A Roma cambiano governi e primi ministri ma in Libia nessuno dà retta all'Italia
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A Roma cambiano governi e primi ministri ma in Libia nessuno dà retta all'Italia

A Roma cambiano, governi, maggioranze, primi ministri, ma in Libia continuiamo a contare pressoché niente

A Roma cambiano governi e primi ministri ma in Libia nessuno dà retta all'Italia
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

1 Dicembre 2022 - 17.45


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Globalist lo ha documentato in una infinità di articoli, valorizzando i report delle più importanti organizzazioni umanitarie al mondo e delle Agenzie Onu più impegnate sul fronte dei rifugiati e dei conflitti che segnano il nostro tempo. Lo abbiamo fatto avvalendoci delle analisi di giornalisti che la Libia conoscono come le proprie tasche, le cui riflessioni sono sempre fondate su una esperienza diretta, su conoscenze maturate in anni di frequentazione del Paese nord africano e dell’area del Mediterraneo. Considerazioni che portano alla conclusione a cui siamo giunti da tempo. Sintetizzabile un po’ brutalmente in questo modo: a Roma cambiano, governi, maggioranze, primi ministri, ma in Libia continuiamo a contare pressoché niente. Alla faccia di improbabili piani Marshall per il Nord Africa, di inattuabili, per fortuna, blocchi navali e di memorandum scellerati, come quello d’intesa bilaterale con la Libia.

Il caos libico e l’ininfluenza italiana

Di grande interesse è l’articolo di Fabio Tonacci su Repubblica. Scrive Tonacci: “Chi comanda in Libia? Uno e centomila, dunque nessuno. La Libia è un rompicapo che si fa più complicato ogni giorno che passa. Un caotico teatro dell’assurdo, dove nuovi attori si aggiungono ai vecchi – il generale Haftar, il poliziotto-trafficante Bija – che sembravano finiti e invece non se ne sono mai andati. Ci sono due governi e sono entrambi deboli: quello di Tripoli del premier Dbeibah è scaduto a giugno 2021 e non riesce a indire nuove elezioni; quello di Tobruk, affidato a Bashagha, non è riconosciuto dalle Nazioni Unite. Le vittime sono sempre loro, i migranti, che fame, conflitti e cambiamenti climatici trascinano in Libia per cercare chi un lavoro, chi un passaggio verso l’Europa, chi una possibilità. All’inizio dell’anno erano 621 mila, adesso la stima dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni è stata ritoccata al rialzo, 668 mila, a cui aggiungere i 43 mila richiedenti asilo. Le partenze per l’Italia crescono a un tasso che nel 2023 ci riporterà indietro nel tempo alla stagione 2015-2016. La guardia costiera libica, accusata di violare i diritti umani eppure finanziata coi soldi dello Stato italiano in nome di un contestato memorandum che il governo Meloni ha tacitamente rinnovato per altri tre anni il 2 novembre scorso, continua a intercettare i profughi in mare (centomila dal 2017 ad oggi) e a riportarli in un Paese che ormai neppure il più convinto sovranista può definire “sicuro”. Anche perché tornato a essere preoccupante incubatore del terrorismo di matrice islamica, con varianti autoctone dell’Is e di Al Qaeda che si stanno riorganizzando a ridosso dei confini. In questo scenario, l’Italia si è autorelegata in un angolo: non ha più voce in capitolo nel Paese che fu di Gheddafi, né interlocutori affidabili, né uno straccio di piano strategico per il governo dei flussi. Prova ne è il rinnovo del memorandum, senza dibattito in Parlamento e senza idee. “L’instabilità politica della Libia non consente nemmeno di negoziare sull’assistenza umanitaria, che si scontra con enormi difficoltà di accesso al Paese e limiti nelle attività”, osserva Giorgia Linardi, responsabile affari umanitari di Medici Senza Frontiere-Libia. “Rinnovare il memorandum, che drena fondi destinati allo sviluppo di questa terra per trattenervi i migranti a ogni costo, è un errore”. In Cirenaica, formalmente area del governo Bashagha ma soggetta alle scorribande di gruppi paramilitari e di fatto sotto l’influenza dell’Egitto e della Russia, presente con almeno duemila mercenari della Brigata Wagner, i trafficanti stanno mettendo in mare barconi con 500-600 persone sopra. In Tripolitania dal 2019 non si muove foglia che Ankara non voglia, non foss’altro per la flotta di droni kamikaze di fabbricazione turca che permette a Dbeibah di respingere gli assalti armati alla capitale. La Turchia di Erdogan ha anche preso in gestione per 99 anni il porto di Misurata e ha firmato un ricco accordo energetico col governo. Nei cinque centri di detenzione ufficiali a Tripoli, gli unici cui hanno accesso le agenzie Onu e le ong come Msf, sono rinchiuse 2.700 persone. Il Direttorato per il contrasto all’immigrazione illegale del ministero dell’Interno li chiama centri di accoglienza, ma sono prigioni, dove tengono la gente in condizioni pietose. Iperaffollati, sporchi, con poca acqua e poco da mangiare. Li gestisce un signore di nome Mohamad al-Khoja, leader di una milizia, indagato da tre agenzie governative libiche per aver fatto sparire 570 milioni di dinari dal fondo destinato alle forniture di cibo per i migranti. I migranti dei centri di Tajoura e Tarik al Sikka lo accusano di torture, abusi, pestaggi e anche sfruttamento, perché li usa come muratori nel cantiere del centro commerciale del fratello e come camerieri nella propria villa. “Controlla tutto al-Khoja”, racconta chi ha lavorato con lui. “Occupa i cortili dei dormitori per addestrare i combattenti della sua milizia”. E questi sono i centri ufficiali, il nodo visibile di una vasta ragnatela occulta di campi illegali di cui niente si sa. Si va dalle prigioni inaccessibili dell’Ovest nei pressi di Zuwarah, Sabrata e Zawiya, gestite dal gruppo paramilitare Ssa (Stability support apparatus) con l’aiuto del trafficante Bija, il comandante della guardia costiera di Zawiya scarcerato nel 2021, ai centri dell’Est in mano alle milizie del generale Haftar, tornato protagonista sia in Cirenaica sia nel Fezzan. Nonostante la Commissione internazionale d’inchiesta abbia documentato violazioni inquadrabili come crimini di guerra, dal 2023 la cornice d’intervento dell’Onu cambierà e la Libia verrà trattata non più come contesto umanitario ma “di sviluppo”. “Nei documenti sulla nuova cornice le esigenze umanitarie sono definite come “residuali””, spiega Linardi di Msf. “I tempi non sono maturi per questo passaggio: temiamo una pericolosa restrizione dello spazio umanitario”. Al governo italiano non basterà legarsi a un ipotetico e miliardario “piano Marshall per l’Africa”, troppe volte evocato a Bruxelles e mai realizzato, per tornare a contare qualcosa in Libia. Serve piuttosto una visione, un disegno generale e strategico per l’intero Nord-Africa che oltre al Viminale coinvolga direttamente la presidenza del Consiglio. Anche solo trovare un interlocutore affidabile e credibile sull’altra sponda del Mediterraneo sarà un’impresa, perché il problema della Libia  – conclude Tonacci – non è il vuoto di potere, semmai il contrario: ci sono troppi poteri. E nessuno porta a Roma”.

