La retorica dei borghi, specie di quelli nelle aree interne
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La retorica dei borghi, specie di quelli nelle aree interne

Alla ricerca di luoghi nei quali perdurano "valori genuini " e "pratiche bucoliche". Come la politica sfrutta questa tendenza per avere fondi su progetti di riqualificazione. Arrivano anche i soldi del PNRR.

La retorica dei borghi, specie di quelli nelle aree interne
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16 Marzo 2022 - 19.05 Culture


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di Agostino Forgione

Quella delle aree interne è una tematica che negli ultimi due decenni si è diffusa a macchia d’olio. Tecnici, poeti e persino artisti non si fanno sfuggire neppure un’occasione per discuterne e teorizzarne, tant’è che alcuni di loro siano ormai assurti a santi patroni dell’entroterra italiano. La retorica dominante è quella di una bellezza dei piccoli borghi ignota ai più, di luoghi in cui perdurano ancora valori genuini e bucolici da esportare e far conoscere. È infatti principalmente sulla tutela culturale e paesaggistica, e sulla loro valorizzazione, che si sono basati programmi elettorali, progetti finanziati con fior fiore di finanziamenti. E ancora: fiere, sagre, festival e chi più ne ha più ne metta.

Un “narcisismo” che ha destinato interi bilanci comunali quasi esclusivamente alla riqualificazione dei centri storici, ristrutturando palazzi signorili poi lasciati a sé stessi e costellando di musei e info point il territorio dei comuni più piccoli. Sono infatti riqualificare e rigenerare i due termini che appaiono più spesso anche nel nuovo progetto del PNRR, da più di un miliardo di euro, dedicato proprio ai piccoli borghi.
Una riqualificazione che però, a leggere le direttive del bando, sembra che anche in questo caso abbia come obiettivo primario quello di tutelare, riportare a splendore e salvaguardare bellezze e conoscenze locali. Più o meno implicitamente il messaggio che sembra passare è sempre lo stesso, ovvero quello di borghi da pensare per lo più in chiave e in funzione di una sorta di Slow Tourism. Come le città storiche ci hanno tuttavia insegnato, in questi casi purtroppo a rimetterci è chi in quei luoghi ci viva abitualmente.

Anni di una malsana e deviata “caccia al turista” hanno portato le amministrazioni comunali a mettere in secondo piano le esigenze dei cittadini e quanto andasse oltre una fattispecie di “culto del locale” e del paesano, in opposizione ai modelli urbani, da custodire gelosamente. Il risultato è stato quello di aver dato forma a un circolo culturale autoreferenziale che, così com’è, è destinato a riproporsi immutato nel tempo proprio in ragione degli assunti su cui si basa. Borghi che, in breve, vengono concepiti e destinati esclusivamente a polo turistico in ragione della loro bellezza e del perdurare di una quotidianità figlia di altri tempi, antitetica ai ritmi della vita urbana.

Si tratta di una retorica che sovente elogia i giovani che decidono di rimanere nella loro terra seguendo e tramandando le tradizioni locali, ma che quindi, specularmente, sembra biasimare chi vada via. L’abbandono delle aree interne è infatti l’altro aspetto che maggiormente le contraddistingue e rappresenta la più grande sfida contro cui hanno da lottare. Una sfida che purtroppo spesso viene combattuta con uno smaccato e nauseabondo neoromanticismo, che vede i paladini dell’entroterra di cui sopra contrastare l’esodo verso le città decantando albe idilliache, paesaggi incontaminati e radici con un territorio su cui le generazioni passate hanno sparso sangue e sudore. Un racconto fiabesco che, alle volte più alle volte meno goffamente, sembra sforzarsi di nascondere la cronica assenza di tutte quelle opportunità offerte dai centri urbani e una diffusa inerzia sociale, tipica dei piccoli paesi, che porta a un inevitabile ristagno culturale.

Una narrazione che, ancora, ha sì contribuito a riqualificare architettonicamente interi borghi e centri storici, ma che per una qualche ragione si ostina a non vedere che sia arrivato il momento di affrontare le problematiche delle aree interne concentrandosi sul perché chi ci viva possa scegliere di viverci o di ritornare. Ciò non significa che non esista un patrimonio che vada tutelato, bensì che bisogna affiancare alla tutela una dedizione al cittadino e alle sue esigenze in un’ottica di reale benessere pubblico, superando quindi i modelli provincialistici ancora diffusi. È solo così che sarà veramente possibile salvare le aree interne dalla loro deriva, ed è solo così che si potrà arrivare alla rigenerazione culturale di cui tanto si sta parlando.

In tale direzione è degno di nota il manifesto redatto dall’Officina Giovani Aree Interne, un’iniziativa a supporto del Comitato Tecnico Aree Interne (CTAI) nell’ambito del progetto Officine Coesione, relativo al PON Governance e Capacità Istituzionale 2014-2020. Il documento, redatto da più di 400 ragazzi ed esperti che collaborano al progetto, rappresenta un chiaro monito che sia arrivato il momento di ripensare la questione delle aree interne diversamente. È consultabile qui.

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