Fate i bonobo non la guerra!
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Fate i bonobo non la guerra!

Intorno alla lettura del libro di Frans de Waal 'Il bonobo e l’ateo'. Cosa impariamo dalla scimmia più simile all'uomo, il bonobo. [Pier Luigi Fagan]

Fate i bonobo non la guerra!
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4 Maggio 2015 - 18.29


ATF

di Pier Luigi Fagan.

Intorno alla lettura di Frans de Waal, Il bonobo e l’ateo, Cortina editore, Milano, 2013.

IL-BONOBO-E-LATEO-300Nella
prima modernità, la moralità è stata interpretata come un portato
dell’evoluzione culturale, sovraimposta ad una natura, di per sé, non
morale. 

L’essere non è morale e doveva esser corretto dal dover essere. 

Questa impostazione (anglosassone) è ben esemplificata dalla dicotomia
dottor Jekyll ed il suo alter, il signor. Hyde. Jekyll arriva a
sintetizzare una droga che cancellerà la sovraimposizione culturale,
liberando così Hyde: “La droga infatti, di per se stessa, non agiva
in un senso piuttosto che nell’altro, non era divina né diabolica di per
sé; scuoté le porte che incarceravano le mie inclinazioni..
.”.
 

Così la pensava in fondo anche Freud per come ci ha espresso il suo
parere nel “Disagio della civiltà” e così la si pensava ancora prima
stante due impostazioni: quella del progresso (dallo stato di natura
allo stato di civiltà, ad esempio Hobbes e Locke), quella del regresso
(dallo stato di innocenza a quello di corruzione, ad esempio Rousseau).  

 Questa linea presuppone un salto o una gabbia, il salto dalla nostra
preistoria alla nostra attuale storia o una gabbia di regole morali con
la quale tentiamo di carcerare l’indomito selvaggio animale che è in
noi.

invasioni_barbariche_fig_vol1_008790_001Paleoantropologia, biologia molecolare e
psicologia comportamentale, sono state a lungo dominate da questa
impostazione, una impostazione per lo più anglosassone così come lo è
stata anche la comunità scientifica dominante queste discipline. 

Come
più volte da noi sostenuto (qui,
ad esempio), questa storia è per altro parzialmente “vera” proprio per
gli anglosassoni stessi, i quali, in ragione della loro posizione di
élite etnica dominante, l’hanno fatta coincidere con il concetto di uomo
(occidentale) tout court. 

La
“verità” di questa impostazione, va riferita a quel lungo passaggio che
portò clan tribali seminomadi del Nord Europa, poi definiti “barbari”
dai romani, a diventare gli inglesi e il meno lungo passaggio che portò
questi a diventare da una rissosa composizione di clan feudali in
perenne lotta intestina ( a questo si riferiva il “tutti contro tutti”
di Hobbes che è stato -anche- il primo antropologo degli anglosassoni),
un popolo che prima si affermò in Europa (dalla fine del XVII secolo) e
poi colonizzò l’America del Nord che, alla fine, si affermerà sul mondo
sostituendo i padri fondatori. Ma tale “verità” va intesa in senso
psicologico  non in senso biologico. Ossia, stante per quei popoli lo
shock del passaggio dallo stato di natura a quello di civiltà, si può
comprendere che si sia voluto schematizzare una narrazione che però tale
rimane. 

Ci sono senz’altro differenze tra pre-istoria e storia, si
tratta solo di capire se tali differenze siano di grado o di natura.

Charles Darwin pensava fossero di grado
mentre lo sviluppo della seconda metà del XX° secolo delle scienze
dell’umano prima citate, l’hanno pensata come differenza di natura, da
cui l’idea che già troviamo in Stevenson di “due nature”: “Sia sul
piano scientifico che su quello morale, venni dunque gradualmente
avvicinandomi a quella verità, la cui parziale scoperta m’ha poi
condotto a un così tremendo naufragio: l’uomo non è veracemente uno, ma
veracemente due
.” [1].

