Il figlio della Lupa: romanzo a due voci sull'occupazione fascista in una cittadina slovena
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Il figlio della Lupa: romanzo a due voci sull'occupazione fascista in una cittadina slovena

Il figlio della lupa (Bottega Errante Edizioni, pagg 336, euro 18) dello sloveno Anton Špacapan Vončina e del friulano Francesco Tomada, è uno splendido romanzo storico che mette al centro della narrazione un paesino sloveno all’indomani dell’occupazione

Il figlio della Lupa: romanzo a due voci sull'occupazione fascista in una cittadina slovena
Il figlio della lupa
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5 Aprile 2022 - 14.18


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di Rock Reynolds

Parrebbe che, da che mondo è mondo, i tratti distintivi dei tiranni e gli strumenti da essi utilizzati per ottenere il consenso, da una parte, e soffocare la dissidenza, dall’altra, siano immancabilmente gli stessi. Sono stati scritti innumerevoli trattati, saggi, articoli, romanzi al riguardo. La conclusione è quanto mai sconfortante: il corredo di un regime è facilmente identificabile fin da quando muove i primi passi, senza che ciò basti automaticamente a impedirne la salita al potere.

Una delle vie maestre percorse da chi non lascia spazio alla diversità è la soppressione di tutto ciò che le dà spunto: la cancellazione della cultura, in una parola. La lingua di un popolo, in quanto espressione di tale cultura, è quasi sempre la prima a pagarne lo scotto. Mi vengono in mente, per non allontanarci troppo dalle nostre latitudini e dai nostri tempi, i tentativi solo in parte riusciti di impedire l’uso dell’euskadi alla popolazione dei Paesi Baschi o del gaelico a quella dell’Irlanda. La stessa cosa tentò di fare il fascismo nei Balcani e, in particolare, nell’attuale Slovenia, terra di confine.

Il figlio della lupa (Bottega Errante Edizioni, pagg 336, euro 18) dello sloveno Anton Špacapan Vončina e del friulano Francesco Tomada, è uno splendido romanzo storico che mette al centro della narrazione un paesino sloveno all’indomani dell’occupazione italiana, nel 1931, la cui quiete viene scossa dalla decisione di inviare un ufficiale italiano con il compito di rappresentare l’autorità fascista in quella terra riottosa. L’ufficiale di nuova nomina decide di ergersi a educatore e di scalzare la storica e rispettata maestra dal suo ruolo, imponendo lo studio della lingua italiana al posto della volgata locale. Gli orrori veri della guerra ancora sono da venire, ma la pretesa di cancellare l’identità e di calpestare la libertà della gente del posto non avrà vita facile, malgrado l’ignavia del parroco. A intorbidire le acque, rendendo via via più intrigante lo sviluppo narrativo, sarà una leggenda popolare dai contorni misteriosi.

Chissà com’è stato scrivere un romanzo a quattro mani. Lo chiediamo direttamente agli autori.

FT Per me già l’idea di scrivere un romanzo era assurda. Da anni mi interesso di poesia, che però ha un approccio completamente differente; la prosa richiede più rigore, dedizione, insomma necessita di una struttura mentale che io non possiedo, per cui quando Anton mi chiese di collaborare con lui inizialmente dissi di no. Solo in seguito – per fortuna – è riuscito a convincermi. Lavorare insieme è stata un’esperienza, per me, soprattutto di enorme fiducia umana e personale. Abbiamo discusso e parlato a lungo del romanzo, ma non abbiamo quasi mai scritto insieme. Piuttosto ciascuno di noi ha aggiunto dei contributi e lavorato su quelli dell’altro, cambiando, tagliando, modificando luoghi e atmosfere, al punto tale che in molti casi nemmeno io so più chi ha scritto cosa. Ci siamo guidati a vicenda, a volte criticandoci in modo spietato, in una sorta di editing continuo. Per questo dicevo che c’è bisogno di una grande affiatamento dal punto di vista non solo letterario, ma soprattutto umano: il rischio di ferirsi è dietro l’angolo. Provo una forte riconoscenza verso Anton per ciò che abbiamo costruito e per la perseveranza che ha avuto con me.

