L'ira di Netanyahu contro Biden: ha consentito una risoluzione Onu critica verso gli insediamenti israeliani
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L'ira di Netanyahu contro Biden: ha consentito una risoluzione Onu critica verso gli insediamenti israeliani

Netanyahu contro una dichiarazione non vincolante, approvata all'unanimità a Palazzo di Vetro, che recita: gli insediamenti israeliani sono un "ostacolo" alla pace.

L'ira di Netanyahu contro Biden: ha consentito una risoluzione Onu critica verso gli insediamenti israeliani
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

21 Febbraio 2023 - 14.15


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Certo, non ha il peso di una risoluzione. E’ “soltanto” una dichiarazione non vincolante. Ma basta e avanza per scatenare l’ira di Benjamin Netanyahu. Contro l’Onu e, soprattutto, contro gli Stati Uniti, rei di aver sostenuto quella dichiarazione.

Il fatto scatenante.

Non c’è stato il previsto voto al Consiglio di Sicurezza Onu su una risoluzione contro gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, scongiurato dopo una mediazione diplomatica americana. Si è invece passati a una dichiarazione non vincolante, approvata all’unanimità a Palazzo di Vetro, che recita: gli insediamenti israeliani sono un “ostacolo” alla pace.

“Le continue attività di insediamento di Israele mettono a rischio la fattibilità della soluzione dei due Stati”, afferma il Consiglio nella dichiarazione. Nel testo si esprime inoltre “la costernazione” per i piani del governo di estrema destra israeliano di legalizzare in modo retroattivo avamposti in Cisgiordania finora considerati illegali.

La bozza di risoluzione (vincolante) era stata preparata dagli Emirati Arabi Uniti: chiedeva a Israele di “cessare immediatamente e completamente tutte le attività di insediamento nei territori palestinesi occupati”. E ribadiva che “l’istituzione da parte di Israele di insediamenti nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est, non ha validità legale e costituisce una flagrante violazione del diritto internazionale”. 

La svolta è arrivata dopo una mediazione diplomatica Usa tra israeliani e palestinesi, svela Politico. Secondo quanto riferito da fonti diplomatiche dell’Onu, gli Emirati hanno ripiegato sulla stesura di una dichiarazione che i Quindici potessero accettare all’unanimità. “Dati i colloqui positivi tra le parti, stiamo lavorando a una bozza di dichiarazione che raccolga consensi”, si legge in una nota degli Emirati.

Per evitare il voto e un probabile veto Usa, fonti diplomatiche hanno spiegato che Washington è riuscita a convincere sia Israele che i palestinesi ad accettare in linea di principio un congelamento di sei mesi di qualsiasi azione unilaterale. Da parte israeliana, ciò significherebbe un impegno a non espandere gli insediamenti almeno fino ad agosto, mentre da parte palestinese a non perseguire azioni contro Israele presso le Nazioni Unite e altri organismi internazionali. 

L’ira di “Bibi”.

Durissima la reazione del Governo israeliano. La dichiarazione del Consiglio di sicurezza Onu che stabilisce che gli insediamenti di Israele in Cisgiordania “ostacolano” la pace “è unilaterale, nega il diritto degli ebrei di vivere nella loro patria storica e ignora gli attentati palestinesi a Gerusalemme”. Ad affermarlo è l’ufficio del premier israeliano Benyamin Netanyahu. “Quella dichiarazione non doveva essere pronunciata e gli Usa avrebbero dovuto non aderire”, ha aggiunto.

Ed è proprio l’ultima sottolineatura, “gli Usa avrebbero dovuto non aderire”, quella più significativa. Perché dà conto di una frizione sempre più evidente tra l’amministrazione Biden e il governo di ultradestra israeliano. Non solo. La reazione di Netanyahu mette in chiaro anche il crescente nervosismo del Primo ministro più longevo nella storia d’Israele. Da un alto, concordano gli analisti politici a Tel Aviv, Netanyahu deve tenere insieme una coalizione dove fortissima è l’impronta dei partiti ultranazionalisti, legati a filo doppio con l’ala più dura del movimento dei coloni. Dall’altro lato, però, Netanyahu sa bene che Israele non può fare a meno del sostegno degli Usa. 

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Un sostegno che mostra sempre più crepe. E che non investe più soltanto la Casa Bianca, il Pentagono o il Dipartimento di Stato ma anche le componenti più avanzate della diaspora ebraica statunitense.

