Se Netanyahu è il re despota, Smotrich è l'imperatore degli insediamenti
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Se Netanyahu è il re despota, Smotrich è l'imperatore degli insediamenti

Se Benjamin Bibi Netanyahu è il “re” despota d’Israele, Bezael Smotrich è l’”imperatore” degli insediamenti. 

Se Netanyahu è il re despota, Smotrich è l'imperatore degli insediamenti
Netanyahu e Bezalel Smotrich
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

2 Luglio 2023 - 19.35


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Se Benjamin Bibi Netanyahu è il “re” despota d’Israele, Bezael Smotrich è l’”imperatore” degli insediamenti. 

Lo “Stato” dei coloni

A darne conto è un editoriale di Haaretz: “Si scopre che la revisione giudiziaria non è necessaria per espandere l’impresa degli insediamenti e il furto di terra palestinese. La Procura di Stato è già al servizio di Bezalel Smotrich, imperatore degli insediamenti. Ecco come viene gestito Israele sotto il caotico sesto governo di Benjamin Netanyahu: Dopo l’attacco terroristico di Eli, i coloni hanno costruito un avamposto illegale vicino a Maale Levona, oltre a sei avamposti più piccoli, in un atto di vendetta sionista.


Cercando di ricoprire il ruolo di adulto responsabile, il ministro della Difesa Yoav Gallant ha approvato la decisione di rimuoverli. Ma quando le forze di sicurezza sono arrivate per smantellare gli avamposti, sono state costrette a tornare indietro da un’ingiunzione emessa dal Tribunale distrettuale di Gerusalemme in risposta a una petizione dei coloni. I coloni hanno sostenuto che gli edifici erano stati costruiti su terreni di proprietà dello Stato, già destinati a un futuro sviluppo. Hanno anche sostenuto, senza un briciolo di vergogna, che l’applicazione delle leggi sull’edilizia è selettiva.
L’Ufficio del Procuratore di Stato ha voluto opporsi alla petizione e sollecitare i giudici a respingerla completamente. In risposta alla petizione dei coloni, l’ufficio ha scritto che “ritardare l’azione esecutiva danneggerà gravemente lo stato di diritto e la sicurezza nella regione”. Inoltre, lo Stato ha sostenuto che l’appello dei coloni è stato presentato senza autorità e integrità e riflette un uso improprio del sistema giudiziario.
Fino a questo punto, tutto andava bene. Ma poi è intervenuto il rappresentante dei coloni nel governo – Smotrich, che ha ricevuto il controllo della Cisgiordania in cambio del sostegno alla coalizione – e ha messo tutto sottosopra.
In una lettera al procuratore generale Gali Baharav-Miara, ha sostenuto che la risposta del procuratore è stata inviata senza l’autorità necessaria e senza consultarlo. Nello stile manipolatorio usato dai coloni, l’imperatore degli insediamenti si è dipinto come la vittima e ha fatto finta di niente: “Il procuratore generale è consapevole del fatto che in questo momento in Cisgiordania si stanno costruendo più di 1.000 edifici palestinesi illegali, contro un’applicazione minima delle leggi?”. Quando ha finito di blaterare, Smotrich ha chiesto a Baharav-Miara di ordinare all’ufficio del procuratore di ritirare la sua risposta e di dargli il tempo di scriverne una nuova. Ha ottenuto l’autorità di fare una simile richiesta grazie all’accordo con Gallant, che gli ha conferito ampi poteri in Cisgiordania.


Scioccamente, Baharav-Miara, che la coalizione ha definito nemica del popolo e dell’intera destra, ha fatto proprio quello che le era stato detto. La richiesta del capo è stata sufficiente a far cadere la posizione dell’accusa. A quanto pare, non è guidata dalla verità, ma da Smotrich. Il tribunale ha stabilito che l’ingiunzione sarebbe rimasta in vigore fino a lunedì e che i coloni avrebbero dovuto presentare una petizione all’Alta Corte di Giustizia per continuare il loro processo. La protesta contro il progetto di riorganizzazione giudiziaria deve includere anche una discussione su ciò che sta accadendo nei territori occupati. Nella sua debolezza politica, Benjamin Netanyahu ha consegnato il controllo dell’area ai coloni, che sfruttano ogni opportunità per aumentare il loro potere attraverso costruzioni illegali e atti terroristici. Essi stanno avvicinando Israele a una rottura totale con i palestinesi e a un futuro del tutto desolante”.