A partire dalla fine secolo, si è però
venuta a formare una torsione interpretativa  interna proprio al canone
anglosassone, non solo quello scientifico, in particolare a partire
dalla cultura britannica. La natura umana fondamentale, narrata come
egoista ed aggressiva, ha cominciato ad apparire anche altruista e
cooperante. Credo ciò si sia manifestato in seguito alla crisi
britannica degli anni ’70-’80, una crisi di passaggio poco evidenziata
dalla storiografia (del resto è evento relativamente recente). Questa
crisi aveva forse un sottostante psico-culturale più importante del
ritenuto. 

Si trattò forse del cambiamento di stato e di relativa
convinzione sul ruolo dei britannici nel mondo, non più centrale, non
più al vertice. Si è trattato, forse, della definitiva acquisizione del
senso di fine della storia di lunga durata che si estese da Elisabetta
alla Thatcher, cioè dai prodromi del nuovo sistema di stare la mondo
basato sulla produzione e scambio che chiamiamo capitalismo al
definitivo dissolvimento dell’Impero. 

Liberati dal ruolo di potere
assoluto sempre in vigile e guardinga postura affermativa, i britannici
hanno scoperto altri lati dell’umano. Questa nuova posizione, posizione
che non sostituisce ma affianca la precedente, fa da sponda ad una
analoga scaturita in Nord America.  La maggior affluenza di studiose
(psicologhe, antropologhe, sociologhe [2]) e di studiosi e scienziati originari di altre culture, ha senz’altro contribuito al crearsi di questa speciazione culturale [3].

= 0 =

51mMY-vjCWL._SY344_BO1,204,203,200_Frans
de Waal non è britannico ma olandese e, tra l’altro, del Sud ovvero di
quella parte di Olanda che rimase per più tempo sotto il dominio
spagnolo, cioè cattolico. De Waal è un famoso etologo e primatologo
nonché eccellente divulgatore. Il suo posizionamento culturale, è
principalmente legato ad una interpretazione minoritaria del canone
della primatologia. 

Il canone è centrato esclusivamente sull’ipotesi che
l’uomo e gli scimpanzé abbiano avuto un antenato comune che li rende
parenti al più stretto grado e su una versione di questa ipotesi che si è
sforzata di leggere negli scimpanzé, quei caratteri più “animali” di
egoismo ed  aggressività che costituirebbero quel “fondo naturale” che è
comune alla natura umana. In accordo alla visione “due nature”, gli
scimpanzé sarebbero come saremmo noi senza la sovraimposizione
culturale. 

Tale fondo, viene poi ritenuto il riflesso di un dettato
genetico imposto dall’evoluzione in cui si cercano ossessivamente le
corrispondenze che dovrebbero portare dal genotipo al fenotipo.

03-bonobo-aka-pygmy-chimpanzee-670L’interpretazione di de Waal che comincia
ad essere parte di un più vasto consenso pluridisciplinare, parte non
dagli scimpanzé ma dai bonobo. 

I bonobo sono delle scimmie antropomorfe
che differiscono per meno dell’1% del DNA dagli scimpanzé e che hanno
con questi, caratteri comuni che entrambi non hanno con gli umani e con
gli umani, caratteri comuni che entrambi non hanno con gli scimpanzé. 

La
faccenda filogenetica quindi, i gradi
di parentela tra i tre, sono ancora sotto indagine.  La cosa rilevante è
che, di primo acchito, sembra che tanto gli scimpanzé siano di Marte,
quanto i bonobo di Venere. 

Uniti in società matriarcali, i bonobo
sembrano senz’altro dei pacifisti ma soprattutto, pare passino la
propria vita a scambiarsi favori sessuali di ogni specie, in ogni
momento, in ogni posizione, senza grandi differenze di genere o di
anagrafe. L’antropomorfismo scientifico, ha proiettato sulle due
famiglie, la dicotomia destra-sinistra, potere e controcultura, élite
dominante ed hippie. “…noto per le sue relazioni omosessuali, la supremazia della femmina ed uno stile di vita pacifico” per de Waal, il bonobo sarebbe l’idolo della sinistra ma la definizione va intesa in senso di liberal
nordamericano. In verità, pare che il sesso serva loro per redimere i
conflitti che pur esistono, dove gli scimpanzé fanno un bagno di sangue,
i bonobo fanno un’orgia. 

