Palestina, quando essere terrorista è l'unico modo per esistere: il j'accuse a Israele di Gideon Levy
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Palestina, quando essere terrorista è l'unico modo per esistere: il j'accuse a Israele di Gideon Levy

Risposta di  Ehud Barak a Gideon Levy, giornalista del quotidiano Haaretz, quando chiese a Barak che cosa avrebbe fatto se fosse nato palestinese.

Palestina, quando essere terrorista è l'unico modo per esistere: il j'accuse a Israele di Gideon Levy
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

1 Aprile 2022 - 14.17


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Sarei entrato in un’organizzazione terroristica”

risposta di  Ehud Barak a Gideon Levy, giornalista del quotidiano Haaretz, quando chiese a Barak che cosa avrebbe fatto se fosse nato palestinese.

Gideon Levy

Esisti se terrorizzi

In quella frase del militare più decorato nella storia d’Israele, diventato poi Primo ministro, c’è l’essenza di una tragedia irrisolvibile. Una tragedia che chiama in causa tutti. E quando intendo “tutti”, penso alla comunità internazionale, certo, ma anche a chi fa informazione. I palestinesi fanno notizia solo se terrorizzano, altrimenti non esistono. Semplicemente.

O sono “shahid” (martiri) o entrano nel grande esercito dei dannati della terra dimenticati, sepolti nell’oblio. Chi scrive ha iniziato a seguire l’eterno conflitto in Terrasanta nel dicembre del 1987, allora lavoravo a Rinascita, quando ebbe inizio la prima Intifada, la “rivolta delle pietre”, una ribellione di popolo che impose la questione palestinese di nuovo al centro dei riflettori internazionali. D’allora sono passati 35 anni. Ho perso il conto delle volte, tante, in cui sono stato nei Territori, nella Palestina occupata.

Ciò che mi è rimasto sempre impresso nella memoria, e nel cuore, è soprattutto l’inferno di Gaza. Ho visitato la Striscia prima e dopo l’inizio dell’embargo imposto da Israele, quindici anni fa e mai interrotto. Non potrò mai dimenticare, mai, lo sguardo di quei bambini a cui veniva rubata l’infanzia e, per molti, la vita. Lo sguardo di chi fin dal suo nascere ha conosciuto solo la violenza, gli attacchi israeliani, le case ridotte in un cumulo di macerie. Bambini che giocavano a scalare montagne di rifiuti, in strade sterrate con le fogne a cielo aperto.

Degli errori e dei fallimenti delle fazioni palestinesi avrò scritto centinaia e centinaia di articoli, ultimi su Globalist. Non sono mai stato tenero con Hamas, Fatah, l’Autorità nazionale palestinese. Ma questo non ha mai cancellato la domanda che Gideon Levy, una delle icone del giornalismo israeliano, fece a Ehud Barak. Quella domanda me la sono posta tante volte, e la risposta è stata la stessa che il soldato più decorato nella storia d’Israele ebbe a dare. Chi entra in un campo profughi, nella Striscia o nella West Bank, si guarda intorno, raccoglie testimonianze, usa tutti i sensi umani, alla fine non può non può che giungere all’amara conclusione che l’interrogativo vero non è perché molti di quei ragazzi si sono fatti strumento di morte, ma perché non avrebbero dovuto farlo.

“Nulla di ciò che visto in Sudafrica può essere paragonato a Gaza dal punto di vista della miseria, dell’oppressione pianificata, della segregazione  e della discriminazione razziale…”.

E ancora: “Il campo di Jabalya è il posto più spaventoso che abbia mai visto. I bambini che affollano le viuzze non lastricate, hanno negli occhi una luce che contrasta con l’espressione di tristezza e sofferenza infinita stampa sui volti degli adulti. Non esiste una rete di fognatura, il fetore dà il voltastomaco, e ovunque si volga lo sguardo si vede una massa di persone vestite di stracci…”.  Edward Said Tra guerra e pace. Ritorno in Palestina-Israele (Feltrinelli)

A riportarmi su questo tema, è un articolo dei giorni scorsi su Haaretz di Gideon Levy. Duro, ma vero. Perché dice quello che gli ipocriti di cui è piena la stampa mainstream, anche di casa nostra, non hanno il coraggio neanche di pensarlo, figuratevi di scriverlo.

