Aggrapparsi alla memoria, recuperare dagli abissi del passato esperienze di arte e vita, tramandarle alle nuove generazioni, è il modo più proficuo per combattere l’endemico oblio che mina il nostro presente, indebolisce il nostro futuro. Se poi la raccolta di testimonianze dirette avviene con l’audiovisivo, l’impatto che questo progetto culturale può avere nell’inesausta battaglia contro la dimenticanza è ben maggiore. Accogliamo dunque con gioia un documentario invero notevole, proiettato alla Casa del jazz di Roma: Music Inn – Arriva il jazz a Roma. Firmato da Carola De Scipio (regia e montaggio) e Roberto Carotenuto (fotografia e presa diretta), impreziosito dal commento musicale di Enrico Pieranunzi e prodotto da Alfredo Ponissi e dall’Associazione Jazz Mobile, riunisce con sapiente taglio narrativo i vividi ricordi di musicisti, produttori, discografici, giornalisti che ricostruiscono la storia di un luogo che ha rappresentato un momento costituivo dell’affermazione ed evoluzione del jazz nel nostro Paese: il club Music Inn.
Fondato nel 1973 da Pepito Pignatelli e dalla moglie Picchi, che ne furono geniali animatori, il piccolo, celeberrimo locale nel cuore della capitale fu attivo per un ventennio. Fin dalla nascita acquisì grande risonanza internazionale per l’altissima qualità musicale che vi si esprimeva, divenendo un centro artistico e culturale di rilevanza internazionale. Sul suo palco si sono esibiti musicisti leggendari come Dexter Gordon, Charlie Mingus, Ornette Coleman, Johnny Griffin, Bill Evans, Chet Baker, Horace Silver, McCoy Tyner e numerosi altri, e, grazie all’illuminata visione dei fondatori, molti giovani artisti italiani ebbero la possibilità di formarsi e crescere suonando con colleghi americani che hanno fatto la storia del jazz. Quel luogo, per più d’un verso simile alle cantine dei teatri off di un’epoca irripetibile della cultura romana e nazionale, fu insomma una sorta di fruttuosissimo laboratorio, crocevia di esperienze artistiche, istruttivi incontri umani e durevoli amicizie.
Le quasi due ore del documentario scivolano d’un fiato, grazie anche al montaggio rapido come il passo della vita, che fonde armonicamente musica, dialoghi e immagini, lasciando lo spettatore in apnea davanti al racconto d’una vicenda memorabile. Non è questo l’unico dei suoi meriti, poiché lo sguardo voracemente curioso e indagatore di Carola De Scipio non si limita all’aspetto musicale, ma amplia l’indagine alla storia e al costume, dal periodo postbellico, agli anni del boom e della Dolce Vita, ai fermenti politici e sociali degli anni ’70. Voci e memorie di musicisti, giornalisti, amici personali della coppia fondatrice del locale si mescolano a materiali anche rari (provenienti dalle Teche Rai, dall’Istituto Luce, dalla Biblioteca Nazionale di Roma, da archivi privati), che evocano le vicende di un Paese in continua trasformazione, le esperienze esistenziali di quei giovani e meno giovani che fecero dello swing, del blues, del jazz il simbolo incarnato d’una nuova era caratterizzata della frizzante voglia di cambiamento e di sperimentazione.
In questo già ricco quadro si dipana la vicenda biografica di Giuseppe Pignatelli D’Aragona Cortes, principe e batterista, uomo dalla bruciante originalità, e di Maria Giulia Gallarati Scotti, sua compagna di vita, per gli amici Pepito e Picchi.. Una storia dalle drammatiche tinte romanzesche, intessuta di passioni intense e divoranti, tragiche e gioiose, che nel Music Inn e in tutto quel che rappresentò trovarono naturale compimento.
Difficile comunicare la suggestività e l’emozione suscitata da quest’opera, ma una cosa è certa: è assolutamente lodevole il progetto culturale che lo sottende, il recupero della memoria storica e artistica di un’Italia ormai scomparsa, che avremmo tutti il dovere morale di (ri)scoprire e tramandare.
Per l’occasione abbiamo intervistato la regista e montatrice del documentario, Carola De Scipio – già autrice di diversi corti e di un film a fumetti (Moloch), nonché di un notevole libro sul musicista Massimo Urbani – e il musicista Enrico Pieranunzi.
Com’è nata e come si è sviluppata l’idea di questo documentario?