Quel muro criminale

Ne scrivono su Avvenire Lorenzo Bagnoli e Fabio Papetti Irpi Media), con la collaborazione di Anonella Mautone). Da leggere per essere ancora più informati e, passateci il francesismo, incazzati. “Dal primo gennaio alla fine di settembre 2022 oltre 16mila migranti sono stati riportati indietro dalle forze marittime della Libia. Le «operazioni» sono state più di 160; in netto aumento rispetto al passato. La parola «operazione» in questo contesto può assumere due significati: salvataggio oppure intercettazione di un gommone di migranti. Per questi ultimi il finale è sempre lo stesso: il rientro in un centro di detenzione della Libia, dove subiscono abusi e torture, fino al prossimo tentativo di traversata. 

Al momento, per le stime ufficiali, sarebbero circa 3mila i migranti detenuti. Senza il contributo dell’Italia e di altri paesi europei, la Libia non avrebbe delle forze marittime in grado di svolgere queste operazioni. A dare maggiore impulso alla collaborazione Italia-Libia è stato il Memorandum of Understanding firmato con Tripoli nel febbraio 2017, che si rinnoverà automaticamente entro il 2 novembre per altri tre anni. Nel solco di questo accordo, l’Italia ha fornito almeno 12 navi e gestisce gli affidamenti delle gare per la loro manutenzione; fornisce equipaggiamenti, somministra corsi di formazione, guida il progetto per la creazione di un centro di coordinamento delle operazioni di salvataggio (in inglese Maritime rescue coordination center – Mrcc).

