Altro che Ucraina. La partita della vita per Biden si gioca a Oriente: a Taiwan
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Altro che Ucraina. La partita della vita per Biden si gioca a Oriente: a Taiwan

A rischio di sembrare prematuramente drammatico, il viaggio in Asia di Biden potrebbe costituire, col senno di poi, un punto di inflessione nella politica estera degli Stati Uniti, plasmando la politica e la sicurezza globale.

Altro che Ucraina. La partita della vita per Biden si gioca a Oriente: a Taiwan
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

24 Maggio 2022 - 14.10


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Lo abbiamo scritto e documentato più volte, avvalendosi dei più accreditati analisti internazionali e di profondi conoscitori del “pianeta Usa”: le uscite di Joe Biden in politica estera tutto sono meno che gaffe. Dall’Ucraina a Taiwan, le considerazioni di cui si è reso protagonista, che potrebbero apparire fuori dalle righe, delineano un profilo molto netto e aggressivo di quel “America is back” che sta a Biden come “American first” era stato per Trump.

L’era della Cina

Che per gli inquini della Casa Bianca dell’ultimo ventennio il “Grande nemico” fosse molto più il Dragone cinese che l’Orso russo era cosa assodata. Già con Obama l’America guardava a Oriente come l’area del pianeta in cui si sarebbe giocata la partita strategica, epocale, nella definizione dei nuovi equilibri di potenza. Oriente, dunque la Cina.

Biden ha reso più esplicita questa visione geopolitica. Esplicita e “muscolare”. Di grande interesse a tal proposito è l’analisi di una delle firme più autorevoli del giornalismo israeliano: Alon Pinkas. Scrive Pinkas su Haaretz: “Dopo un incontro con il primo ministro giapponese Fumio Kishida a Tokyo lunedì scorso, poco dopo essere stato ospitato dall’imperatore Naruhito, al presidente degli Stati Uniti Joe Biden è stato chiesto se sarebbe disposto a “essere coinvolto militarmente per difendere Taiwan, se necessario”.

Sì, ha risposto Biden, senza peli sulla lingua e in modo inequivocabile, ribadendo la sua dichiarazione dell’ottobre 2021 che ha scatenato una frenesia nell’ecosistema della politica estera di Washington. “Davvero?”, ha chiesto il giornalista. “È questo l’impegno che abbiamo preso”, ha affermato Biden con sicurezza, discostandosi nettamente dalla politica decennale di “ambiguità strategica” dell’America nei confronti di Taiwan.

Ma non si trattava solo di Taiwan. La replica del presidente non è altro che l’enunciazione ufficiale e il lancio di una nuova era nella politica estera degli Stati Uniti. L’era della Cina. È stata una dichiarazione istruttiva ed eloquente che racchiude la strategia indo-pacifica degli Stati Uniti e la loro politica China-first.

A rischio di sembrare prematuramente drammatico, il viaggio in Asia di Biden potrebbe costituire, col senno di poi, un punto di inflessione nella politica estera degli Stati Uniti, plasmando la politica e la sicurezza globale in un modo che non si vedeva dalla fine della Guerra Fredda.

Il contrasto con l’Ucraina è stato sorprendente. Gli Stati Uniti non hanno mai assunto un impegno di questo tipo nei confronti dell’Ucraina, apparentemente perché l’Ucraina non è un membro della Nato e non esiste un’alleanza di difesa tra Kiev e Washington che richieda o inneschi un coinvolgimento militare attivo degli Stati Uniti. Tuttavia, non esiste nemmeno un patto di questo tipo tra gli Stati Uniti e Taiwan, il che evidenzia ulteriormente la portata dello spostamento di enfasi nella politica statunitense.

