La fotografia come documento della storia
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La fotografia come documento della storia

Intervista a tutto campo a Pierpaolo Mittica, fotografo autore di reportage internazionali. L'ultimo su Fukushima, diretta conseguenza di quello su Chernobyl.

Pierpaolo Mittica (2011) Rifugi per gli evacuati, Fukushima Big Palette, Koriyama. dalla serie Fukushima 'No-go Zone' Stampa digitale su carta Hannemuhle cm 33 x 48
Pierpaolo Mittica (2011) Rifugi per gli evacuati, Fukushima Big Palette, Koriyama. dalla serie Fukushima 'No-go Zone' Stampa digitale su carta Hannemuhle cm 33 x 48
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Glenda Cinquegrana Modifica articolo

14 Marzo 2013 - 19.46


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di Glenda Cinquegrana

Glenda Cinquegrana: Chernobyl prima Fukushima poi. Come si sceglie il tema da affrontare in un reportage?

Pierpaolo Mittica: Per quanto mi riguarda, poiché non lavoro su commissione o per agenzie, ma scelgo personalmente i miei progetti, sono abituato a fare delle scelte in base all’emozione che un argomento mi scatena nel momento in cui vengo a contatto con esso. Mi faccio letteralmente guidare dall’emozione. Il lavoro dedicato a Chernobyl, ad esempio, è nato quasi per caso. Ho conosciuto la direttrice di un’associazione, che si chiama Don Nillo Carniel, che ha il compito di portare i bambini di Chernobyl in Italia per un periodo di soggiorno. Parlando con lei ho scoperto quello che stava accadendo nelle terre contaminate da Chernobyl. Le informazioni che lei mi ha dato hanno scatenato in me quell’emozione che mi fa dire: voglio andare a vedere. Nel 2002 sono partito nel e ho concluso il lavoro solo nel 2007, dopo diversi viaggi in loco. Il lavoro su Fukushima è stato la diretta conseguenza di quello di Chernobyl: dopo essermi occupato di Chernobyl e di nucleare per cinque anni, mi è sembrato naturale andare a documentare questo secondo disastro occorso a distanza di venticinque anni da quello di Chernobyl.

GC.: Raccontaci quali sono state le difficoltà specifiche che hai incontrato nella realizzazione di questo progetto fotografico.

PM.: La prima difficoltà oggettiva è stata quella di trovare il contatto per poter ottenere il permesso per entrare nella zona di esclusione: ci ho messo tre mesi prima di riuscire a trovare la persona giusta. Sono riuscito a contattare il giornalista Pio d’Emilia, inviato di Sky Tg 24 in Giappone e grazie alla sua amicizia personale con il sindaco di Minamisoma, una delle cittadine evacuate della zona di esclusione, abbiamo ottenuto il permesso per entrare nella No-Go zone. Le volte successive sono entrato per vie illegali grazie all’incontro fatto nel primo viaggio con un’associazione di animalisti, la Animal Forest, che aveva il compito di entrare nella zona per salvare gli ultimi animali rimasti. Con loro sono ritornato nella zona di esclusione diverse volte.

GC.: E’ chiaro che un altro ostacolo era rappresentato dalle radiazioni.

PM.: Sì certo. La presenza delle radiazioni mi ha condizionato, imponendomi di fare il lavoro con una relativa fretta. Le immagini rispecchiano anche questa condizione di rapidità obbligata. Le foto di questo reportage, quindi, risentono di un metodo di lavoro diverso dal quello abituale. Generalmente sono solito fermarmi a lungo in un luogo e magari a ritornarvi più volte; ma in questo caso non era possibile.

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GC.: La profondità, infatti, sembra essere una caratteristica tipica del tuo modo di fare reportage. Mentre scatti le immagini l’urgenza di documentare si scontra qualche volta con la paura o con il senso del pericolo?

PM.: La paura e il senso di pericolo di solito sono filtrate dalla macchina fotografica, che in qualche modo ti protegge dalla realtà, e che ti fa concentrare solo sul tuo obiettivo che è quello di documentare e di far conoscere la realtà. La paura spesso viene dopo, quando si ritorna a casa e magari si pensa alle situazioni di pericolo che ti sono capitate mentre fotografavi. Ma al momento dello scatto quello che prevale è la voglia di raccontare.

GC.: Il fotogiornalismo nasce con l’obiettivo di raccontare la realtà in modo il più possibile oggettivo; al tempo stesso un reportage rappresenta una visione filtrata dallo sguardo del fotografo. Nel tuo lavoro in che misura oggettività e soggettività trovano equilibrio?

PM.: L’oggettività non esiste, la fotografia è sempre il prodotto di quello che il fotografo vede e prova a livello emotivo. E’ vero che il fotogiornalismo ha lo scopo di riportare le notizie in modo più attinente alla veridicità; ma credo che questo non sia assolutamente in contrasto con la soggettività emotiva del fotografo, se questi preserva una sua correttezza etica. Personalmente quello che cerco di fare non solo è creare un documento che rappresenti la realtà, ma realizzare qualcosa che sia la sommatoria di documento e sentimento: in questa un ruolo fondamentale ricopre l’estetica della fotografia, che è dettata da una corretta composizione e dall’armonia dell’immagine.
Tutto questo permette ad una fotografia non solo di attirare l’attenzione di chi la guarda, ma anche di resistere nel tempo: solo le foto che rappresentano documenti importanti e che sono esteticamente belle vengono ricordate fino ad entrare nella storia.