Le fonti di finanziamento per questi progetti sono sia italiane, sia europee e non le amministra un’unica cabina di regia. Il risultato è una spesa frammentata e poco trasparente, suddivisa su diverse stazioni appaltanti: Polizia, Guardia di Finanza, Marina Militare ed Invitalia, l’agenzia che ha tra le sue funzioni implementare i progetti europei. Da anni molte organizzazioni chiedono una diversa condivisione dei dati, alla luce delle ripetute violazioni dei diritti umani dei migranti e delle morti in mare. A dispetto della spesa, il tasso di mortalità del 2021 è stato del 4,7%, quello del 2017 era il 2,6%. Il dato indica la percentuale di persone annegate e disperse sul totale di chi è partito quell’anno. 

Dallo scorso anno ActionAid gestisce un osservatorio sulle spese per l’esternalizzazione delle frontiere, The Big Wall, il Grande Muro. Ha tracciato l’impegno di oltre un miliardo di euro (soldi italiani, a volte con l’aiuto dell’Ue) a partire dal 2015. Insieme a IrpiMedia, The Big Wall ha analizzato esattamente quanti e dove sono stati spesi questi finanziamenti nel Mediterraneo Centrale.

Il caos libico.

In Libia le forze marittime sono frammentate e contaminate dai gruppi armati di varia appartenenza. Ci sono formazioni che rispondono a signori della guerra per la maggior parte fedeli alla presidenza del Consiglio, quindi al premier Dbeibah. Poi ci sono le forze “ufficiali”, cioè la Guardia Costiera Libica (Gcl) e l’Amministrazione generale della sicurezza costiera (di cui Gacs è l’acronimo inglese), che sono affiliate al ministero della Difesa e al ministero dell’Interno di Tripoli. Anche queste due sono infiltrate da alcune milizie, come la brigata al-Nasr, considerata dalle Nazioni Unite un’organizzazione di trafficanti di esseri umani e contrabbando di gasolio.

La brigata è responsabile della Gcl di Zawiyah, ovest della Libia. Gli uomini di al-Nasr sono guardie e ladri allo stesso tempo, interessati alle forniture italiane per imporre il proprio potere in mare. Per loro e per altre forze marittime della Libia la promessa di effettuare salvataggi dei migranti è stata negli anni una moneta di scambio.

Il progetto Sibmmil.

La prima fase del Support to Integrated Border Management and Migration Management in Libya, acronimo Sibmmil, avrebbe dovuto concludersi nel 2020 ma solo nel corso del 2022 ha ottenuto alcuni dei risultati previsti. È uno dei principali mattoni del Grande Muro del Mediterraneo Centrale. Ha come obiettivi principali il rafforzamento sia delle capacità di salvataggio in mare, sia del controllo del confine marittimo. Tra il 2017 e il 2022, secondo la Ragioneria di Stato, l’Italia ha speso 27,2 milioni di euro di fondi europei dedicati a questo progetto. La dotazione prevista è di circa 44,5 milioni di euro, di cui l’Italia ha fornito circa 2 milioni. Il nostro ministero dell’Interno ne è l’ente attuatore. Tra i beneficiari del progetto, c’è anche l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), agenzia affiliata alle Nazioni Unite a cui spetta, tra le varie mansioni, «l’effettiva verifica dei pubblici ufficiali libici che partecipano all’addestramento affinché siano esclusi coloro che hanno commesso abusi e violazioni dei diritti umani». La strategia sembra rispondere alle rivelazioni del 2019 di Avvenire: tra i guardacoste che arrivarono in Italia per la formazione c’era anche Adel Rahman al-Milad detto Bija, esponente del clan al-Nasr, accusato di traffico di migranti e contrabbando di gasolio. Il processo di verifica dovrebbe evitare che l’incidente si ripeta. Dei 27,2 milioni di euro spesi dall’Italia è stato possibile tracciarne oltre quattro-quinti, circa 20 milioni, tra appalti già completati e altri in corso di assegnazione. Le principali voci di spesa sono 8,3 milioni per nuovi mezzi marini (20 barche veloci di diverse lunghezze); 3,4 per mezzi terrestri (30 fuoristrada, 14 ambulanze e dieci minibus); 5,7 per ricambi e manutenzione degli assetti navali; un milione in attività di addestramento e un milione per 14 container (dieci dei quali arrivati a Tripoli lo scorso dicembre). Il bando di gara prevede che uno di questi diventi la sede dell’Mrcc, il centro di coordinamento dei salvataggi in mare, una delle forniture fondamentali per rendere le forze marittime libiche indipendenti. Secondo il ministro della Difesa del governo uscente Guerini, «dal 3 luglio 2020 l’attività è condotta in piena autonomia dalla marina libica presso proprie infrastrutture a terra e senza coinvolgimento alcuno del personale della Difesa italiano» (7 luglio 2021, Commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato). Fonti dalla Libia smentiscono, però, questa ricostruzione.

