In Danimarca "Amleto" si fa europeista. Anche sulla difesa
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In Danimarca "Amleto" si fa europeista. Anche sulla difesa

Copenaghen guarda a Bruxelles più che a Washington. Non in alternativa, perché identico è l’ancoraggio all’Occidente, ma nelle priorità. 

In Danimarca "Amleto" si fa europeista. Anche sulla difesa
La premier danese, Mette Frederiksen
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

2 Giugno 2022 - 17.14


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“Amleto” si fa europeista. E punta decisamente sulla difesa comune. E’ bene rimarcarlo a chiare lettere: la scelta compiuta dai danesi non si muove sulla falsariga di quelle assunte di recente dai loro vicini svedesi e finlandesi. E non perché Copenaghen, a differenza di Stoccolma e Helsinki, nella Nato già c’è. 

Una scelta europeista

Questa è la superficie formale. Perché la sostanza politica è altra. Copenaghen guarda a Bruxelles più che a Washington. Non in alternativa, perché identico è l’ancoraggio all’Occidente, ma nelle priorità. 

Con il 66,9 per cento dei voti a favore al referendum che si è tenuto mercoledì 1 giugno, la Danimarca ha deciso di aderire alla difesa comune dell’Unione Europea. La consultazione era stata indetta poco dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, in una fase in cui diversi paesi del nord Europea avevano iniziato a rivedere le proprie politiche di difesa e talvolta di neutralità.

L’esito del referendum farà sì  che sia rimossa una clausola dai trattati che regolano l’adesione all’Unione Europea, che negli ultimi 30 anni aveva permesso alla Danimarca di non partecipare alle iniziative europee per la difesa e la sicurezza comuni. La clausola derivava dalla rinuncia a prendere parte a decisioni in alcuni ambiti dopo che nel 1992 con un referendum era stata respinta l’approvazione del trattato di Maastricht, uno dei pilastri dell’Unione Europea. Il trattato fu approvato solo l’anno seguente dalla Danimarca, in seguito all’ottenimento di alcune importanti esenzioni.

Il governo danese guidato dai Socialdemocratici (centrosinistra) aveva sostenuto la rimozione della clausola e la conseguente adesione alla difesa comune europea. Con la vittoria del «Sì», la Danimarca potrà iniziare a partecipare alle esercitazioni congiunte degli eserciti dell’Unione Europea, alle missioni militari europee e alle decisioni su eventuali nuovi sviluppi e investimenti nella difesa. Finora la Danimarca e Malta erano gli unici due Paesi a non partecipare alle decisioni in questi ambiti.

La Danimarca è membro dell’Unione dal 1973, ma ha frenato il trasferimento di più potere a Bruxelles nel 1992, quando il 50,7 percento dei danesi bocciò il Trattato di Maastricht, con cui venne istituita l’Ue. Ma siccome quel trattato, per entrare in vigore, doveva essere ratificato da tutti gli Stati membri, per convincere i danesi ad approvarlo, Copenaghen negoziò con Bruxelles una serie di esenzioni e alla fine, l’anno successivo, i danesi lo approvarono. Da allora, la Danimarca è rimasta fuori dalla moneta unica europea (respinta in un referendum nel 2000), così come dalle politiche comuni in materia di Giustizia, Affari interni e Difesa.  

Spiega bene Eleonora Mureddu su EuropaToday: “Grazie al sì la nazione potrà partecipare alle operazioni militari congiunte e cooperare allo sviluppo e all’acquisizione di capacità di difesa comuni, abbandonando la scelta, presa 30 anni, di tirarsene fuori grazie all’accordo di Edimburgo del 1992, che si è trasformato in un protocollo del trattato di Amsterdam in cui si metteva netto su bianco la deroga per Copenaghen.