ASV Inizialmente si doveva capire come. Francesco vive, insegna, scrive col sole alto, io no. Francesco usa il computer, mentre io scrivo su fogli tovaglia, color terra stanca, in stampatello. Di notte. Francesco corregge, poi scrive, aggiunge, crea, stupisce ed io leggo, correggo, rimando. Poi ci si ritrova, si discute, si vive la storia narrata. A parer mio, è stato così: distacco, collusione, comunanza, creazione, crepitio. A oggi, tranne in alcuni passi, io non so chi ha scritto cosa e questo mi sembra un dato di splendida sinergia, quasi inquietante. Scriverlo insieme è stato imprescindibile. Senza i lacci la scarpa non servirebbe, e viceversa: i lacci cosa farebbero su un piede nudo, oltre che fermare il sangue?

Che ricordo serbate del duro conflitto nella ex-Jugoslavia?

FT Devo ammettere, purtroppo, che di quel conflitto ricordo poco. Dico purtroppo perché non avevo mai frequentato i Balcani, non ci avevo i legami e gli interessi che invece ho oggi e, probabilmente, ero più infantile ed egoista di adesso. Mi ci sono avvicinato dopo, in colpevole ritardo, con il senso di colpa di chi sa di avere vissuto tutto dalla parte fortunata del televisore. Il mio atteggiamento nei confronti di quella guerra non è una cosa di cui vado orgoglioso.

ASV Parlo per me: era estate, avevo finito le medie e attendevo di andare a Gorizia, all’Istituto Statale D’Arte Max Fabiani, ma vennero i carri armati a Casa Rossa, sul confine. Era estate e un carro armato esplose. Per dieci giorni ci fu la guerra. Dieci giorni. Ne basta uno, per capire che l’uomo è una creatura sbagliata. Tre ragazzi serbi morirono combusti in uno dei carri armati. Ho perso amici, ideali ed identità. La Jugoslavia era forse un esperimento, ma almeno non si usavano termini come tolleranza. C’erano convivenza, Sarajevo, tre religioni, Jovan  Divjak, morto da poco, e Matvejević, Izet Sarajlić…

E quel ricordo ha avuto un impatto sulla decisione di scrivere questo vostro libro?

FT Proprio per quello che ho spiegato prima, in buona parte è così: sentivo il bisogno di ritrovarmi in qualcosa che significasse anche prendere posizione, che potesse avere un senso etico e sociale. Con la scrittura, nella poesia in particolare, ci sono riuscito molto raramente, perché mi sembra di diventare didattico e quindi controproducente. Così quando mi sono imbattuto nella storia de Il figlio della lupa, l’ho sentita immediatamente mia, veniva incontro a una tensione che sentivo ma non riuscivo a sputare fuori: questi personaggi sono stati capaci di farlo al posto mio.

ASV No. Almeno non consciamente. Ma, se scriveremo un altro libro, forse sì Sta già pulsando. Vuole partorirsi.

I vostri natali frontalieri rendono il vostro senso di appartenenza un po’ meno definito?

FT In realtà i miei natali non sono così “frontalieri”, nel senso che io vengo dal medio Friuli: geograficamente non è una grande distanza, ma culturalmente sì, in particolare negli anni in cui ero giovane. Quando mi sono trasferito a Gorizia, di Gorizia sapevo poco o nulla, figurarsi della Jugoslavia. Quindi sono più italiano di quanto sembri, però voglio specificare cosa intendo. Non apprezzo l’idea di patria. Se domani l’Italia venisse annessa da un altro stato e non esistesse più non mi interesserebbe molto; anzi penso che la nostra casa sia almeno l’Europa, quindi meno patrie ci sono e meglio è. Dal punto di vista culturale, invece, appartengo all’Italia e ne sono – nel mio piccolissimo – contento: la mia identità è ricchezza, lingua, letteratura, arte, storia, anche religione, nel senso che non sono cattolico, ma vengo da una cultura cattolica che mi ha formato ed è parte di me. Il concetto di patria divide, quello di identità culturale permette il confronto e la conoscenza. Anche fra me e Anton è stato così, e mi piace pensare che Il figlio della lupa sia un libro sloveno scritto in italiano, un cortocircuito esemplare.

