Il "senso" di Hitler nel non senso dei social
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Il "senso" di Hitler nel non senso dei social

Nel giorno della memoria arriva nelle sale cinematografiche un' indagine sull'influenza che Hitler esercita ancora oggi nella società. Diretto da Petra Epperlein e Michael Tucker

Il "senso" di Hitler nel non senso dei social
Il senso di Hitler
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26 Gennaio 2022 - 16.25


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di Alessia de Antoniis


Esce nelle sale italiane il 27 gennaio, Giorno della Memoria, “Il senso di Hitler”, il film diretto da Petra Epperlein e Michael Tucker.
Un’indagine sull’influenza che Adolf Hitler continua ad esercitare ancora oggi sulla società: da immagini dell’epoca nazista e documenti storici ad un’analisi del fenomeno anche attraverso i media e i social network di oggi, come Tik Tok e Twitch.

Un viaggio a bordo di una Mercedes (Hitler aveva la famosa la Mercedes Grosser 770 W150), guardando la strada attraverso lo stemma sul cofano della macchina, come attraverso il mirino di un’arma. Arrivando anche in luoghi dimenticati come Sobibòr, il campo di morte dove i deportati arrivavano solo per essere uccisi e che Hitler fece smantellare e occultare nel 1943. Himler disse: questa è la pagina da non scrivere mai.

A partire dal libro del 1978 mai pubblicato in Italia “The Meaning of Hitler” di Sebastian Haffner (pseudonimo di Raimund Pretzel), “Il senso di Hitler” cerca di rispondere alla domanda: perché ancora oggi il nazismo è così affascinante?

Il film è impreziosito da interviste e testimonianze tra cui quelle della scrittrice Deborah Lipstadt, dello storico britannico Sir Richard J. Evans, dell’autore di romanzi sull’Olocausto Martin Amis, dello storico israeliano Saul Friedlander, dello storico e studioso dell’Olocausto Yehuda Bauer e degli attivisti e “cacciatori nazisti” Beate e Serge Klarsfeld.

Il lavoro di Epperlein e Tucker parte dalla similitudine tra Hitler e Trump. Comune denominatore è il loro uso sistematico e strumentale della menzogna e il tentativo di radicalizzazione del vittimismo.

Ma il biopic inizia anche da un presupposto storico: creare il caos per poi controllarlo. Sostituire il caos con lo Stato. In realtà, con un capo di Stato, con un Führer.

L’obiettivo del biopic è anche il suo limite: Epperlein stesso ammette che parlare di questo fenomeno per criticarlo, può aumentarne la diffusione. Parlare di Hitler è storia o propaganda? E perché? Confondere la storia e la propaganda, significa creare quella mistificazione che origina il fascino di un dittatore che continua a vivere dopo la sua morte. Ma perché accade solo con alcuni dittatori e non con tutti?

Friedlander dice: “non siamo attratti da Hitler ma dal nazismo”.

Interessante è la descrizione dell’affascinazione che Hollywood ha da sempre per Hitler: dai film che parlano di lui, a scene inserite in pellicole come Indiana Jones e Guerre stellari, alcune tratte da “Il trionfo della volontà” del 1935, diretto da Leni Riefenstahl, film di propaganda nazista. Come Epperlein e Tucker notano, Hollywood non rappresenta mai il momento della morte di Hitler: la cinepresa si ferma sempre un attimo prima. Onore non concesso alle altre vittime. Solo che non analizzano il fenomeno e lo spettatore resta in attesa di un approfondimento che non arriva.
Passiamo poi attraverso l’antisemitismo di Hitler, oscillando tra affermazioni come “capire l’antisemitismo di Hitler vuol dire capire razionalmente un sentimento irrazionale”, a David Irving, storico negazionista, che, dimentico di avere il microfono aperto, dichiara che gli ebrei sono morti nei campi perché non erano abituati al lavoro manuale, ma erano capaci solo di staccare ricevute.

Interessante la scelta di dare voce a personalità diverse tra loro, dai “cacciatori di nazisti” Beate e Serge Klarsfeld al negazionista David Irving che guida neo nazisti in visita ai luoghi dell’olocausto.
Uno degli aspetti evidenziati da Epperlein e Tucker è il consenso delle masse. Soprattutto negli anni Trenta, la Germania viveva in una bolla, anestetizzata dalla propaganda nazista accompagnata dalla crescita economica, dopo la pesante sconfitta della Prima Guerra Mondiale, e dall’appoggio delle élite scientifica e culturale. “Il Terzo Reich può avere dei difetti, ma ci ha dato lavoro e pane”: questa una tesi diffusa all’epoca tra la popolazione tedesca.

“Il senso di Hitler”, seguendo i capitoli del libro di Haffner, collaziona varie teorie e documentazioni su arte, politica, media, psichiatria, comunicazione. Si presenta quindi come un lavoro di ampio respiro ma che, per l’ampiezza degli argomenti, non riesce ad approfondire nessuna tematica.

Se cerchiamo dei punti di contatto tra presente e passato, troviamo la negazione come non assunzione di responsabilità, fenomeno oggi diffusissimo, e la sostituzione dei social alla propaganda di massa.

“Il senso di Hitler” non offre soluzioni, ammettendo che è una storia difficile da elaborare perché è ancora troppo vivo il sentimento che a questa lega i sopravvissuti e i loro familiari. Per contro, sostiene anche che ottant’anni di pace e una sorta di amnesia storica, hanno visto crescere una nuova fascia di popolazione, sempre più ampia, che dà la pace per scontata non avendo mai conosciuto la guerra. Persone cresciute in regimi liberali, o pseudo tali, che non capiscono come si possa credere nella distruzione di altre persone come mezzo per salvare l’umanità.

Una domanda sottesa che ci accompagna dall’inizio alla fine è quanto la tolleranza sia pericolosa davanti all’intolleranza degli estremisti, ancorché siano solo una minoranza.
La normalizzazione di Hitler, l’avvento di un’informazione senza apparenti filtri, la libertà di parola nei Paesi liberali data anche a chi inneggia ai nazionalismi, alle dittature, al negazionismo sia in campo storico che scientifico, sta facendo crescere uno spettro che può riconoscere solo chi quel fantasma lo ha già visto prendere vita. Ma quei superstiti sono sempre meno e la loro voce sempre più lontana.

Il senso di Hitler ha un pregio: non trasmette emozioni. Perché è così che andrebbe letta la storia.
L’anima del lavoro di Epperlein e Tucker è forse nelle parole di un uomo dagli occhi ancora giovani, di novantaquattro anni: lo storico e studioso dell’Olocausto Yehuda Bauer. “Gli esseri umani sono animali che uccidono altri animali della stessa specie. Ma siamo animali da branco e sviluppiamo anche simpatia e amore, e un branco non può esistere senza questo. Combattere l’hitlerismo è un tentativo di rafforzare una reazione umana contro un’altra reazione umana. Il problema non è che i nazisti erano disumani, ma che erano umani. Questo è il problema fondamentale che abbiamo. E lo abbiamo con noi stessi. Le idee naziste sono state messe in pratica da persone normali”.

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