. Non è solo un’aria di superiorità: quando uno di loro dice che conosce la superficie di Marte come le sue tasche è probabilmente molto vicino alla verità. Solo che noi europei non diremmo mai una cosa del genere in una riunione di lavoro, anche se la pensassimo. Una frase così nella nostra cultura europea è poco seria, semplicemente non si dice. Così, come noi interpretiamo la sicurezza verbale degli americani come sbruffoneria, loro tendono a interpretare la nostra cautela come insicurezza o magari anche incompetenza. Poi, fortunatamente, ci si conosce meglio, ci si basa sui fatti, e si impara a lavorare insieme senza problemi.

Quanto, secondo lei, nelle missioni spaziali è frutto di calcolo e studio e quanto di passione e inventiva?

Sono convinto che in tutte le attività umane la passione sia il fattore che porta al successo. Se poi parliamo di esplorazione, di imprese pionieristiche che vengono intraprese per la prima volta, senza nessun esempio precedente da seguire, allora la passione diventa indispensabile, e allo stesso tempo l’inventiva è parte integrante di ogni nostro passo, dalla fase di studio a quella di realizzazione. Quando facciamo volare quelle macchine estremamente complesse che sono le sonde interplanetarie, e le facciamo volare a distanze enormi dalla Terra, senza possibilità di ripararle in caso di guasto o di modificarle in caso di eventi imprevisti, passiamo anni a studiare le strategie e a pensare a tutte le eventualità, persino ad addestrarci ad affrontare eventuali imprevisti. Ma poi negli anni di volo succedono cose che assolutamente non ci potevamo immaginare. E qui entra in gioco l’inventiva, la genialità umana. Nel libro cito vari esempi in cui abbiamo risolto problemi di una sonda in volo usando sistemi costruiti per fare tutt’altre cose. Nello spazio siamo una specie di Robinson Crusoe, non possiamo andare a comprare gli attrezzi che ci servono, dobbiamo imparare a sopravvivere con quello che abbiamo a disposizione. E incredibilmente ci riusciamo quasi sempre! Ma tutto l’ingegno, l’impegno, il lavoro e il tempo che dedichiamo, giorno e notte, a queste missioni non otterrebbe nessun risultato se non fosse guidato da una grande passione. 

Lei riflette sul fatto che certi progetti si sono arenati con la fine della guerra fredda. Oggi, parrebbe che la guerra si sia fatta gelida: ci sarà una nuova corsa allo spazio?

Ha ragione, la situazione è decisamente peggiore di quella degli anni Cinquanta-Sessanta, anche perché certo non si può parlare di guerra fredda, dato che la gente si sta ammazzando quotidianamente. Ma se allora la guerra fredda diede la spinta che fece partire le imprese spaziali, oggi direi che l’effetto di questa nuova situazione di conflitto tra Russia e occidente sia opposto: le imprese spaziali oggi hanno bisogno della cooperazione internazionale, altrimenti non sarebbero realizzabili, sia in termini di costi che di tecnologia. Invece stiamo rialzando barriere tra le nazioni che ci eravamo illusi fossero sparite per sempre. Non solo nel campo spaziale, ma in quello scientifico, culturale, artistico, sportivo (oltre che naturalmente quello politico e economico). Barriere che nemmeno durante la guerra fredda avevamo osato alzare oggi vengono create senza esitazioni e quasi senza alcuna opposizione. Non credo quindi che stavolta lo spazio potrà trarre benefici da questa situazione terribile sulla Terra. La nuova ostilità tra le grandi potenze ha fatto rinascere l’interesse per la Luna, magari solo per fare un dispetto all’avversario (come sembra stia accadendo tra USA e Cina), ma penso sarà un episodio sterile, senza grande influenza sul futuro delle imprese spaziali.

Le prime immagini del pianeta Marte sono state un po’ deludenti per chi sperava di individuare un ambiente più conduttivo della vita come la conosciamo noi. Come si pone uno scienziato dello spazio quando le aspettative superano la realtà?

La reazione dell’umanità alle prime foto della superficie marziana trasmesse dalle sonde Viking nel 1976 è descritta accuratamente in un meraviglioso e visionario articolo di Italo Calvino sul Corriere della Sera del 12 luglio 1976. Già il titolo “Un deserto in più” dice tutto sulla grande delusione seguita all’apparire di quelle foto di un deserto desolato. La scienza però – come riconosce il genio straordinario di Calvino – progredisce proprio quando la realtà delle nuove osservazioni non coincide con le aspettative. Progettiamo e realizziamo una missione sulla base delle nostre teorie scientifiche, ma se il risultato della missione è la conferma di queste teorie, allora non abbiamo ottenuto molto. Molto meglio invece è una missione che contraddica con i suoi risultati le teorie preesistenti, che risponda sì alle nostre domande ma soprattutto che ne crei di nuove. Solo questo fa progredire la scienza.

Anche come operatori spaziali, quando si lavora su missioni di esplorazione si è continuamente esposti proprio a questo effetto: cerchiamo di prevedere tutto, e poi in volo succedono cose assolutamente impreviste, che ci costringono a inventare soluzioni nuove per risolverel. Ma spesso queste soluzioni nuove portano con sé, come effetti secondari, cambiamenti che migliorano il funzionamento della missione, riducono i costi e i rischi. La chiamiamo “innovazione per disperazione.

Se dovesse indicare la soddisfazione/successo e la delusione/fallimento più grandi della sua carriera professionale quali sarebbero?

Comincio dal successo, che non è legato a una missione marziana ma alla missione Rosetta, la prima e finora unica missione spaziale che ha raggiunto nel 2014 il nucleo di una cometa, restandone in orbita per due anni e facendovi atterrare un modulo scientifico. È una missione storica, a cui ho dedicato vent’anni della mia carriera. Fu un successo sotto tanti aspetti: scientifico, naturalmente, e tecnologico, ma anche in grado di porre le basi per tutte le missioni interplanetarie future. Con Rosetta abbiamo creato un’infrastruttura e un know-how tecnologico, ma soprattutto abbiamo formato un team di esperti europei che oggi ci permettono di inviare sonde interplanetarie in tutto il sistema solare. Mi ritengo privilegiato per aver avuto l’opportunità di contribuire a tutto questo. Il fallimento che invece ricordo con particolare dolore è la perdita del modulo di atterraggio su Marte, Beagle2, che avevamo portato sul Pianeta rosso con la nostra sonda Mars Express. Era per noi dell’ESA un semplice passeggero, un veicolo britannico, costruito e operato sotto la loro responsabilità. Ma era parte della nostra missione, e per vari motivi era stato progettato per eseguire la discesa su Marte senza inviare segnali radio a terra. Il trasmettitore sarebbe stato acceso solo dopo l’atterraggio. Questo non avvenne, per cui non solo la missione di atterraggio fallì, ma non imparammo niente da tale insuccesso. Quando si fa esplorazione i fallimenti sono altrettanto importanti che i successi, perché contribuiscono a migliorare le nostre conoscenze e ci fanno evitare di ripetere gli stessi errori nelle missioni future. Ma se non si capisce il perché di un fallimento allora il fallimento è totale. Abbiamo imparato la lezione con il secondo tentativo europeo di atterraggio su Marte, quello di Schiaparelli, nel 2016. Un atterraggio fallito, ma un test di grande successo dato che abbiamo ricevuto tutti i dati necessari per capire quali fossero i problemi e come risolverli.

Native

Articoli correlati