Del resto, svolgendo le pratiche sessuali in
termini di secondi, il tutto assume un significato leggero, facile,
disimpegnato, sebbene decisamente amichevole e divertente.

rizzolattiOggi,
questa distinzione assai stilizzata del fondo naturale represso dalla
gabbia culturale, è in via di revisione. C’è la torsione interna al
canone anglosassone ma anche l’allargamento della comunità di
ricerca dagli scandinavi ai tedeschi, dai giapponesi ai sud americani. 

Damasio nelle neuroscienze, Stephen Jay Gould e Niels Eldredge con molti
altri nella paleontologia, Robert Trivers  con M. Tomasello e le
ricerche del Max Plank Insitute e dell’ Istituto di Kyoto  e molti altri
nella biologia e nella primatologia. 

Questa area ha trovato la sua
fondazione “dura” per merito degli italiani, la famosa scoperta dei
neuroni specchio di Rizzolati & co, base neurale dell’empatia.  

Ma
il movimento di idee è più vasto e sincronico a molte discipline perché
quello che cambia non è il paradigma di una disciplina ma di una intera
immagine di mondo fondata su un diverso presupposto antropologico. 

3755220 

Ad
esempio, Michael Sandel allievo di Charles Taylor ed interno alla linea
comunitarista in filosofia politica che annovera, oltre a Taylor, anche
Alasdair MacIntyre. Paradigma del Bene comune che ha centro in economia
nell’ opera di Elinor Ostrom del 1990, poi insignita del Nobel nel ’09 e
che si irraggia dal neo-istituzionalismo di Oliver Williamson
(anch’egli Nobel nel ’09) a Raj Patel e Vandana Shiva e che dialoga sia
con la corrente di ispirazione socialista e marxista che vede la coppia
Hardt-Negri assieme a D. Harvey, A. Gorz e gli italiani Mattei, Rodotà,
Revelli; sia con quella di ispirazione religiosa, tanto ebraica che
cattolica. Naturalmente
c’è poi la sfera sociologica (si pensi a Richard Sennett e Saskia
Sassen) ed ecologica che condividono entrambe il paradigma
dell’interrelazione individuale, così come più in generale, si può dire
che l’intera cultura della complessità, graviti intorno a questo mondo
(o il contrario che è lo stesso).

Come spesso accade nel nostro sistema
pensate, la divisione disciplinare è responsabile delle più assurde
cecità. Così come farebbe bene a gli economisti scambiare due
chiacchiere con psicologi e sociologi prima di teorizzare un umano che è
solo necessità di presupposto per i loro algortimi, a tutti avrebbe
giovato scambiare due chiacchiere con gli antropologi, i quali mai si
sono sognati si pensare l’umano razional-individualista-egoista come
essenza reale.  De Waal segnala due milestones di questa conversione, un
articolo dello  psicologo americano Jonathan Haidt sull’incesto (che
non avrebbe origini culturali ma biologiche [4])
e il libro del biologo di Harvard, Martin  A. Nowak che sancisce gli
umani come dei “super-cooperatori”. Anche la conversione del
socio-biologo E.O.Wilson di cui parlammo qui, entra nel movimento.

Un effetto di questa torsione, si
riflette in quella recente paleoantropologia che ha rovesciato i rigidi
canoni dell’eccezionalismo sapiens, tanto cari alla cultura
anglosassone. In realtà l’ibridazione coi Neanderthal, precedentemente
esclusa in via di principio, è stata invece confermata, la convivenza
pacifica tra noi e loro anche, si ipotizza anche una certa preferenza
delle femmine sapiens per il più massiccio Neanderthal. Così per le
origini di un minimo di pensiero astratto e per l’annosa questione della
comparsa del linguaggio che fin a poco tempo fa era afflitta dal solito
“recentismo”, la cura dei morti ed addirittura la musica ed il ballo.