Una Wagner formato israeliano

Di cosa si tratti lo spiega molto bene, sempre sul quotidiano progressista di Tel Aviv, Yagil Levy.
“La marcia del Gruppo Wagner su Mosca di una settimana fa ci offre una buona opportunità di confronto – annota Levy –  A volte i governi delegano l’autorità a forze mercenarie o milizie locali come “subappaltatori”, in modo che l’esercito non debba agire.


In questo modo i governi possono aggirare le richieste interne ed estere sui diritti umani e sul diritto internazionale. L’uso di subappaltatori offre anche un ampio margine di negazione.
È quello che ha fatto la Russia con il Gruppo Wagner ed è quello che ha fatto Israele in Cisgiordania. Negli anni ’80, l’esercito ha incoraggiato la creazione di milizie di coloni ebrei che aiutassero a difendere gli insediamenti. L’esercito ha gradualmente esteso la giurisdizione di queste forze al di là delle loro comunità e ha ampliato la loro autorità. Ad esempio, durante la prima intifada, scoppiata nel 1987, le milizie pattugliavano i villaggi palestinesi. Dalla seconda intifada, scoppiata nel 2000, l’autorità delle milizie è stata estesa, in particolare ai coordinatori della sicurezza degli insediamenti. Nel frattempo, i cosiddetti giovani delle colline hanno combinato la violenza, compresi gli attacchi anti-palestinesi “price tag”, con la creazione di avamposti non autorizzati.

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Durante la prima intifada l’esercito cercava ancora di controllare l’uso della violenza, ma dalla seconda intifada questi sforzi sono quasi cessati. Secondo il gruppo per i diritti B’Tselem, tra il 1988 e il 1992 circa il 27% delle denunce contro i coloni per aver attaccato i palestinesi è stato incriminato. Secondo il gruppo Yesh Din, tra il 2005 e il 2022 solo il 7% dei casi simili ha portato a un’accusa. Questo dovrebbe essere visto come un modello deliberato piuttosto che come incompetenza.
Il governo ha delegato l’autorità alle milizie locali. Come parte della sorveglianza dell’esercito in Cisgiordania, queste milizie servono come braccio oscuro dello Stato per affermare il controllo nell’Area C, dove si trovano quasi tutti gli insediamenti. L’annessione strisciante di quest’area è sostanzialmente l’unico piano diplomatico che i governi israeliani hanno portato avanti da quando Benjamin Netanyahu è tornato primo ministro nel 2009. L’esercito non può portare avanti questa politica, che richiede un uso diffuso della violenza contro i palestinesi, quindi si affida alle milizie locali. Non c’è altra spiegazione ragionevole per cui lo Stato si riconcili con la violenza degli incendiari. Un governo non fallirebbe sistematicamente in questo compito per due decenni, a meno che questo fallimento non serva ai suoi interessi. Affinché l’accordo tra i coloni e lo Stato funzionasse, l’uso della violenza doveva essere sistematico ma non troppo estremo, mantenendo l’apparenza di uno sforzo moderato di applicazione della legge. Altrimenti, come avrebbe potuto lo Stato sottrarsi alla responsabilità della violenza?

Questo accordo è stato minato quando un nuovo governo è salito al potere e le richieste di libertà d’azione delle milizie sono aumentate. Come ha dimostrato il pogrom di febbraio nella città palestinese di Hawara, gli attacchi con il cartellino del prezzo hanno smesso di essere una pratica sotto copertura. Lo stesso vale per i recenti incidenti.

Come il Gruppo Wagner, le milizie si sono sollevate contro la fonte della loro autorità, mentre per l’establishment della difesa israeliana l’uso eccessivo della violenza mina l’ordine in Cisgiordania. Ma è stato l’establishment della difesa a porre le basi per i recenti episodi di violenza. I coloni hanno solo cambiato le regole del gioco.

È comodo condannare la loro violenza come un’altra brutale manifestazione dell’attuale regime e cancellare i peccati del passato. Ma stiamo assistendo alla continuazione di un processo, non a una rottura improvvisa con il passato”.
Un popolo cancellato