Collegare la crisi ucraina alla nuova politica americana incentrata sulla Cina sembrava inizialmente un puzzle geopolitico sfocato. Ma poi, con la gestione sconsiderata e calamitosa del presidente russo Vladimir Putin, è arrivato il momento dell’eureka: l’Ucraina non solo non è palesemente una distrazione dalla politica e dall’orientamento degli Stati Uniti verso l’Asia, ma è fondamentale per il suo successo. L’Ucraina non solo funge da modello per i Paesi asiatici che temono la Cina. L’Ucraina non è solo un modello per i Paesi asiatici preoccupati dalla Cina, ma pone anche la Cina in una situazione strategica difficile per quanto riguarda l’alleanza con la Russia, la lascia isolata e aumenta la fiducia dei Paesi dell’Asia orientale e sudorientale che osservano la coesione della Nato e la risolutezza dell’America, a scapito della Cina.

I tre presidenti americani che si sono succeduti – George W. Bush, Barack Obama e Donald Trump – hanno giurato e si sono impegnati in una nuova svolta politica, individuando nella Cina il principale concorrente, rivale e, in alcuni scenari e circostanze avverse, possibile nemico dell’America. Tutti e tre sono stati distratti da questioni e crisi diverse o non sono riusciti a formulare una politica coerente nei confronti della Cina, ciascuno per ragioni distinte e peculiari. Sin dal primo giorno della sua amministrazione, Biden ha cercato di trasformare il concetto di “pivot to Asia” in una politica estera graduale ma dettagliata, attuabile e realizzabile.

Non è stato il primo presidente a percepire la Cina come la più grande sfida dell’America nei prossimi decenni. Ma Biden è stato certamente il primo a elaborare una politica appropriata, a focalizzare il pensiero politico intellettuale, a ridefinire e ridefinire le priorità della difesa e degli interessi economici, a spostare le risorse e a impegnare il capitale politico.

La sua politica estera è nata da una lettura strategica chiara e concentrica del posto dell’America nel mondo, nell’area del Pacifico e nei confronti della Cina. Si trattava di una superpotenza economicamente in ascesa – nonostante gli attuali gravi problemi economici della Cina – che stava espandendo il proprio raggio d’azione attraverso una strategia ambiziosa (la Belt and Road Initiative), intenzionata a flettere i muscoli diplomatici ed eventualmente militari, rappresentando una sfida tangibile, geograficamente ampia, multidimensionale e minacciosa.

Basta unire i puntini degli ultimi 18 mesi, da quando Biden ha assunto l’incarico: il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan, il graduale disimpegno dal Medio Oriente, gli impegni di sicurezza nei confronti della Corea del Sud, del Giappone e di Taiwan, la convocazione del vertice dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico a Washington, il rilancio del Quadrilatero – abbreviazione di Quadrilateral Security Dialogue, ma meglio definito come una nascente alleanza tra Stati Uniti, India, Giappone e Australia – e l’avvio dell’Aukus: una nuova alleanza di difesa tra Australia, Gran Bretagna e Stati Uniti.

Qualche anno fa, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi aveva descritto il Quad come nient’altro che “schiuma del mare” (here now, gone soon). Ora, però, con la convocazione da parte di Biden di un vertice del Quad a Tokyo, martedì, come punto culminante del suo viaggio in Asia, Pechino sta schiumando dalla bocca per il Quad, descrivendolo come un grande pericolo per la Cina e per la regione – e, vittima inevitabile di queste lagne, la “stabilità”.

Il Quad è stato riacceso nel 2017 dopo una pausa di dieci anni in cui l’Australia ha perseguito un percorso semi-indipendente che esplorava la possibilità di forgiare un rapporto migliore con una Cina economicamente ascendente ed espansiva. Una volta che l’Australia ha concluso che si trattava di un esercizio inutile e che, contemporaneamente, la Cina stava esplorando un programma più assertivo e aggressivo in tutta l’Asia orientale e centrale, nel Pacifico meridionale e fino all’Africa e all’Europa, il Quad è rinato.

