Niger, le verità scomode di un golpe "popolare"
Top

Niger, le verità scomode di un golpe "popolare"

Se resta sul tavolo l'opzione di un'operazione armata, l’Ecowas sembra ancora favorire la via del dialogo e della diplomazia con il regime militare al potere a Niamey.

Niger, le verità scomode di un golpe "popolare"
Preroll

Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

17 Agosto 2023 - 18.49


ATF

La Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale  (Ecowas) ha annunciato di aver avviato l’attivazione della sua Forza di attesa per il ripristino dell’ordine costituzionale nella Repubblica del Niger. In un post sull’account ufficiale su X, si aggiunge che la riunione in corso ad Accra in Ghana del Comitato dei capi di stato maggiore della Difesa della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale, sarà incentrata proprio sul finalizzare i piani di dispiegamento di tali truppe. Meeting che durerà fino a domani, venerdì.

L’opzione diplomatica è ancora aperta

Se resta sul tavolo l’opzione di un’operazione armata, l’Ecowas sembra ancora favorire la via del dialogo e della diplomazia con il regime militare al potere a Niamey. L’incontro arriva due giorni dopo che almeno 17 soldati nigerini sono stati uccisi e altri 20 feriti in un attacco di sospetti jihadisti nel sud-ovest del Niger, vicino al confine con il Burkina Faso.

In un comunicato stampa diffuso martedì, l’Ecowas aveva citato “vari attacchi perpetrati da gruppi armati” che hanno “causato la morte di diversi soldati nigerini”, senza specificarne le date. Condannando “fortemente” questi attacchi, l’organizzazione ha invitato il regime militare di Niamey a “ripristinare l’ordine costituzionale” nel Paese per concentrarsi “sulla sicurezza” che e’ stata “ulteriormente indebolita dopo il tentativo di colpo di Stato”.

Il Programma Alimentare Mondiale (Wfp) ha avvertito che le sanzioni regionali imposte dall’Ecowas e la chiusura delle frontiere “stanno influenzando notevolmente l’approvvigionamento di cibo vitale e forniture mediche del Niger”, “esortando tutte le parti a facilitare le esenzioni umanitarie”.

Negli ultimi giorni si sono moltiplicati gli appelli per una risoluzione pacifica di questa crisi, anche da parte di alcuni partner occidentali come gli Stati Uniti, che mercoledì hanno annunciato che una nuova ambasciatrice, Kathleen FitzGibbon, si sarebbe presto stabilita a Niamey.

A capeggiare la coalizione antigolpisti c’è la Nigeria e hanno risposto presente anche Benin, Costa d’Avorio e Ghana, ma non dovrebbe mancare il supporto pure di Sierra Leone, Capo Verde e Guinea Bissau.

Nel dettaglio dovrebbero essere in totale 25.000 i soldati pronti a dichiarare guerra al Niger, con la partecipazione più corposa che sarebbe quella della Nigeria con 5.000 unità pronte a entrare in azione.

Il Niger dei golpisti invece potrebbe avere il supporto di Mali, Burkina Faso e Guinea, senza dimenticare poi il possibile arrivo in soccorso del generale Tchiani di quel gruppo Wagner ora fermo in Bielorussia dopo il fallimento della marcia su Mosca.

Consenso interno

In Niger i golpisti sembrano godere di ampi consensi. L’11 agosto migliaia di persone hanno manifestato davanti alla base francese all’aeroporto di Niamey (nella foto sopra) chiedendo il ritiro delle truppe di Parigi e scandendo slogan ostili alla Francia.

Un sondaggio realizzato da Premise Data (tra un campione di nigerini per il 62% residente nella capitale) e pubblicato il 9 agosto da The Economist ha rivelato che il 78 per cento dei nigerini sostiene la giunta militare del Conseil National pour la Sauvegarde de la Patrie (Cnsp) e tra essi il 73 per cento ritiene che i golpisti debbano testare al potere per un periodo prolungato o fino a nuove elezioni.

Un’analisi illuminante

“Niger, Mali, Burkina Faso… la nostra politica africana ci crolla addosso”. E’ il titolo de Il Foglio Internazionale ad un interessante articolo pubblicato dal Point (traduzione Mauro Zanon )dell’ex rappresentante della Francia presso le Nazioni Unite denuncia la miopia di Parigi sul continente. 

“Ve lo avevo detto” è una frase che oscilla tra una ridicola vanità e un’odiosa soddisfazione dinanzi alla disgrazia annunciata e puntualmente verificatasi. Non la utilizzo volentieri, ma i miei lettori possono ricordarsi di un articolo dove, diciotto mesi fa, invocavo una profonda revisione della politica francese nel Sahel. All’epoca, eravamo appena stati espulsi dal Mali. Il Burkina Faso è arrivato subito dopo ed ecco ora il turno del Niger. Ogni volta i golpisti puntano sui sentimenti anti francesi diffusi nella popolazione per presentare il loro colpo di stato come una liberazione dal colonizzatore e ogni volta viene agitata la bandiera russa davanti alla nostra ambasciata diventata una fortezza sotto assedio. Nessuno dovrebbe essere sorpreso da questa ondata che travolge i nostri interessi attraverso il Sahel. Non incriminiamo i russi, che approfittano soltanto della situazione. Prendiamocela con noi stessi, che non abbiamo capito che un’epoca si stava archiviando a nostre spese.