“Qui l’identità non la capisci da chi uno è, ma da chi odia”. Le parole di David Grossman non raccontano solo l’eterno conflitto israelo-palestinese ma danno corpo a uno spettro che si aggira per Israele e che disorienta e inquieta il Governo Netanyahu molto più della rivolta palestinese, che riesplode ciclicamente ma senza riuscire più a impensierire le autorità israeliane, è lo spettro della guerra civile. Molte volte, quando si scrive o si parla, d’Israele viene “spontaneo”, o quasi, riferirsi ad esso come “Stato ebraico”. Tanto più ora, che questa definizione è stata “costituzionalizzata”.  Ma poche volte, quasi mai, si pensa a quel 1,8 milioni di israeliani (oltre il 22% della popolazione) che ebrei non sono e che quella definizione fa scomparire: il “popolo invisibile” per usare il titolo di uno dei grandi libri-reportage di Grossman. Quando conquista le prime pagine, il “popolo invisibile”, è perché un’altra linea rossa nell’eterno conflitto in Palestina è stata superata. Certo, il “popolo invisibile” può esercitare il diritto di voto, elegge i suoi parlamentari alla Knesset , ma sa già in partenza che, comunque vada, non sarà mai rappresentato in un Governo, sia esso di destra, di centro o di sinistra,  perché prima di ogni altra cosa viene l’identità ebraica dell’esecutivo. Assoluta, incontaminabile. Vota ma non conta, il “popolo invisibile”. Sulla carta, a livello individuale, ha gli stessi diritti dei cittadini ebrei, ma nella realtà subisce discriminazioni sociali, culturali, identitarie. Un passo indietro nel tempo. Ventisette novembre 2014: Salim Joubran, giudice arabo della Corte Suprema israeliana, sostiene che gli arabi sono discriminati in Israele. “La ‘Dichiarazione di Indipendenza’ – afferma in un convegno di pubblici ministeri ad Eilat, secondo quanto riportato da Haaretz – menziona specificatamente l’eguaglianza, ma sfortunatamente questo non avviene nella pratica”. Joubran cita anche il rapporto della Commissione Or – istituita nel 2000 per far luce su dieci giorni di scontri tra polizia e cittadini arabi del nord di Israele, e intitolata al giudice della stessa Corte Suprema, Theodore Or. che l’aveva preceduta – secondo il quale “i cittadini arabi dello Stato vivono in una realtà di discriminazione”. Joubran elenca anche una serie di settori in cui esiste la discriminazione: “ci sono divari nell’educazione, nell’impiego, nell’assegnazione di terreni per le costruzioni e l’espansione della comunità, scarsezza di zone industriali e infrastrutture, molti errori nei segnali stradali in arabo” . Le cose non sono migliorate da quel giorno ad oggi, semmai è vero  il contrario. Più di tre quarti degli arabi israeliani non credono che Israele abbia il diritto di definire se stesso come Stato nazionale del popolo ebraico. E’ quanto emerge dall’ultimo sondaggio d’opinione “Peace Index”condotto dall’Israel Democracy Institute, secondo il quale oltre il 76% dei cittadini arabi d’Israele intervistati respinge il diritto di Israele di definirsi Stato ebraico, con più del 57% che si dice “fortemente contrario” a questo concetto. Ancora un altro passo indietro nel tempo. Secondo una relazione del 1998 dell’Adva Centre di Tel Aviv, le disparità sociali ed economiche in Israele sono particolarmente evidenti nei confronti degli arabi israeliani. La relazione fornisce alcune cifre illuminanti: il reddito medio dei palestinesi che hanno cittadinanza israeliana è il più basso tra tutti i gruppi etnici del Paese; il 42% dei palestinesi cittadini israeliani all’età di 17 anni ha già abbandonato gli studi; il tasso di mortalità infantile tra i palestinesi cittadini israeliani è quasi il doppio rispetto a quello degli ebrei: 9,6 per mille nascite contro il 5,3. Il sistema giuridico israeliano si basa su almeno due categorie di cittadinanza. La categoria “A” vale per cittadini che la legge definisce come “Ebrei” cui la legge stessa conferisce un accesso preferenziale alle risorse materiali dello Stato come anche ai sevizi sociali e di welfare per il solo fatto di essere, per legge, “Ebrei”; in contrasto con la cittadinanza di categoria “B” i cui componenti sono classificati per legge come “non Ebrei”, cioè come “Arabi” e come tali discriminati dalla legge per quanto concerne la parità di accesso alle risorse materiali dello Stato ai servizi sociali e di welfare e soprattutto per ciò che concerne la parità di diritti di accesso alla terra ed all’acqua. Gli arabi non possono accedere a nessuna industria collegata, anche indirettamente, all’esercito (per esempio quella elettronica), sono esclusi da molti posti direttivi, non hanno nessuna di quelle agevolazioni (nell’acquisto degli appartamenti, di automobili e, anche, di abituali beni di consumo) che lo Stato concede ai suoi cittadini che hanno svolto il