Gli Stati Uniti descrivono ufficialmente il Quad come “un primo raggruppamento regionale nell’Indo-Pacifico”. Ma in effetti rappresenta – e può potenzialmente trasformarsi in – qualcosa di molto più grande, più ampio e più muscoloso. Potrebbe diventare, come dice la Cina, “una NATO asiatica” – un termine che assume un significato e una dimensione completamente nuovi dopo l’invasione russa dell’Ucraina.

Finora, il Quad ha evitato in larga misura le grandi questioni di sicurezza, tenendo conto dei diversi interessi e delle inclinazioni tradizionali dei vari Paesi – da ultimo la crisi ucraina, dove Giappone e Australia si sono schierati con gli Stati Uniti, mentre l’India ha mantenuto i suoi legami tradizionali con la Russia, ma ha mantenuto i dialoghi e le consultazioni del Quad. Il Quad si è invece concentrato sul cambiamento climatico, sulla pandemia Covid, sulla salute, sulla tecnologia e sulla sicurezza informatica.

L’amministrazione Biden ha riattivato il partenariato e si è impegnata ad ampliare la cooperazione in materia di sicurezza. Ha istituito un incontro annuale dei leader e riunioni dei ministri della Difesa e degli Esteri. È stata inoltre istituita una cooperazione tra i quattro Paesi a livello di agenzie, tra cui il Forum strategico di intelligence del Quadrilatero con i capi dei servizi di sicurezza dei rispettivi membri e un’esercitazione navale annuale.

Dopo il rilancio del Quadrilatero, gli Stati Uniti hanno avviato l’Aukus, il partenariato di sicurezza trilaterale con Gran Bretagna e Australia che prevede anche l’armamento della marina australiana con sottomarini a propulsione nucleare. L’Aukus può basare gran parte della sua intelligence operativa su Five Eyes, un’alleanza per la condivisione dei segnali di intelligence che comprende Australia, Canada, Nuova Zelanda, Gran Bretagna e Stati Uniti.

La Cina, irritata, vede nel Quadrato l’idea degli americani di “coalizzarsi” nella regione Asia-Pacifico e di “provocare il confronto”. Ciò che preoccupa maggiormente la Cina è che gli Stati Uniti stiano gettando le basi per modellare il Quad dopo la Nato, in particolare nel contesto della nuova e migliorata Nato che sta emergendo dalla crisi ucraina.

Ciò che infastidisce particolarmente la Cina è il fatto che l’India faccia parte di queste fondamenta. Le dimensioni dell’India, i suoi confini con la Cina, la sua tendenza ad allontanarsi dalla Russia e ad avvicinarsi agli Stati Uniti rappresenterebbero una potenziale minaccia per la Cina che, con il dovuto rispetto per le sue dimensioni e la sua popolazione, dal punto di vista geopolitico non ha sostanzialmente alleati, certamente non potenti.

C’era la Russia, ma poi è arrivata l’invasione dell’Ucraina. Nella strategia cinese, la Russia era un alleato minore ma essenziale per bilanciare ed eventualmente sfidare l’ordine mondiale dominato dagli Stati Uniti. D’altra parte, la vasta economia cinese dipende fortemente dalle economie, dai mercati e dalle istituzioni finanziarie occidentali.

Così, il presidente Xi Jinping ha pensato di poter emulare la politica del Terzo Fronte di Mao Zedong degli anni ’60, quando Mao riuscì ad alienarsi sia gli Stati Uniti che l’Unione Sovietica in un periodo in cui la Cina era ben lontana dall’essere una superpotenza. Ora che è una superpotenza auto-percepita, ha bisogno di un atto di equilibrio, eppure Putin si è trasformato da risorsa a passività.

Con l’India che gioca un ruolo più ampio nel Quadrilatero, la situazione strategica in cui si trova la Cina, causata dalla Russia, si aggrava: Xi non può appoggiare Putin, ma non può nemmeno dissociarsi da lui. Questo paradosso è al centro del pensiero di Biden e della sua attuale visita.