Tornando alla primatologia ed a de Waal,
stante comunque una diversa organizzazione sistemica di fondo, gli
scimpanzé indagati meglio, mostrano atteggiamenti empatici e cooperativi
ma anche i bonobo, nel loro piccolo, talvolta s’incazzano ed entrambi
assieme a gli uomini, sembrano tornare alle originarie intuizioni di
Darwin espresse nel Descent of Man e meglio ancora nei Taccuini
filosofici: la moralità si è evoluta dagli istinti sociali animali e
quindi ha la sua controparte genetica ed evolutiva. Non abbiamo due
nature ma in natura, esistono forme che portano a diversi atteggiamenti
tanto ostinatamente individualistici ed egoisti, quanto apertamente
cooperativi ed altruistici. 

Noi tutti siamo un catalogo di possibilità
che diventano in atto a seconda delle relazioni che abbiamo con la
situazione, l’ambiente, la cultura e la società. La natura non potrebbe
darci una fissità stante che il gioco è l’adattamento al cambiamento.
Se, per usare categorie marxiane, non c’è nella struttura non può
esserci nella sovrastruttura ma questa non è direttamente determinata da
quell’altra bensì dalle forme e tipi di relazioni che s’instaurano tra
le due. 

Questo principio di co-determinazione tra struttura e
sovrastruttura (tra biologia e cultura) dovrebbe aiutare anche il
paradigma marxiano che nella semplificata lettura
“dall’economia-all’ideologia”, sconta un po’ del suo riduzionismo
positivista [5]

Ciò vale anche per l’altra dicotomia tra genotipo e fenotipo e più in
generale in molte dialettiche oppositive e non relazionali.

Le emozioni son dunque alla radice della
moralità e questa è fondata sull’etica della reciprocità soprattutto tra
conoscenti e non necessariamente solo tra consanguinei cioè parenti [6]

La linea parentale, è stata la Maginot dell’interprestazione individual-egoistica lungamente dominante.

Quando,
nella ricerca e nell’osservazione, sono emersi chiari segno di
altruismo comportamentale e soprattutto empatia, decisamente diffusi tra
i mammiferi (e quindi, forse, legati, alla cura della prole) ma di cui
si sospetta la presenza anche negli uccelli e nei rettili, per assorbire
la novità lasciando intatto il paradigma egoistico-genetico, si è
ricostruito il tutto in base al fatto che salvare un parente, aiutarlo,
favorirlo, è salvare, aiutare, favorire lo stesso nostro patrimonio
genetico. 

Ci sarebbe da sorridere per la fantasia con la quale, anche
nell’ambito della presunta neutralità teorica della scienza, si
diverticola il ragionamento pur di non perdere il proprio fondamento.
Purtroppo, così funzionano i nostri sistemi di pensiero, le nostre
immagini di mondo, un purtroppo non riferito al fatto in sé (è in
qualche modo utopico pensare ad una rimessa in discussione, ogni volta
radicale, dei sistemi faticosamente costruiti e largamente condivisi) ma
al fatto che non lo si tenga in debita considerazione. Al fatto che non
si faccia un utilizzo meno dogmatico delle verità risultanti dagli
approcci guidati da precisi e poco consapevoli sistemi di pensiero
iperstrutturati e magari, storicamente stratificati [7].

Questa moralità aperta all’altro,
istintiva, coabita con quella contraria, l’istinto sociale con quello
individuale, quello altruista con quello egoista. La moralità culturale,
quella stabilita nei sistemi religiosi o filosofici o sociali o
istituzionale risulta allora un sistema della consapevolezza atto a
favorire una parte e reprimere l’altra. La struttura è biologica, la
sovrastruttura culturale e sia l’una che l’altra, prevedono
comportamenti che poi noi, in terza istanza, in sede di giudizio,
giudichiamo morali o immorali – amorali. La nostra natura individuale è
violentata dalle culture iper-collettivistiche, la nostra natura sociale
è violentata dalle culture individual-egoistiche quali quella oggi
dominante ai tempi della decadenza del sistema centrato sul dogma
dell’economia moderna. Intenderci individui-sociali pare la via
dell’equilibrio che però fatica ad affermarsi

coverc5Abbiamo definito “torsione” la comparsa
del nuovo punto di vista perché, appunto, non è nuovo. 