L’opt-out, o clausola di esenzione, è un termine usato nel diritto dell’UE per riferirsi alla possibilità per uno Stato membro di non partecipare a certe politiche comuni e quindi di non essere vincolato dalle relative regole. La Danimarca ha ottenuto la possibilità di esentarsi dalla politica comune di Difesa dopo che i suoi cittadini, tramite un referendum tenutosi nel giugno del 1992, decisero di rifiutare il trattato di Maastricht. La decisione fu un colpo al processo di integrazione dell’UE poiché, come altri trattati europei, Maastricht poteva entrare in vigore solo con la ratifica di tutti gli Stati membri, così, per evitare di mandare tutto in fumo, l’UE decise di concedere alla Danimarca clausole di esclusione in quattro aree di sovranità: la moneta unica, la giustizia, la difesa e la cittadinanza europea. Dopo aver ottenuto questi opt-out, i cittadini accettarono il trattato in un secondo referendum tenutosi nel 1993. Nel 2011 vi era stato un timido tentativo, da parte del governo dell’allora premier Elle Thorning-Schmidt, di indire un referendum per porre fine all’opzione del ritiro, che si sarebbe dovuto tenere nel 2012 in seguito alla presidenza danese del Consiglio dell’UE, ma non si è mai tenuto a causa di troppa “ansia e incertezza” tra la popolazione. A questo giro però – rimarca ancora Mureddu – la crisi in Ucraina ha obbligato il Paese a rivedere le sue posizioni in materia di difesa. Finora la Danimarca era l’unico Paese dell’UE a non partecipare al fondo comune per l’acquisto di armi e altre attrezzature militari per l’Ucraina, con una spesa già stimata in 2 miliardi di euro”.

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Bruxelles plaude

“La Nato rimarrà ovviamente il nostro strumento più importante, ma l’Unione europea ci offre un secondo strumento per garantire la nostra difesa a Est”, ha detto Mogens Jensen, portavoce per la Difesa dei socialdemocratici al governo.

 “Accolgo con favore il forte messaggio di impegno per la nostra sicurezza comune inviato oggi dal popolo danese”, ha scritto su Twitter la presidente della commissione Ue, Ursula von der Leyen. “L’esperienza della Danimarca in materia di difesa è molto apprezzata. Sono convinta che sia la Danimarca che l’Ue trarranno vantaggio da questa decisione. Siamo più forti insieme”, ha sottolineato ancora von der Leyen.

Sugli stessi toni il commento della premier danese, Mette Frederiksen: “Questa sera (ieri, ndr) a Danimarca ha inviato un segnale importante, ai nostri alleati in Europa e nella Nato e anche al presidente Putin” ha detto la “Ministra di Stato” della Danimarca (così viene indicato il premier a Copenaghen), aggiungendo: “Dimostriamo che quando Putin invade un Paese libero e minaccia la stabilità in Europa noi altri siamo uniti”.

Obiettivo: Difesa comune

La scelta danese dà ancora più slancio ad una linea “europeista”, nel campo della politica estera e di difesa, ben tratteggiata da Giuliano Pisapia, Vicepresidente della Commissione Affari costituzionali del Parlamento Europeo, in una lettera al direttore di Avvenire, pubblicata il 30 aprile. 

Scrive l’europarlamentare, già sindaco di Milano: “Caro direttore, 

di Difesa comune europea tutti ne parlano, molti la invocano, ma nei fatti nessuno rinuncia alla propria autonomia politica e militare pur nella consapevolezza che se non si inizia adesso a realizzarla, forte è il rischio, se non la certezza, che non si farà mai. Ecco perché è giusto dire: adesso o mai più. 

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A conferma che non sono stati fatti passi in avanti significativi negli ultimi decenni è sufficiente ricordare che il prossimo 27 maggio saranno esattamente settant’anni dalla firma del Trattato istitutivo della Comunità Europea di Difesa; percorso iniziato con tante aspettative ma che si è arenato due anni dopo, il 30 agosto 1954, con la bocciatura dell’accordo da parte del Parlamento francese. L’europeista e politico belga Paul-Henry Spaak, più volte ministro degli Esteri e primo ministro, nelle sue memorie scrisse che «il ritiro spettacolare dell’idea di integrazione non può essere interpretata come un fallimento definitivo…». Inutile dire che, almeno fino a oggi, i fatti hanno dato torto al pensiero di Spaak. La tragedia provocata dall’invasione russa dell’Ucraina e il successo di Macron alle recenti elezioni in Francia hanno però avuto l’effetto di rendere possibile un’unità di intenti tra i Paesi Ue che in passato non si era mai vista. La «Bussola strategica» approvata dal Consiglio Europeo ne è un esempio. L’obiettivo stabilito per i prossimi otto anni è la creazione di una «cultura strategica comune» tesa a rafforzare la politica di sicurezza e difesa comune della Ue e a porre fine alle rivalità tra gli Stati membri in materia di difesa. Una Ue più forte e più efficace in materia di sicurezza e difesa può contribuire non solo alla sicurezza continentale ma anche a quella transatlantica e globale. Con l’obiettivo non di spendere di più, ma di spendere meglio, evitando le attuali spese inutili, duplicazioni decisionali e contrapposizioni tra singoli Paesi. 