L’attuale retorica e politica ufficiale della Cina è quasi grottescamente antiamericana. La guerra in Ucraina, il Covid-19, la rivolta di Hong Kong, la minoranza uigura, i tibetani, l’inquinamento della gioventù cinese con la cultura decadente: secondo la Cina, sono tutte colpe degli Stati Uniti. La retorica antiamericana nasconde a malapena la questione: La Cina si rende conto che, per quanto possa pensare di essere forte, è stata messa alle strette dagli Stati Uniti e dai suoi alleati – e tutto questo perché Xi si è legato alla Russia, ignorando i consigli contrari.

Negli Stati Uniti, la percezione è stata speculare: se la Russia avrà successo in Ucraina, la Cina si sentirà più forte e diventerà più assertiva. Se la Russia sarà sconfitta e la Nato rafforzata, l’Asia guarderà con favore all’America e la Cina dovrà ricalibrarsi”.

Ci saranno distrazioni. Ci saranno crisi altrove che richiederanno tempo ed energia. Ci saranno critiche sui meriti della sua politica cinese. Ma una cosa sembra chiara: questa settimana, in Asia, Joe Biden ha guidato la nave americana in una nuova direzione”. Così Pinkas.

Laboratorio cinese

L’invasione dell’Ucraina da parte di Putin è un laboratorio per studiare le reazioni occidentali, un modo per capire cosa dovrà aspettarsi la Cina quando deciderà di invadere Taiwan. A sostenerlo, in un’intervista al Corriere della Sera, è Ai Weiwei. artista e attivista per i diritti umani cinese.  Pechino continua a non definire quanto sta succedendo in Ucraina con le parole “guerra” o “invasione”.

“Una logica c’è ed è legata alla questione di Hong Kong e alla sovranità di Taiwan, che per Pechino resta una questione irrisolta. Una visione che la Cina proietta sulle rivendicazioni della Russia su pezzi di Ucraina, proprio come Pechino rivendica sia Taiwan sia il diritto di usare la forza quando necessario. Taiwan, da settant’anni di fatto un Paese indipendente, rischia una guerra mossa dalla Cina che Pechino non considererebbe un’invasione”… “L’invasione ucraina è un preludio e un’esercitazione di quanto la Cina farà a Taiwan. Pechino può valutare la consistenza militare delle due parti, le possibilità in campo, come funziona il quadro politico internazionale, come reagiscono Europa e Stati Uniti.

Tutto questo aiuta parecchio a capire che cos’aspettarsi una volta scoppiata una guerra con Taiwan”. Per quanto riguarda i rapporti tra Cina e Russia, Weiwei ricorda che hanno dichiarato di aver stretto un’amicizia strategica “senza limiti”. “Cina e Russia sono davvero partner contro l’ordine politico costituito. Europa e America devono capire che Pechino non farà mai nulla per danneggiare la Russia e viceversa. Non si può comunque negare che in certi momenti la Cina possa fare da negoziatrice o intermediaria per proteggere gli interessi suoi e di Mosca”.

 “È arrivato il momento di svegliare il mondo. I leader europei dovrebbero rivedere i rapporti con le dittature come quella russa e cinese se vogliono preservare i valori della democrazia e della libertà”, gli fa eco Nathan Law, uno dei leader della protesta degli ombrelli di Hong Kong diventato, a soli 23 anni, il più giovane parlamentare della storia del suo Paese. Oggi vive a Londra in esilio. “È questo il prezzo che ho pagato per la lotta per la libertà” racconta a ilFattoQuotidiano.it a margine dell’evento organizzato dal gruppo Radicali+Europa in Regione Lombardia. “Dovremmo smettere di considerare la Cina come una terza parte in questo conflitto – spiega Law – perché ha avuto un ruolo in tutto quello che la Russia fa. Dobbiamo fare di più per ridurre la loro influenza e per difendere la democrazia”. In cinese, Ucraina si legge Taiwan. E anche in “americano”.

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