Il movimento
allora è un tornare a pescare indietro, in una tradizione che, per
quanto perdente, è esistita già. I caratteri individual-egoistici,
inizialmente, convissero con quelli social-altruistici. Poi i primi
presero il sopravvento su i secondi. 

I primi li troviamo in Hobbes, in
Locke, in Mandeville. I secondi, per certi versi, nella filosofia morale
scozzese, perfino in Smith che altrimenti si ricorda come il fondatore
dello spirito del capitalismo. Ma Smith non fu affatto il fondatore dello spirito del capitalismo [8]
ma dello spirito del mercato. 

Qualcuno, soprattutto a sinistra (ma
simmetricamente anche a destra), tende a confondere le due cose, ma le
due cose sebbene si sovrappongono non coincidono. Smith stesso riteneva
l’Inquiry opera secondaria rispetto alla Teory, nella quale troviamo
l’anticipazione di quel concetto di simpatia che oggi potremmo annettere
alla famiglia che dall’empatia porta via neuroni specchio, alla
socio-abilità umana [9]

 Fu solo successivamente, ai primi del XIX secolo, che con
l’utilitarismo e neanche integralmente per colpa solo di questo, si
trasformò l’essere umano nel freddo calcolatore razionale dell’utilità
egoistica. Questa doppia anima anglosassone, esisteva non solo per via
degli scozzesi (che la derivavano dalla doppia origine pre-anglosassone
più lo strato vichingo) ma anche tra gli inglesi, si pensi a Gerrard
Winstanley, il capo dei diggers (zappatori) antesignani del
comunitarismo (1609-1676) o ai levellers (entrambi, movimenti attivi ai
tempi della Guerra civile) o William Goodwin (1756-1836) da cui riparte
la teorizzazione moderna dell’anarchismo o ancora prima, all’utopia di
Thomas More.

copcr5La distorsione interpretativa degli
orientati alla visione individual-egoistica, proviene anche da un
aggancio tra paradigma utilitaristico-economicista, paradigma
dell’individualismo metodologico nelle scienze sociali ed una certa
interpretazione di Darwin e la biologia molecolare che, occupandosi di
geni è per forza di cose maggiormente orientata ad osservare solo i
portatori di geni, cioè gli individui.  

Queste tre derivate dello stesso
concetto (nei sistemi di pensiero collettivo, questa armonia è
necessaria sebbene poco visibile e poco studiata) hanno omesso il fatto
che l’imperativo cognitivo primario degli individui non è riprodursi
(attività che mette in relazione gli individui, due a due) ma esserci,
esistere il più a lungo (e sperabilmente al meglio) possibile. 

La strategia naturale per molti animali, per molti mammiferi, per tutti
i primati e per l’uomo che ne consegue è stata quella di unirsi ad un
gruppo. 

Ci sono molti ottimi motivi per far ciò, il primo è che la
selezione naturale ci vede peggio quando tratta gruppi, la seconda è che
i gruppi sono spesso molto più efficienti nell’adattamento dei singoli. 

 Darwin sosteneva con forza il paradigma individuale poiché pensava,
giustamente, che l’innovazione dei caratteri compare individualmente ed
egli era interessato come abbiamo detto qui, più all’aspetto del cambiamento delle specie e a quella che poi si chiamerà impropriamente evoluzione [10]

Ma l’altro aspetto di ciò a cui ci ha richiamato Darwin è
l’adattamento. In senso adattativo, non v’è dubbio che la strategia del
gruppo sia altrettanto se non di più adattativa di quella
dell’individuo. Purtroppo, dei gruppi animali, si occupa al massimo
l’etologia ed è chiaro che i biologi molecolari non s’intendano di un
soggetto che non ha un proprio DNA indagabile ma questo è un problema
della nostra forma di separazione dei saperi, non è un fatto della
realtà. 

Quindi, più che rimanere sconcertati dall’altruismo, la
simpatia, l’empatia, il comunitarismo ed il collettivismo, l’etica e la
morale della relazione e dell’eguaglianza, il senso di giusto-ingiusto
come presenze biologiche prima ancora che culturali, ci sarebbe da
rimanere sconcertati del fatto che vi siano scienziati che rimangono
sconcertati. 