La causa principale della crisi è naturalmente questa Françafrique di cui ogni presidente annuncia la fine appena eletto all’Eliseo, non rendendosi conto che questa ripetizione rituale certifica invece che è sopravvissuta ai predecessori e continuerà a sopravvivere senza misure radicali che non sono mai state prese. No, non sono gli interessi mercantili a essere all’origine della crisi: tutto il continente africano rappresenta tra il 4 e il 5 per cento dei nostri scambi e dei nostri investimenti all’estero; il Sahel conta per meno di un decimo del totale di questi scambi e investimenti. Lo stesso uranio del Niger sarebbe facilmente sostituibile, nel mondo ce n’è in abbondanza e costa poco ma noi abbiamo accettato di pagarlo a un prezzo più elevato rispetto a quello di mercato. In realtà, il problema è politico: la Francia non ha saputo accettare che le sue ex colonie siano ormai indipendenti e trattarle di conseguenza (…). Dal canto nostro, è facile talvolta provare una certa nostalgia dagli echi coloniali. Ma i giovani africani non ne vogliono più sapere di questo atteggiamento.

Essi associano l’amministrazione corrotta e inefficace a questa Francia a cui le loro élite sono apertamente vicine. Il nostro paese è diventato il capro espiatorio di tutte le loro frustrazioni. Rifiutano persino la nostra lingua perché loro stessi non hanno più accesso all’istruzione che ne permette l’apprendimento. Ma la scintilla che ha dato fuoco alle polveri è l’intervento militare in Mali nel 2013. Non solo, nel corso del tempo, i liberatori – è così che furono accolti i francesi – sono diventati sempre più degli occupanti, ma, lungi dal ridurre la minaccia terroristica, l’operazione è stata anche accompagnata, anno dopo anno e nonostante i nostri successi sul campo, dall’estensione progressiva del raggio d’azione dei jihadisti (…). Uno dopo l’altro, i paesi della regione sono stati travolti dalla guerriglia. Il Sahel, una delle regioni più povere del mondo, dove la popolazione raddoppia ogni diciotto anni, è diventata progressivamente un campo di battaglia con il suo corteo di rifugiati e di atrocità senza prospettive di conclusione rapida dei combattimenti. Ci possiamo chiedere se la Francia ha vinto tutte le battaglie, ma perso la guerra (…). La nostra politica africana ci sta crollando addosso. Cambiamola completamente. Il presidente della Repubblica ne aveva capito la necessità, ma si è fermato a metà strada dinanzi alla resistenza delle routine, in particolare quelle militari. Il nostro stato maggiore è tiene molto alla nostra presenza in Africa, che ha permesso alle nostre forze armate di acquisire un’esperienza sul campo che non ha eguali.

Ricordo il senatore McCain che, tornando da una missione in Mali, esprimeva la sua ammirazione per l’azione delle nostre truppe, ma ammettiamo che si tratta dell’eredità di un’altra epoca. Riduciamo drasticamente i nostri effettivi sul campo. Chiudiamo le nostre basi che non hanno altra giustificazione se non l’intervento negli affari africani. Perché, tra l’altro, le abbiamo conservate per così tanto tempo? Il Regno Unito, il cui ex impero coloniale è ben più esteso del nostro, non ne ha sentito il bisogno. E non sembra avere rimpianti. Imitiamoli. Facciamoci discreti. Non spetta a noi decidere la forma di governo che conviene a un paese. Dobbiamo smetterla di considerare che i problemi della regione sono nostra responsabilità, e spingiamo le istituzioni internazionali a investirsi in una regione che hanno per molto tempo trascurato poiché era la nostra “riserva di caccia”. Queste “riserve di caccia” non devono più esistere. Facciamo una stima razionale dei nostri interessi concreti e atteniamoci alla loro difesa. Sono in realtà assai limitati”.

Non è solo il Niger a minacciare la stabilità del Sahel

 L’allarme lo lancia l’agenzia specialistica Fides, che in un lungo reportage spiega che la guerra ha già raggiunto, nell’indifferenza della comunità internazionale, il Sudan. Un imponente flusso di profughigenerato dai combattimenti adessosi riversa verso il Ciad,cuore strategico del Sahel e porta d’accesso verso la Nigeria e il Camerun, mettendo a repentaglio la stabilità dell’intera regione.

“Anche se in Europa non se ne parla molto, dal 15 Aprile 2023, in Sudan, è in corso un drammatico scontro armato tra fazioni rivali,comandate da due generali che si contendono da anni il potere. Questa guerra fratricida sta provocando in tutto il Paese la fuga della popolazione verso i Paesi limitrofi, in particolare verso il Ciad. Attualmente, oltre 30.000 persone del Darfur sudanese hanno trovato rifugio nelle province confinanti del Ciad.