Randi Weingarten è presidente della Federazione americana degli insegnanti, il più grande sindacato della federazione sindacale AFL-CIO, ed è membro del Consiglio consultivo internazionale dell’Associazione per i diritti civili di Israele (ACRI).


Stuart Appelbaum, è presidente del Retail, Wholesale and Department Store Union, è anche presidente del Jewish Labor Committee. Questo è il loro pensiero affidato a un articolo, a doppia firma, pubblicato da Haaretz: “
Scriviamo oggi sia come leader del movimento sindacale statunitense sia come ebrei che hanno a cuore e amano Israele. Osserviamo con crescente sgomento la crisi della democrazia in Israele.


Condividiamo le preoccupazioni delle centinaia di migliaia di manifestanti che hanno partecipato alle iniziative di protesta in  quest’ultimo mese e abbiamo voluto aggiungere il nostro punto di vista sui diritti dei lavoratori e sulla lotta per la democrazia in atto in Israele. I nostri sindacati hanno una storia di difesa dei lavoratori sia qui in America che nel resto del mondo. Tra di noi, rappresentiamo con orgoglio quasi 2 milioni di lavoratori americani. La fondazione storica del Jewish Labor Committee è stata quella di opporsi all’ascesa del nazismo in Germania e del totalitarismo in Europa più in generale, per salvare i leader sindacali, gli intellettuali, gli artisti e il maggior numero possibile di ebrei dagli orrori di quell’epoca. Entrambi i nostri sindacati sono impegnati a livello globale: sosteniamo i sindacati in tutto il mondo e in particolare in Polonia, Ungheria, Ucraina e altrove, mentre lottano nelle loro democrazie in declino. Crediamo che istruzione e democrazia vadano di pari passo; ci battiamo per dare voce a tutti. Per ognuno di noi, questa lotta in Israele è anche molto personale. Siamo stati accanto e dentro Israele in tempi di guerra e con la speranza della pace. Siamo orgogliosi della nostra collaborazione con i sindacati in Israele e in Palestina e vogliamo che una cosa sia perfettamente chiara. Non ci sono diritti dei lavoratori senza democrazia e non c’è democrazia senza diritti dei lavoratori. Si è scritto molto sulle minacce all’indipendenza giudiziaria. Ma la storia ci insegna che nel tempo i leader autocratici hanno cercato di emarginare i sindacati e di limitare il potere collettivo dei lavoratori. Questa minaccia non solo minerà ulteriormente i diritti dei palestinesi in Israele e nei Territori occupati. Avrà anche un impatto diretto sui diritti dei lavoratori in generale.


L’illusione che i sindacati possano collaborare con un governo autocratico mantenendo il loro potere indipendente è semplicemente questa: un’illusione. Non è mai successo in nessuna parte del mondo. L’agenda antidemocratica e discriminatoria che questo governo sta portando avanti è direttamente collegata all’attacco ai lavoratori. Il Ministro delle Finanze Smotrich ha già dichiarato pubblicamente di voler limitare il diritto di sciopero. Un flusso di leggi antioperaie sta già attraversando le commissioni governative. Nel mezzo dell’attacco al sistema giudiziario, Simcha Rothman, presidente del Comitato per la Legge e la Giustizia, sta guidando la carica: ha introdotto una legislazione per distruggere le norme sul diritto del lavoro.

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Il suo obiettivo è quello di svuotare qualsiasi protezione sindacale, limitando il diritto di sciopero e rendendo più difficile lo sciopero. Propone inoltre di limitare le ragioni per cui i lavoratori possono scioperare, e persino di legalizzare il licenziamento dei lavoratori senza preavviso per aver scioperato. L’attuale governo sta prendendo spunto dal libro dei leader aziendali conservatori degli Stati Uniti, che cercano di aumentare il loro potere riducendo il potere dei lavoratori di agire insieme nei sindacati. Lo fanno con le parole “scelta”, “negozi aperti” o “diritto al lavoro”, ma il significato è lo stesso. Si tratta di rendere difficile per i sindacati avere i fondi e gli strumenti necessari per contrattare e proteggere tutti i lavoratori di un determinato luogo di lavoro.
E non si tratta solo di questa proposta di legge, per quanto draconiana.


Una delle caratteristiche uniche della democrazia israeliana sono i suoi tribunali del lavoro. In qualsiasi controversia di lavoro o sciopero, quando il datore di lavoro presenta un’ordinanza restrittiva, è il Tribunale del Lavoro a decidere se lo sciopero è legale o meno. Tutto ciò che riguarda uno sciopero si basa sulle sentenze del Tribunale del lavoro. Immaginate chi controllerà questi tribunali se considerate i membri della coalizione di governo.