Un giorno prima della pandemia, in un contesto sociale e culturale già abbastanza grigio di per sé, ho ripensato al Music Inn, agli anni ’70, anche quello un periodo difficile, ma pieno di curiosità, di vitalità e di magia. All’epoca del Music Inn avevo 15 anni, ci andavo di nascosto dei miei genitori. Amavo il jazz, lo scoprii dai dischi della collana della Fabbri editore e al Music Inn andavo ad ascoltare quella musica dal vivo. Quel locale è stato per me una grande lezione, non solo musicale, ma di vita, e quella sensazione calda di condivisione non l’ho mai abbandonata.
All’inizio l’idea si è sviluppata lentamente. Ho fatto delle pre-interviste, ho contattato Enrico Pieranunzi, che è stato fondamentale durante tutta la realizzazione: fonte delle emozioni che volevo trasmettere grazie ai suoi racconti personali, sostegno nei momenti difficili, concreto aiuto, con le foto e gli articoli di giornale che mi ha dato, la ricerca di nuovo materiale. Per me solo lui poteva scrivere la colonna sonora di questo lavoro. È stato nei miei confronti di una generosità incondizionata. Poi ho contattato Carla Marcotulli, Adriano Mazzoletti, Antonello Salis e Daniela Morgia. Ho appreso notizie importanti, e ho capito che se volevo parlare del Music Inn, di Pepito e Picchi Pignatelli, dovevo andare a fondo delle origini non solo dei personaggi, ma dell’evoluzione della musica e della storia italiana. Infatti il documentario abbraccia circa 40 anni di storia, dal 1950 al 1993. Mi sono messa alla ricerca di un direttore della fotografia e ho conosciuto Roberto Carotenuto, operatore di grande esperienza, che ha firmato con me il progetto. Abbiamo gironzolato da un’intervista all’altra con grande sintonia, per le riprese mi sono affidata a lui. Il soggetto l’ho scritto in secondo momento, sono partita a braccia, avevo tutto in mente.
Che difficoltà hai incontrato nella sua realizzazione e nella distribuzione?
Tantissime. Il primo anno l’ho perso a cercare una produzione che mi finanziasse ma nessuno mi ha aperto la porta. Ho deciso di continuare da sola, e ho contattato il musicista Alfredo Ponissi, direttore dell’associazione Jazz Mobile col quale avevo già collaborato in altri progetti, che mi ha aperto canali importanti per reperire materiale d’archivio. Ho fatto da me il lavoro di un’intera produzione: segretaria, organizzatrice, archivista, montatrice, etc., un’esperienza faticosissima ma bellissima, non ho mai mollato nemmeno durante la pandemia. Al momento il documentario non ha nessun distributore, magari piacerà a qualcuno. Lo spero.
Come hai lavorato al montaggio?
L’ho montato come vivendo. Avevo già tutto chiaro in testa, mi sono immersa nella musica di Enrico Pieranunzi e il montaggio è andato di pari passo fra musica, dialoghi e immagini. La prima stesura del film durava 5 ore. Ho raccolto tantissimo materiale, ho intervistato 58 persone, è stato come dirigere un’orchestra di 58 elementi in cui ognuno, col suo assolo, ha reso possibile questo documentario. La revisione l’ha fatta un geniale montatore, Massimiliano Paiella. Non conosceva la storia del Music Inn, era emotivamente meno coinvolto, e i suoi suggerimenti sono stati fondamentali.
Cosa ti spinge a lavorare sulla memoria, sul recupero di fonti orali?
La voglia di conoscere. Finché le persone esisteranno e avranno storie da raccontare è giusto che lo facciano loro. La vedo come una forma di rispetto e io ho solo da imparare.
Hai in cantiere qualche nuovo progetto?
Si, ne ho ben tre, ma non ne parlo per scaramanzia. Di sicuro, però, tutto il materiale tagliato da questo progetto sul Music Inn uscirà sotto forma di trailer sui social, per non perdere nulla di tutta questa ricerca. Questo documentario è un atto d’amore, per chi lo ha vissuto, musicisti e non, e mi piacerebbe che arrivasse ai giovani perché è una grande lezione di vita. A Pepito e a Picchi Pignatelli dobbiamo tanto, e parlarne è un po’ come continuare il loro sogno.