Che immagine di mondo hanno costoro? Come è organizzato il
loro sistema di pensiero? Quanto cariche di teoria e di ideologia sono
le loro osservazioni?  

La verità è che la scienza senza una relativa
epistemologia, l’osservazione senza una adeguata teoria
dell’osservazione dell’osservatore, tende al dogma ed alla metafisica
non meno della religione e della filosofia. I sacerdoti in camice bianco
tendono a soppiantare quelli in abiti nero ma la dogmatica è più o meno
la stessa.

E’ chiaro che anche la lettura della
genetica se non sceglie con realismo il contesto, sbaglierà la lettura
del testo non meno di quanto si potrebbe equivocare il Cantico dei
Cantici come un’ode alle orge. Se per molti animali, il gruppo è il
contesto primario per adattarsi (e per l’individuo adattarsi ad un
gruppo che poi si adatta da un ambiente) e sopravvivere, saranno le
facoltà di socializzazione, di condivisione, di rispetto reciproco, la
reciprocità, la gratitudine ed anche lo spirito di imitazione,
emulazione, lo spirito gregario che favorisce l’ordine gerarchico,
l’abbandonarsi un po’ troppo acriticamente al comune sentire, le facoltà
premiate. 

copcnL’altruismo che non è comprensibile a certi biologi
comportamentali ed a certo economisti se non come un costo, è in realtà
un investimento su un reddito differito, se molti animali, inclusi noi,
fossero come descritto da Skinner
o Dawkins o Pinker o la scuola di Vienna e di Chicago in economia, ci
saremmo già estinti da parecchio. 

Ed è infatti seguendo questo pacchetto
ideologico che l’occidente rischia di tendere  all’estinzione.
L’ostracismo, l’emarginazione e la cacciata dal gruppo sono la sanzione
che condanna alla perdita del vantaggio di gruppo [11]

 L’empatia e l’introiezione degli schemi sociali sono ciò che favorisce
il coordinamento intra-individuale ed il funzionamento ordinato del
gruppo. Tutto ciò ha traccia biologica essendo la nostra storia
evolutiva, come mammiferi, come primati e come esseri umani. La nostra
razionalità è schiava delle nostre passioni [12]
ma la nostra morale lo è anche delle nostre emozioni primordiali, tanto
da divenir “istinto”. Questo è l’istinto del tendere all’altro.

= 0 =

9788843037339De Waal è uno studioso simpatico e ottimo
divulgatore. Il libro parla anche della questione religiosa che noi qui
non trattiamo. E’ una piacevole lettura. 

La ricerca nell’ambito della
relazione tra materiale ed ideale è una strada fondamentale per ridurre
questa perdurante, dannosa ed inutile, dicotomia. De
Waal insiste su una deduzione fondamentale, non potrebbero esistere
sistemi morali culturali se non ci fosse una base comportamentale data
dalla storia biologica. 

Non esiste quindi una natura biologica
divaricata e divaricante la natura etica e morale ma una unica natura
con cose che a seconda dei tempi e degli spazi ci sembrano più o meno
morali. Questa determinazione è data dai sistemi culturali che sono in
relazione ma non corrispondono perfettamente alla base biologica che per
altro è un ampio ed anche contraddittorio catalogo di possibilità. 

Idea
e materia, strutture e sovrastrutture, bio e kultur, individuo e
società, altruismo ed egoismo, emotivo e razionale. La nuova era
complessa, se è vero che segna una profonda discontinuità, meriterebbe
una profonda revisione di come abbiamo significato queste parole e di
come le abbiamo infilate nel meccanismo dicotomico – dialettico, di come
le intendiamo logicamente sottoposte la principio di non contraddizione
e di come le abbiamo messe a fondamento di sistemi di idee complessi,
atti ad orientare il nostro comportamento nel mondo.

Nuovo il mondo, nuovo il comportamento
richiesto per l’adattamento, nuovo il sistema di pensiero che deve
guidare, nuovi i significati da attribuire alle parole che provengono
dal nostro atteggiamento nei confronti della coppia verità – realtà.