ASV Deploro le storielle del confine anche quando ci fu la propustnica/lasciapassare. Un bel termine, vero? Troppo giovane per esser austroungarico, ma qui, confine o no, chi voleva svalicava per cultura, amore o jeans. Si poteva fare.

Perché l’imposizione della lingua delle forze occupanti è il primo passo verso il soffocamento dell’identità culturale di un popolo?

FT Perché la lingua è identità e comunicazione e chi opprime non può confrontarsi né mettersi in discussione.

ASV Domanda stramba e pertinente allo stesso tempo. Potrei rispondere così: la natura conosce e percorre violenza; il cuculo cosa fa? Annientare una lingua è il primo passo per insediarsi i n un territorio. Annichilire cultura e tradizioni: la prima vittima è la lingua materna. Stupri, rapimenti, donne, madri. La guerra è il riproporre la distruzione della torre di Babele, sempre. È le fondamenta su cui erigere nuova prepotenza.

Da cosa avete preso spunto?

FT Qui deve rispondere Anton: come dicevo, io mi sono imbattuto nella storia, il nucleo centrale era già formato.

ASV Odiavo mio padre, morto più di dieci anni a 91 anni. Aveva mantenuto, nonostante tutto, una certa sensibilità circa la sua fanciullezza e qualcosa mi raccontò, ma ciò che spifferò non poteva essere tutto. Per capire, dovetti incontrare Pavel Medvešček, colui che raccolse le leggende degli Staro Verci (coloro che credevano ancora alle vecchie religioni) poco stimato in vita e ora osannato. Lui mi sussurrò qualcosa circa la leggenda della Bianca dei boschi. Non molto, ma a sufficienza. Qualcosa si trova nel libro di Anton von Mailly, Leggende del Friuli e delle Alpi Giulie.

Ogni tanto si sente parlare di foibe. Cosa direste al lettore medio che le conosce solo per ciò che, in occasione del giorno del ricordo, sente dire o legge?

FT Si tratta di un argomento molto delicato, anche perché in questa terra le persone e le famiglie toccate direttamente dalle foibe e dall’esodo giuliano dalmata sono ancora ben presenti. Allora cerco di misurare bene le parole, dicendo prima di tutto che bisogna distinguere nettamente il piano umano da quello storico. Dal punto di vista umano, parliamo di una tragedia enorme e le vittime non devono avere per forza una nazionalità, ma prima di tutto ricevere pietà. Che ci siano stati atti di giustizia sommaria, cioè di in-giustizia, di violenza assurda e di vendetta brutale è innegabile, come è innegabile la catastrofe di centinaia di migliaia di persone costrette a lasciare tutto ciò che avevano per ritrovarsi mal sopportati in quello che avrebbe dovuto essere il loro paese. Davanti a tutto questo credo che ci sia poco da discutere, i revisionismi sono devastanti da qualsiasi direzione provengano. Poi c’è un punto di vista storico e in questo campo è necessario prendere distanza, guardare da un po’ più lontano. Così come non si possono negare le efferatezze e la disumanità di quei giorni, bisogna chiedersi da dove prendano origine, guardare al Ventennio, chiedersi chi ha costruito un sistema basato sull’oppressione e sulla violenza, chi ha generato un meccanismo assurdo di azione e reazione e la risposta mi sembra evidente. Quello che io non posso accettare non è il ricordo di quelle vittime e di tutte le vittime, che meritano – lo ripeto – tutta la compassione possibile anche a distanza di decenni: non posso accettare che quelle vittime vengano elevate a bandiera, dimenticando invece le responsabilità e le colpe del Fascismo. Mi sembra il modo peggiore e soprattutto il più irrispettoso per commemorarle, facendone arbitrariamente un simbolo non di dolore, ma di nazionalità. Allora sì che quelle morti non sono servite a nulla. Le forze che oggi in Italia spingono in questa direzione sono affini alle stesse ideologie che ebbero come conseguenza l’esplosione di quella violenza; rappresentano il volto ripulito e apparentemente presentabile, quindi ancora più pericoloso, dei fascismi dello scorso millennio.