Musicista completo, a suo agio nella classica come nel jazz, prolificissimo compositore, Enrico Pieranunzi è da molti considerato il maggiore pianista jazz italiano in attività, e in questo progetto di recupero della memoria del Music Inn ha avuto una parte rilevante.
Per quanto molto giovane, tu eri il pianista di riferimento del Music Inn: quanto è stata importante per la tua formazione artistica e umana l’esperienza maturata in quel locale?
È stata fondamentale da tutti i punti di vista. Musicalmente i rapporti con i grandi musicisti con cui mi trovai a suonare furono di intensissima osmosi: loro suonavano sé stessi da immensi jazzmen quali erano e io mi immergevo nel loro flusso sonoro “rubando” i loro segreti a mani basse e crescendo ogni volta che suonavamo insieme. La totale fiducia che mi davano mi consentiva di assimilare il loro linguaggio sera dopo sera, e mi permise di dar vita a un bagaglio di conoscenza e di feeling che mi porto dietro ancora oggi. Suonare con giganti come Kenny Clarke, Johnny Griffin, Art Farmer, Sal Nistico, Kai Winding significò entrare nel corpo e nell’anima del jazz del più alto livello e poter condividere e comprendere il suo codice emotivo più misterioso ed intimo. Con Griffin, Nistico e Farmer in particolare nacque poi una grande amicizia personale che durò nel tempo e che porto ancora nel cuore. Erano non solo meravigliosi musicisti ma esseri umani di vedute larghe e di acuta sensibilità che, pur immersi in una realtà completamente diversa da quella in cui erano cresciuti e maturati come artisti, erano capaci di interagire con l’ambiente romano e con i giovani musicisti con cui suonavano, come me e i mei compagni d’avventura, con curiosità, comprensione, totale disponibilità mentale.
Esistono ancora oggi in Italia realtà simili all’epoca dorata del Music Inn?
Temo proprio di no. E temo anche che non potrebbero esistere, se non con enorme fatica. Il mondo da allora (parliamo comunque di mezzo secolo) è cambiato, il contesto culturale e socio-politico è imparagonabile a quello dell’epoca, la percezione della musica a causa della tecnologia è del tutto differente – potrei continuare a lungo. Quella proposta di musica d’arte così diretta, apparentemente semplice ma di travolgente intensità, creò un pubblico e le trasformazioni degli scorsi decenni hanno cambiato appunto il pubblico creando al jazz (ma anche alla classica) il problema non semplice di ritrovarlo.
Hai conosciuto bene il fondatore del Music Inn, Pepito Pignatelli, un personaggio non poco originale: che ricordo hai di lui?
Pepito era un uomo di grande sensibilità e intelligenza la cui vita tormentata ebbe al centro una passione per il jazz che non aveva uguali. Gli devo molto. Quando lo conobbi non sapevo nulla del suo alto lignaggio. D’altra parte, lui era il primo che non se ne curava e che amava considerarsi prima di tutto musicista e musicofilo. Mi sentì suonare quando avevo poco più di vent’anni e mi diede delle opportunità straordinarie che si sarebbero rivelate decisive per la mia vita di musicista. Mi voleva bene. Quello che lui e Picchi, la sua consorte, riuscirono a fare a Roma fu di importanza storica, e non solo per la Capitale. C’era dietro una altissima visione del jazz come arte e il loro Music Inn fece di Roma in quegli anni ’70 una delle capitali europee di questa musica. Il trittico Pepito-Music Inn-Roma divenne un brand noto e apprezzato in tutto il continente. Qualcosa che non era mai accaduto prima e che, purtroppo, non è stato mai più replicato dopo.
Quanto è rilevante, culturalmente e storicamente, un progetto di recupero della memoria artistica portato avanti da un documentario come questo?
È importantissimo. Anche se il contesto va in direzione opposta – o forse proprio per questo – bisogna guardarsi indietro, recuperare, rivalutare, ritrovare, imparare a conoscere ed amare cose perdute, nascoste nelle pieghe del tempo passato. C’è tutto questo nell’idea geniale di Carola De Scipio di realizzare il documentario Music Inn – Il Jazz arriva a Roma. Sembrerò certo fazioso nel dirlo (visto il mio coinvolgimento nella eccezionale vicenda del club e visto che Carola ha deciso di usare la mia musica per la colonna sonora della sua opera), ma credo che siamo di fronte ad una delle operazioni di più alto significato e profilo artistico-culturale concepite ed attuate a Roma da molto tempo a questa parte.