GC.: Quindi l’estetica della foto è importante per costruire un’immagine che sia monumento della storia. E’ questo il senso del fotogiornalismo per te in un momento storico dominato dall’enorme diffusione delle immagini via rete, in cui l’impressione è che tutto sia già stato visto e raccontato?

PM.: Al giorno d’oggi il mestiere del fotogiornalista è in enorme crisi: le riviste si accontentano del documento, purchè sia gratis o a basso prezzo, e non cercano più la foto d’autore. Oggi, peraltro, con l’enorme diffusione delle fotocamere digitali chiunque può fare un documento, basta che si trovi sul luogo. Questo ha abbassato notevolmente la qualità dei lavori fotografici pubblicati. È un circolo vizioso che rischia di portare nel baratro la professione del fotoreporter e il sistema dell’informazione, tutto a discapito dello spettatore.

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GC.: La scelta del bianco e nero non è comune nella fotografia di reportage. Qual è il motivo di questa scelta stilistica nel lavoro dedicato a Fukushima?

PM.: Il bianco e nero, dopo l’avvento del digitale, è diventato fuori moda: la maggior parte degli editori richiede solo foto a colori. Per quanto riguarda me, vengo dalla scuola tradizionale americana di reportage a scopo sociale di Walter Rosenblum, mio grande maestro che mi ha insegnato l’importanza del bianco e nero in questo tipo di fotografia di carattere documentario. La scelta stilistica del bianco e nero per me non costituisce una scelta a priori; non a caso ho fatto lavori a colori. Quella del colore rappresenta una scelta meditata: utilizzo il colore quando questo è elemento fondamentale per raccontare una storia. Ad esempio, nel caso del lavoro sui minatori delle miniere di zolfo in Indonesia il colore era un elemento che aiutava a raccontare la storia in maniera decisiva. In questo reportage fatto a Fukushima non c’era alcun motivo di inserire il colore quale elemento del racconto; anzi diventava un strumento di distrazione.

GC.: Quindi il bianco e nero è lo strumento per costruire una forte sintesi narrativa ed espressiva. A proposito di scelte stilistiche, osservando alcune fotografie di questo reportage, ho notato un elemento ricorrente: spesso hai fotografato una vetrata, quasi a dare l’idea di una realtà a doppio livello di lettura, una rivelata e l’altra nascosta.

PM.: La ricerca dei riflessi genera immagini di una notevole forza estetica ed evocativa: essi creano una doppia immagine, e le foto che sono dotate di una doppia lettura, nella quale due situazioni possono essere contrapposte o sovrapposte. I riflessi in alcune di queste immagini mi hanno permesso di raccontare due storie con un solo scatto.

GC.: Torniamo invece al tuo percorso. Scorrendo il tuo curriculum appare evidente che hai realizzato la maggior parte dei tuoi reportage all’estero, così come stranieri sono i premi che ti sono stati conferiti. Quali sono i limiti e le opportunità del panorama del fotogiornalismo italiano attuale?

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PM.: La cultura dell’esterofilia è molto diffusa in Italia e ovviamente negli altri paesi: quindi, per un fotografo italiano è più facile avere successo all’estero che non in patria. In tutti questi anni di lavoro ho avuto modo di rendermi conto che in Italia c’è una bassa considerazione economica e culturale per il mestiere del fotografo, mentre all’estero gli editori investono maggiormente sulle pubblicazioni. La mancanza di investimenti fa sì che in Italia sia più difficile per un fotografo riuscire a lavorare come professionista.

GC.: Recentemente i concorsi internazionali di fotografia – World Press Photo in primis – sono stati accompagnati da polemiche riguardo l’uso del Photoshop. Qual è la tua posizione in merito? Quale uso della post-produzione c’è in queste immagini in mostra?

PM.: Per quanto riguarda le mie foto utilizzo in Photoshop solo le tecniche che derivano dalla mia cultura di quindici anni di camera oscura.
Credo che la post- produzione debba essere finalizzata alla comprensione della foto e del fatto che essa racconta. Ad esempio, penso che nel caso della foto vincitrice del World Press Photo l’uso troppo spinto del Photoshop abbia prodotto l’effetto contrario: anzichè aiutare a vedere la drammaticità del soggetto, a capire la realtà della guerra e soffrire per la morte dei due bambini innocenti, l’uso accentuato della post-produzione ha creato un effetto di distrazione dell’attenzione, che dai significati inerenti alla foto si è spostata sull’estetica superficiale dell’immagine.
Non escludo che la post-produzione possa rientrare nel linguaggio stilistico di un fotografo, che oggi in questo modo si può creare un suo linguaggio fotografico che non ha nulla a che fare con la realtà. Si tratta di una questione stilistica che esisteva anche con la fotografia di pellicola e che oggi, grazie ai diffusi software fotografici, ha incrementato di molto le sue potenzialità. Non sono né a favore né contro l’uso del Photoshop: ognuno è libero di esprimersi come meglio crede. Ma penso che laddove una foto di reportage perda la sua funzione, il fotografo non è sulla giusta strada.

Si ringrazia Giulia Ferrari per il contributo a questa intervista.

Pierpaolo Mittica (2011) Rifugi per gli evacuati, Fukushima Big Palette, Koriyama. Dalla serie Fukushima ‘No-go Zone’. Stampa digitale su carta Hannemuhle cm 33 x 48

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