Mentre l’opinione pubblica si concentra sulle decisioni giudiziarie portate avanti dalla coalizione di governo, sarebbe straordinariamente negligente non fare luce sulle implicazioni di questi cambiamenti per i lavoratori, per l’uguaglianza tra ebrei e palestinesi in Israele e per la sua futura prosperità. Continueremo a impegnarci con i nostri amici e alleati in Israele per promuovere uno Stato giusto e sicuro. Se l’attuale governo riuscirà a mettere a tacere la voce dei lavoratori e a decimarne i diritti, i nostri sforzi non diminuiranno, ma senza dubbio diventerà sempre più difficile avere un impatto”.


Proteste, proteste, proteste…
“La Knesset ha approvato lunedì, nel primo dei tre turni obbligatori di votazione, le prime due disposizioni del colpo di Stato. Entrambi sono emendamenti alla Legge fondamentale sul sistema giudiziario. Una dà alla coalizione di governo il controllo sul Comitato per le nomine giudiziarie. L’altro vieta alla Corte Suprema, in qualità di Alta Corte di Giustizia, di annullare le leggi fondamentali.


La coalizione aveva innumerevoli buone ragioni e pretesti per scendere dal metaforico albero su cui si era arrampicata. Legioni di esperti legali hanno espresso riserve; centinaia di economisti israeliani e di tutto il mondo hanno messo in guardia sulle conseguenze disastrose del piano di indebolimento del sistema giudiziario. Il presidente Isaac Herzog ha offerto una scala; i funzionari statunitensi si sono espressi. I capi della difesa in pensione hanno lanciato l’allarme.

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Lunedì è stato l’ex principe del Likud Dan Meridor a rivolgersi al Primo Ministro Benjamin Netanyahu dal comizio fuori dalla Knesset, dicendo: “Potete ancora fermare tutto questo adesso”. Si è rivolto anche ad altri parlamentari del Likud: “Dove siete? È tutto incentrato sul leader? Non ci sono valori, morale e onestà?”. Ma nessuno gli ha dato retta. Altrettanto inutile è stato il colloquio del capo del servizio di sicurezza interno, Shin Bet,  Ronen Bar con alti esponenti della coalizione e dell’opposizione e il suo appello alla calma, sulla scia delle valutazioni dell’intelligence che indicano che le tensioni sociali di Israele mettono ora a rischio la stabilità dello Stato. La coalizione ha ascoltato tutto e ha continuato. La protesta di centinaia di migliaia di persone che sono scese in strada con bandiere israeliane, esprimendo dolore e apprensione, non ha avuto alcun effetto. Non ha avuto alcun effetto perché la coalizione è determinata a distruggere la democrazia israeliana e l’opposizione che incontra non fa altro che accendere la sua brama di distruzione. Mentre decine di migliaia di persone si sono radunate fuori dalla Knesset, Netanyahu – il cui processo, per una coincidenza simbolica, è ripreso lunedì – ha ignorato l’accordo sul conflitto di interessi che ha firmato e all’inizio della riunione del caucus della Knesset del Likud ha detto senza vergogna: “Oggi votiamo e domani spero che si apra la strada del dialogo”. A questo dobbiamo rispondere: Tempo scaduto, Netanyahu. La finestra di opportunità per il “dialogo” aperta da Herzog la settimana scorsa, nel suo ‘placante’ discorso alla nazione, si è chiusa clamorosamente di fronte al presidente, al capo del ramo giudiziario, il giudice della Corte Suprema Esther Hayut, e all’opinione pubblica israeliana. È successo quando la coalizione di bulldozer che Lei guida ha deciso di portare avanti il suo programma di distruzione e di far passare i primi articoli della “riforma” al primo turno di votazione.


Il voto di lunedì significa una sola cosa: I membri della coalizione non sono interessati al compromesso, quindi non ha senso fare inutili trattative. Non è “parlare” quando si ha una pistola puntata alla testa. È arrendersi. Gli oppositori del colpo di Stato non hanno altra alternativa se non quella di protestare: continuarlo, ampliarlo, rafforzarlo. Finché non capiranno”.

Così un editoriale di Haaretz. 

“Colpo di Stato”. Un’accusa durissima. E Biden non vuole essere ricordato come il presidente Usa che lo ha avallato.

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