Il ruolo di coordinamento.

A parlare è una persona che fino al 2021 è stata dentro il centro di coordinamento dei salvataggi a Tripoli e che ancora oggi conosce l’intera catena di comando. Parla in forma anonima, perché non è autorizzata a rilasciare interviste. Il container con il centro di coordinamento previsto dal progetto Sibmmil sarebbe bloccato al porto commerciale a causa di un braccio di ferro tra Marina militare e Guardia costiera, le due forze che rispondono al ministero della Difesa. La Gcl vuole maggiore autonomia nella gestione dei salvataggi all’interno di una base a Tajoura, a est della capitale. Oggi il coordinamento funziona da un appartamento nel centro della città. Le indicazioni sulle navi in difficoltà arrivano ancora per lo più dall’Italia (in misura molto minore da Malta e Spagna). Quando l’europarlamentare della Die Linke Özlem Demirel ha chiesto queste stesse informazioni, la Commissione ha risposto, ad aprile, che «al momento stiamo discutendo con le autorità libiche per identificare il luogo più adatto per l’Mrcc» e non ha fornito indicazioni su dove si trova l’ufficio. Insieme al container sono arrivati in Libia anche apparecchiature radio e radar. La Marina Militare e le aziende italiane coinvolte nella fornitura hanno confermato l’invio dei materiali ma non commentato l’implementazione del progetto Sibmmil.

Così il report.

La torta petrolifera

Globalist ne ha scritto a più riprese. Da anni.  Perché da almeno due anni ciò che sta davvero accadendo in Libia è la “Grande spartizione” tra il Sultano e lo Zar, al secolo Recep Tayyp Erdogan e Vladimir Putin.  Russi e turchi sono pronti a spartirsi la Libia e a esercitare la loro crescente influenza nel Mediterraneo Occidentale, scrivevamo due anni fa.  E’ questo che dicono le manovre aeronavali turche a largo delle coste libiche e lo schieramento dei jet russi nella base di Jufra che, secondo alcuni, hanno parzialmente sostituito i mercenari della Wagner. Ankara vuole insediarsi in Tripolitania, Mosca punta a farlo in Cirenaica. Dagli equilibri che si raggiungeranno dipende l’assetto della Libia di domani che, ancora una volta, non si deciderà né a Tripoli né a Bengasi, prosegue il documento. Da tempo infatti quella in Libia si è trasformata in una guerra per procura dove sono gli attori esterni, regionali, e globali, ha determinarne gli scenari e i possibili compromessi.

Un progetto di spartizione della Libia che, secondo indiscrezioni, sarebbe partito allora e finalizzato in un vertice segreto tenutosi a Malta a fine ottobre 2020. La posta in gioco non è solo il controllo degli idrocarburi gestiti dalla Noc (National Oil Corporation) con importanti contratti all’Eni, è in gioco, ma l’intero asse mediterraneo.

Il punto è che undici anni dopo quella sciagurata guerra voluta dalla Francia e subita dall’Italia, non si vuol prendere atto che la Libia del post-Gheddafi è uno Stato fallito, dove a farla da padroni, quelli veri, sono signori della guerra, trafficanti di esseri umani, banditi di vario genere e caratura, improbabili “tecnici” spacciati per leader politici, signor nessuno come era l’ormai dimenticato Fayez al-Sarraj. Il tutto in un Paese in cui operano, direttamente o per procura, attori esterni che ambiscono a mettere le mani sulla torta petrolifera libica. L’elenco è lunghissimo. Solo per citarne i più attivi: Russia, Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar. E un po’, ma nemmeno tanto, defilata, la Francia. La verità che si cerca di nascondere è che l’obiettivo praticato da molti di questi attori esterni è quello della spartizione territoriale della Libia, e delle sue ricchezze di gas e petrolio. 

Per riassumere: in Libia sono ancora presenti, stima in difetto, almeno 180 tra milizie e tribù in armi. Sul campo vi sono ancora diverse migliaia di mercenari di tutte le risme, per non parlare dei gruppi criminali che traffico in esseri umani e che controllano, in combutta con le autorità locali, intere aree, soprattutto costiere, del Paese.  

Pensare di superare il caos armato libico con finanziamenti a pioggia, senza uno straccio di strategia, non è solo una fesseria politica. E’ una mossa pericolosa. E poi ci chiediamo perché in Libia nessuno ci si fila.

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