L’afflusso dei profughi continua ancora a un ritmo di circa 5.000 persone alla settimana, e si prevede che non si arresterà nei prossimi mesi, almeno fino a quando gli scontri non cesseranno definitivamente. Inoltre, le prospettive per il ritorno alla pace sono attualmente molto lontane e precarie”. Recitava così l’appello lanciato dal Vicariato di Mongo, in Ciad, a firma di don Fabio Mussi, coordinatore del progetto che la diocesi ha lanciato per andare in soccorso delle migliaia di profughi che affluivano dal Sudan travolto, all’epoca, da un mese di terribile conflitto.

Di mesi, dall’inizio della guerra, ne sono passati quattro e la situazione si è drammaticamente aggravata, spiega Fides. L’esodo della popolazione sta raggiungendo proporzioni bibliche.

Secondo le più recenti statistiche, sono oltre 3 milioni le personein fuga, di cui quasi un milione approdate nei Paesi limitrofi in gran parte gravati a loro volta da crisi umanitarie e numeri altissimi di sfollati. Tra questi, il Paese che fa registrare il maggiore numero di ingressi è senza dubbio il Ciad, che da quei 30mila sudanesi disperati di cui parlava don Fabio a maggio è passato oggi a circa 310mila (fonte African Center for Strategic Studies).

“Oltre allo sfollamento interno – riferisce all’Agenzia Fides da N’Djamena Sabrina Atturo, cooperante internazionale della Fondazione Magis, la Ong dei gesuiti – il conflitto in Sudanha causato imovimenti transfrontalieri misti di centinaia di migliaia di persone nei Paesi vicini, vale a dire Egitto, Libia, Ciad, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan ed Etiopia. La maggior parte degli arrivi si registra proprio qui da noi in Ciad (36,5%), poi in Egitto (30,3%) e Sud Sudan (22,5%). Le province orientali, vicinissime al confine col Sudan, sono quelle ovviamente più affollate di profughi”.

La popolazione di André, ad esempio, a soli 400 metri dal confine, nella provincia orientale di Ouaddai, un tempo tranquilla cittadina di 68.000 abitanti, al momento è più che raddoppiata, decine di migliaia di persone di tutte le età sono arrivate dal Sudan da metà giugno, quando una nuova ondata di violenza è scoppiata a El Geneina, la principale città del Darfur occidentale.

Non va dimenticato poi che l’attuale ondata di sfollati dal Sudan si aggiunge agli oltre 400.000 rifugiati sudanesi che vivono nel Ciad orientale dal 2003 a causa di precedenti conflitti sempre nel Darfur.

Ai tentativi fin qui fallimentari di porre un argine al conflitto sponsorizzati da Usa e Arabia Saudita a Gedda, si aggiunge un incontro delle scorse settimane ad Addis Abeba coordinato dal Presidente del Kenya William Ruto in cui sono stati coinvolti anche i rappresentanti della società civile che si sono detti favorevoli a un coinvolgimento dell’Igad (l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo, un ente politico-commerciale formato dai paesi del Corno d’Africa, ndr) e di organismi transnazionali per frenare gli scontri e intavolare negoziati.

L’enigma Nigeria

Annota Gianandrea Gaiani su AnalisiDifsa: “l crescente malcontento in Africa contro l’Occidente potrebbe espandersi a macchia d’olio in caso di intervento militare contro la giunta militare nigerina.

Lo dimostrano anche le voci di un possibile colpo di stato militare in Nigeria, smentite dalle forze armate. Con un comunicato pubblicato su Facebook il vertice delle forze armate nigeriane hanno respinto le “inquietanti” informazioni circolanti sul web di una petizione per chiedere all’esercito di intervenire con un’azione di forza contro il presidente nigeriano, Bola Tinubu. La vicenda è collegata alle proteste scoppiate ad Abuja e in altre città nigeriane contro il possibile intervento armato dell’ECOWAS in Niger.

 “Le forze armate nigeriane sono completamente a loro agio con il sistema democratico e rimangono fedeli al presidente, che è anche comandante in capo, Sua eccellenza Bola Ahmed Tinubu”, hanno ribadito i militari.

Se la fedeltà dei militari nigeriani non sembra essere in discussione, appare certo però che oltre al Senato di Abuja anche una parte della popolazione è contrario a un intervento armato in Niger, dove i golpisti sembrano godere di un ampio sostegno popolare. Un elemento riscontrabile probabilmente anche in altre nazioni della regione, specie nelle ex colonie francesi. dove la minaccia più grande è considerata l’insurrezione jihadista[..]. Non va poi sottovalutato il rischio che un conflitto aperto provochi un “effetto boomerang” nelle nazioni che lo attuino per rovesciare il Cnsp, con possibili sollevazioni in nazioni dell’ECowas contro i governi che abbiano inviato i propri contingenti in Niger ma anche in Francia dove le banlieues potrebbero nuovamente esplodere. Sviluppi destabilizzanti che potrebbero aprire la strada a ulteriori pronunciamenti militari che certo non porterebbero nulla di buono agli interessi francesi e occidentali in Africa Occidentale e Sahel”. 

Native

Articoli correlati