::::::::::::::::::::::::::::::

Note

[1]
Il personaggio di fantasia Hulk, continua la tradizione. In linea
generale però, si può dire che la storia delle società umane, è un
alternarsi di vari sistemi morali che sacrificano alcune tendenze
naturali. Si tratta di vedere quante e quali ed a quali condizioni per
dare un giudizio di maggiore o minore “ospitalità dell’umano”.

[2]
Una vera e propria “bad girl” è l’antropologa e primatologa Sarah
Blaffer Hrdy di cui, in italiano, avreste potuto trovare due titoli ma
oggi son fuori catalogo.

[3]
Questa conversione britannica è approdata di recente ad una curiosa
ricerca di genetica delle popolazioni effettuata dagli inglesi su se
stessi. Con grande stupore (ma chissà forse anche sollievo) gli inglesi
hanno scoperto che, invero, le loro radici sassoni-danesi non sono poi
così forti. Ne è venuta fuori una macedonia genetica con forti
tradizioni celtiche, addirittura romane (cioè di vari popoli
continentali) ed addirittura degli antichissimi indigeni britanni. Nel
cinema, questa riscoperta di altri natali, ha preso la forma delle
riletture del mito di Artù, fiero oppositore delle invasioni barbariche,
sebbene alla fine sconfitto. Marx l’aveva azzeccata quando diceva che
la cultura dominante è quella delle classi dominanti, gli anglo-sassoni
erano pochi ma dominanti. Anche gli altri indoeuropei dovevano esser
pochi ma evidentemente dominanti visto che più o meno in tutta Europa
parliamo lingue derivate da quel ceppo.

[4]
Già conosciuto come “effetto Westermarck”, si tratterebbe dell’origine
biologica della naturale avversione all’incesto. Persone con le quali si
è convissuto durante i primi sei anni di vita, diventerebbero
reciprocamente, non sessualmente attraenti. In questa ottica, il
complesso di Edipo sarebbe inesistente. La lunga storia del fascino
dello straniero e dell’esogamia testimonia ulteriormente e pare,
addirittura, che esista una preferenza olfattiva per partner con un
patrimonio genetico piuttosto diverso. Altresì, la ripresa delle idee di
Westermarck (1891) segnerebbe un ritorno alle convinzioni della catena
Darwin – Hume – filosofia morale scozzese in alternativa alla
schizofrenia biologia –  amorale vs cultura – morale, sulla quale, duole dirlo, deragliò anche Kant.

[5]
A proposito di paradigmi e di sinistra, c’è del vero nell’icastica nota
che il neuro scienziato M. Gazzaniga ha fatto al problema del cambio
paradigmatico: “…le conoscenze umane fanno un passo in avanti ogni volta che si celebra un funerale”.
S’intende che è la fisica scomparsa dei portatori un determinato
sistema di pensiero centrato su un inviolabile paradigma a permettere la
comparsa di qualche novità.

[6]
Una breve digressione su quanto spesso reinventiamo il già noto. Nella
Teoria dei giochi, Dilemma del prigioniero, ha fatto furore la strategia
“inventata” da A. Rapoport (1980) detta tit for tat. Non c’è testo di biologia comportamentale che non citi (per altro rigorosamente in inglese) il tit for tat che poi sarebbe il pan per focaccia.
Basato sul semplice principio della reciprocità, il meccanismo che
potremmo anche definire specchio attivo (fare a gli altri quello che gli
altri fanno a voi) è conosciuto nel diritto romano come Legge del
taglione. E’ anche alla base della legge islamica e risale (tra le
situazioni note) a gli Ebrei. Credo sia molto, come sempre, ma molto più
antico, almeno quanto l’homo. Lo stesso Dilemma del
prigioniero era caduto in uno sconcerto (il problema che aveva posto
Axelrod a cui Rapaport diede sì brillante soluzione) quando gli si era
posta la prospettiva delle reiterazione ovvero del peso delle
conseguenze delle scelte di comportamento. Questo mise in ballo un
concetto che il nostro modo di stare la mondo ha aggirato in tutti i
modi -la reputazione-. Nella società individualistica ed anomica in cui
viviamo, la reputazione non è più la storia reale della nostra persona,
 è sintetica ovvero creata come si crea un abito fatto non della nostra
stessa stoffa.