La «Bussola strategica» indica diversi obiettivi tra cui una forte e rapida capacità di dispiegamento di forze Ue in caso di una crisi internazionale, il regolare svolgimento di esercitazioni, il potenziamento delle capacità di analisi dell’Intelligence e lo sviluppo di strumenti comuni per combattere la manipolazione e le ‘fake news’ provenienti da potenze straniere. Alcune di queste iniziative erano già presenti nell’accordo di settant’anni fa e questo dimostra anche la lungimiranza di figure con Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli che si impegnarono per la definizione del Trattato che consideravano un importante strumento per uno sviluppo autenticamente federalista dell’Europa. Il Trattato Ced del 1952 indicava come principale elemento politico il conferimento da parte di tutti i Paesi firmatari di una po’ della loro sovranità in materia di difesa a beneficio di una Alta Autorità chiamata Commissariato. È facile cogliere i germogli di una vera e autentica unità politica tra i Paesi firmatari con un obiettivo veramente sovranazionale; forse anche per questo il Parlamento francese ne bloccò l’attuazione. Sappiamo come nei decenni successivi il cammino d’integrazione europea si sia concentrato principalmente sugli aspetti legati all’economia. Ma senza integrazione politica l’integrazione economica manca di una componente fondamentale. La stessa politica di difesa deve essere accompagnata da un altrettanto forte impegno su un’unica e vera politica estera comune. 

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Anche per questo condivido e sottoscrivo l’appello perché venga istituito un Servizio civile obbligatorio europeo contenuto nella lettera aperta ai vertici Ue e italiani promossa dalle firmatarie di ‘Se non ora quando-Libere’ che proprio Avvenire ha pubblicato. I tempi sono maturi perché diventi realtà anche quella «’seconda gamba’ di difesa civile e nonviolenta», come lei l’ha definita, direttore Tarquinio, che affianchi quella di difesa militare. 

Ne abbiamo bisogno per far crescere un autentico spirito di cittadinanza europea che veda affiancati diritti e doveri. Tra i giovani, ma non solo tra i giovani, emerge sempre di più la richiesta di nuovi strumenti per far maturare, e rafforzare, l’appartenenza all’Unione Europea. 

Per far questo è importante essere innovativi ma anche non dimenticare le lezioni dei padri fondatori dell’Europa recuperando quanto di buono prevedevano sia il Trattato del 1952 sia le proposte e le riflessioni maturate successivamente come, ad esempio, proprio il Servizio civile europeo. Dobbiamo avere il coraggio di rendere concreta quella visione che guarda a un futuro comune di pace e sicurezza”.

Così Pisapia.

Interrogativi irrisolti

 Quello della difesa comune europea  è uno dei pilastri mai realizzati della costruzione europea. “Costruire le forze armate vuol dire morire, perché in guerra, e questo non è chiarissimo attraverso i videogiochi, ma si muore – annota Diego Fabbri, analista di punta di Limes – .  E si muore per qualcun altro solo per sentimento. Un lituano che muore per uno spagnolo non esiste. Un italiano medio che vuole morire per un finlandese io non l’ho mai visto. Si ha la sensazione che fare le forze armate voglia dire andare a fare operazioni di pace in cui si spara come nei videogiochi e poi quando ci si trova in difficoltà ci si comunica in inglese. La vita reale non è questa. La nazione non si costruisce in questa maniera, è puro sentimento. Spesso il sentimento viene dopo l’imposizione di qualcuno su qualcun altro. Tutte le nazioni sono nate così, c’è un nucleo centrale che si impone agli altri. E poi le forze armate europee chi le comanda? Chi ci sta a essere comandato da un’altra nazionalità davanti a persone che ti sparano?”. 

La contrarietà americana all’esercito unico europeo 

A contrastare la realizzazione di un esercito unico europeo anche gli interessi degli Stati Uniti. “Gli americani non vogliono in nessun modo un esercito europeo a meno che non si voglia fare in una forma cosmetica in cui lo mandiamo a fare le parate, diamo le bandierine – conclude Fabbri -. E poi quando facciamo la guerra facciamo le cose serie, e lo facciamo scomparire. Altrimenti dobbiamo fare guerra agli americani. Se si dovessero fare forze armate europee reali bisogna fare la guerra agli americani. Dunque in bocca al lupo”.

Le considerazioni di Fabbri datano settembre 2021. Erano i giorni della “fuga” dell’Occidente dall’Afghanistan. Nove mesi dopo, queste considerazioni calzano a pennello sullo scenario ucraino. E sulle scelte che l’Europa è chiamata a compiere. Anche sulla difesa comune. 

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