servizio militare. Hassan Yabarin, un avvocato arabo israeliano di spicco che ha continuato a lottare contro queste leggi nei tribunali, afferma che “essere arabo in Israele è come vivere nella propria patria ed essere sottoposto a leggi razziste che discriminano per identità”. “Questo significa che un arabo che vive nella sua terra natale viene trattato peggio di un immigrato a causa della suo origine nazionale”, rimarca ancora Yabarin che dirige il Centro legale per i diritti della minoranza araba in Israele (Adalah). Wadi Abunasar, direttore del Centro internazionale della consulta di Haifa, nel nord di Israele, sostiene la tesi che Israele si caratterizza per avere una struttura piramidale in base alla razza. “Al vertice della piramide – dice – si posizionano gli ebrei ashkenaziti laici, mentre gli arabi si trovano nella parte inferiore della stessa; altre categorie si posizionano tra questi due estremità. Ad esempio, un druso potrebbe situarsi nel terzo superiore della gerarchia del settore arabo, ma rimane nella parte inferiore se consideriamo la società israeliana nel suo insieme”, ha spiegato. “Benché presti servizio nell’esercito israeliano, un druso continuerà a rimanere nella parte inferiore perché non è ebreo. Ma per comprendere appieno la complessità del rapporto tra la comunità arabo-israeliana e lo Stato, è molto utile riflettere su un recente sondaggio condotto dalla sezione in Israele del Konrad Adenauer Stiftung, dal programma Konrad Adenauer per la cooperazione arabo-ebraica presso il Dayan Center dell’Università di Tel Aviv e da Keevoon, una società di ricerca, strategia e comunicazione (margine di errore dichiarato: 2.25%). “Il numero di persone che hanno accettato di rispondere positivamente alle domande sulle istituzioni statali è notevolmente elevato – spiega Itamar Radai, responsabile accademico del programma Adenauer e ricercatore presso il Dayan Center – Esso riflette una generale aspirazione ad essere più integrati e partecipi nella società israeliana”. Al contempo, va aggiunto che la percepita discriminazione è stata indicata dagli intervistati come uno dei principali motivi di preoccupazione, con il 47% di loro che dichiara di sentirsi “generalmente trattato in modo non eguale” in quanto cittadino arabo. La maggioranza degli intervistati denuncia anche una diseguale distribuzione delle risorse fiscali dello Stato. Secondo Michael Borchard, direttore israeliano della Fondazione Konrad Adenauer, uno dei risultati più significativi del sondaggio è la risposta che è stata data alla domanda: “Quale termine ti descrive meglio?”. La maggioranza (28%) ha risposto: “arabo israeliano”; l’11% ha risposto semplicemente “israeliano” e il 13% si è definito “cittadino arabo d’Israele”. Il 2% ha risposto “musulmano israeliano”. Solo il 15% si è definito semplicemente “palestinese”, mentre il 4% si è detto “palestinese in Israele”, il 3% “cittadino palestinese in Israele” e il 2% si è definito “palestinese israeliano”. L’8% degli intervistati ha preferito auto-identificarsi semplicemente come “musulmano”. In altri termini, stando al sondaggio il 56% dei cittadini arabi si definisce in un modo o nell’altro “israeliano”, il 24% si definisce in un modo o nell’altro “palestinese”. Solo il 23% di loro evita qualunque riferimento a Israele, mentre il 9% combina in qualche modo il termine “palestinese” con i termini “israeliano” o “in Israele”. “Il dato di fondo – afferma Borchard – è che si registra una maggiore identificazione con Israele che con un eventuale stato palestinese: vogliono essere riconosciuti nella loro identità specifica, ma non hanno alcun problema ad essere collegati a Israele”. L’indagine ha inoltre rilevato che i cittadini arabi israeliani sono più preoccupati per l’economia, la criminalità e l’eguaglianza interna che non per la questione palestinese. Alla domanda su quale problema li preoccupi maggiormente, il 22% ha citato la sicurezza personale e la criminalità, altrettanti hanno citato la percepita discriminazione, il 15% ha dichiarato l’economia e il lavoro, mentre solo il 13% ha citato la questione palestinese. Interpellato circa le implicazioni politiche dell’indagine, Brochard ha risposto così: “Israele dovrebbe fare di più per rispondere a questo atteggiamento piuttosto positivo e cercare di essere più inclusivo, senza far circolare le affermazioni di chi descrive questi cittadini come generalmente sleali o non affidabili giacché le dinamiche di questa comunità ci raccontano una cosa diversa”. Un racconto che non trova un lieto fine nella legge che fa degli arabi-israeliani qualcosa di peggio di un “popolo invisibile”. Un popolo cancellato. Per legge. Che si affianca al popolo sotto occupazione: quello palestinese.

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