[7]
Un dato interessante del come funzionano i sistemi di pensiero, si
trova nella ricerca Pew Research (2009) sull’accettazione della Teoria
dell’evoluzione, nelle varie comunità basate sul credo religioso. Con
medie molto alte (80%) svettano buddisti ed indù, più incerta la
situazione dei principali cristiani con i cattolici meglio dei
protestanti (58%-51%), decisamente contrari i protestanti evangelici ed i
mormoni (23%). Interessante il dato sui musulmani. Questi vanno da
punte dell’80% in Kazakistan e Libano ai 27% di Afghanistan ed Iraq (ma
ci sono grandi lacune nei dati come egiziani, algerini e sauditi). In
effetti non c’è nulla nel Corano che possa suggerire qualcosa contro o a
favore dell’evoluzione per cui c’è evidentemente una libertà
interpretativa che altresì si modella sul tipo di più o meno forte
conservatorismo religioso praticato nelle diverse comunità.

[8]
Lo spirito del capitalismo venne fondato da più fatti, mani e voci ma
Weber ne diede una lettura, per quanto parziale, abbastanza centrata.

[9]
Il principio dell’utilitarismo: “la massima felicità del maggior numero
di uomini” venne originariamente espresso dallo scozzese F. Hutchinson
(Hutscheson) di cui Smith fu allievo. Ma l’accezione che ne dava
Hutchinson differiva da quella dei successivi utilitaristi inglesi. Nel
lungo titolo della sua Inquiry (sulle idee di virtù e bellezza, 1725)
egli si richiama espressamente a Shaftesbury, contro
Mandeville, contro cioè il principio dell’utilità individuale egoistica.
Così, l’altro scozzese Hume, per il quale l’azione buona era quella che
procurava felicità e soddisfazione alla società poiché l’uomo inclina
naturalmente a promuovere la felicità dei suoi simili Egli chiamava
questo “sentimento di umanità”, ciò che Smith chiamerà “simpatia”. Non è
quindi certo dalla filosofia morale scozzese che deriva il successivo
individualismo egoista degli inglesi. In Smith, con “Inquiry” s’intende
la Ricchezza delle Nazioni (1775) e con Theory, s’intende la Teoria dei
sentimenti morali (1759).

[10] La poco equilibrata lettura di Darwin di cui abbiamo già parlato qui,
oggi si pensa, fu dovuta in primis dal ruolo pubblico e di ufficiale
interprete, svolto da T. Huxley. De Waal ironizza dicendo che egli
stesso avrebbe conbinato non pochi guai se fosse stato chiamato a far il
difensore pubblico di Einstein e della Relatività.

[11]
C’è anche chi, come l’antropologo americano C. Boehm, sospetta che gli
uomini sociali abbiano selezionato “geni della socialità” come gli
allevatori fanno con le caratteristiche animali. Mettendo al bando ed
uccidendo psicopatici, imbroglioni, stupratori, teste calde, avrebbero
estromesso dal flusso riproduttivo i geni maligni. Bisogna però credere
ad una derivazione totalmente genetica di questi comportamenti cosa che
la perdurante presenza di quei caratteri nelle nostre società,
 essenza delle nostre élite predatorie e convintamente egoiste, non
confermerebbe.

[12]
De Waal cita una ricerca Danziger et al. 2011 (p.210) in cui un panel
di giudici israeliani emetteva sentenze favorevoli nel 65% dei casi nel
post-prandiale e del 0% prima di fare la pappa. Se avete contenziosi,
spostate le udienze al pomeriggio!

Fonte: [url”https://pierluigifagan.wordpress.com/2015/04/29/frans-de-waal-fate-i-bonobo-non-la-guerra/”]https://pierluigifagan.wordpress.com/2015/04/29/frans-de-waal-fate-i-bonobo-non-la-guerra/[/url].

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