ASV Voragini carsiche: dove seppellire i morti? Facile, dove alberga l’oblio, un buco profondo già durante la prima guerra mondiale: contadini, carcasse, vecchi mobili. Purtroppo, in Italia la lente d’ingrandimento s’è gettata su quella tenebra carsica, glissando quasi del tutto sul ventennio fascista, un calderone che covò rancori e poi eruppe, come è ovvio. Almeno il leone alato della repubblica veneta chiudeva il libro quando andava in guerra, noi nel nostro piccolo l’abbiamo aperto. Peccato che non si legga mai il rapporto della commissione mista italo-slovena. È un discorso lungo. Forse, nelle scuole bisognerebbe fare leggere Materada di Fulvio Tomizza o Elsa Bragato, Nelida Milani o Guido Miglia. Le foibe esistono, sono l’acrimonia di vendette plurime, ma non saranno mai l’alibi per una italica Norimberga mancata.

È noto quante penne si siano spese in vomito d’inchiostro su questo argomento. Ambaradan ormai è nel vocabolario: da noi si usa quasi come casino, disordine, ma è ben altro.

Ci sono elementi della guerra tra Russia e Ucraina che vi ricordano il conflitto nei Balcani?

FT Mi sembra un parallelismo difficile, soprattutto perché nei Balcani ci furono molte guerre e non una sola, dalla Slovenia alla Croazia alla Bosnia fino al Kosovo, e ognuna ebbe caratteristiche piuttosto differenti dalle altre. Lo stesso interventismo in Kosovo fu quanto meno facilitato dall’immobilismo del 1992-1995 in Bosnia, mentre in Ucraina, per quel che posso capire, le radici sono diverse. Fatico anche a distinguere fra ciò che è propaganda – perché noi guardiamo con aria di superiorità alla Russia, ma anche la nostra informazione è in buona parte propaganda – da ciò che non lo è, e mi pare che alla base di questa guerra siano presenti anche degli interessi da parte del blocco occidentale che invece per la porzione meridionale dei Balcani almeno inizialmente mancavano. Penso, ad esempio, al disinteresse nei confronti della tragedia bosniaca. Così come è evidente che, fino a quando presteremo il fianco agli incitamenti di chi vuole dividere gli stati con una linea diritta, come i confini africani, anche lì dove sono mescolate diverse culture, gli interessi geopolitici troveranno sempre terreno fertile nel nazionalismo bieco e ottuso. In questo senso la similitudine è sostenibile e, purtroppo, ricorrente.

ASV Paolo Rumiz, che amavo, ora è, a parer mio, solo un diapason di e per se stesso. Ha scritto per “Robinson”, allegato di “Repubblica”, una lunga elegia sulle donne. Perché? La “Republika Srpska” sta annusando la ricetta di Putin. E la NATO dove manda la propria piattaforma militare? Quanti ospiteranno le famiglie, monche di padri, nelle proprie case? Perché compaiono graffiti nefasti anche nella mia città, Nova Gorica, fottuta capitale della cultura 2025: “Viva Putin – morte all’Ucraina”. Graffito immediatamente cancellato dal sottoscritto. Quanto ci siamo evoluti dalle cose narrate nel romanzo d’un inverno lontano, quello del 1931? Mi tappo le orecchie per non sentire.

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