“La via del terrore è l’unica via aperta ai palestinesi per combattere per il loro futuro. La via del terrore è l’unico modo per loro di ricordare a Israele, agli stati arabi e al mondo la loro esistenza. Non hanno altra via. Israele ha insegnato loro questo. Se non usano la violenza, tutti si dimenticheranno di loro.

Questa non è una speculazione ipotetica, è stato dimostrato nella realtà, più e più volte. Quando sono tranquilli, l’interesse per la loro causa evapora e svanisce dall’agenda di Israele e del resto del mondo.

Guarda cosa succede a Gaza tra le raffiche di razzi. Chi ci presta attenzione? Chi se ne preoccupa? Tutti vogliono già dimenticare l’esistenza dei palestinesi. La gente è stanca di sentir parlare della sofferenza palestinese e il silenzio lo rende possibile. Solo quando le pallottole volano, i coltelli colpiscono e i razzi esplodono, la gente si ricorda che c’è un altro popolo con un problema terribile che deve essere risolto. La conclusione è dura e terrificante: Solo attraverso il terrorismo saranno ricordati, solo attraverso il terrorismo potranno ottenere qualcosa. Una cosa è certa: se mettono giù le armi, sono condannati a diventare i nativi americani del Medio Oriente – una minoranza dimenticata la cui causa è stata estinta per sempre.

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Si può discutere sulla legittimità del terrore palestinese e sulla sua definizione: Chi uccide di più e chi è più brutale, Israele o loro. La violenza è sempre brutale e immorale: la violenza dei terroristi che sparano indiscriminatamente su passanti innocenti e la violenza in uniforme sancita dallo stato contro i palestinesi, compresi quelli innocenti, come una questione di routine. palestinesi sono stati relativamente tranquilli per mesi, mentre subivano la violenza e seppellivano i loro morti e perdevano le loro terre, le loro case e gli ultimi brandelli di dignità. E cosa hanno ottenuto in cambio? Un governo israeliano che dichiara che la questione del loro destino non sarà discussa nel prossimo futuro perché non è comodo per il governo nella sua composizione attuale.

Poi hanno ottenuto il vertice Sde Boker. Sei ministri degli esteri che dicono loro: Il vostro destino non ci interessa. Ci sono questioni più urgenti e interessi più importanti. Cosa pensavano lì, all’hotel Kedma? Che si sarebbero fatti fotografare, avrebbero sorriso e abbracciato e visitato la tomba del fondatore di Israele, il comandante che ha supervisionato la Nakba – “Qui è dove tutto è cominciato”, come ha detto Yair Lapid – e i palestinesi avrebbero applaudito? Che i palestinesi avrebbero visto come venivano lasciati sanguinanti sul ciglio della strada e sarebbero rimasti in silenzio? Che forse si sarebbero accontentati delle caramelle colorate che il governo ha lanciato loro in onore dell’evento – 20.000 permessi di lavoro per operai di Gaza? E che dire degli altri 1.980.000 residenti che vivono sotto il blocco? Gli attacchi terroristici sono la punizione, il peccato è l’arroganza e la sensazione che nulla sia così urgente. Israele è in una situazione scomoda ora. La coalizione è sensibile. Le cose non sono mai state comode per lui. Ora c’è l’Iran e un nuovo Medio Oriente, libero dai palestinesi. Non sta funzionando. E a quanto pare non funzionerà mai.

I palestinesi non hanno modo di dimostrarlo a parte sparare per le strade. Un giovane sconosciuto di Ya’bad che ha ucciso dei civili e un agente di polizia ha fatto sì che Israele lo vedesse. Non l’avrebbe fatto altrimenti.

Il terrorismo deve essere combattuto, ovviamente. Nessun paese può permettere che la sua gente viva nella paura e nel pericolo. Anche i vertici come quello di Sde Boker sono uno sviluppo incoraggiante, e il ministro degli esteri emiratino Sheikh Abdullah bin Zayed, è una persona molto impressionante, intelligente e calorosa.

Ma quando Lapid ha detto: “Qui è dove tutto è cominciato”, avrebbe anche potuto intendere che qui è dove è cominciata un’altra ondata di attacchi terroristici, un’ondata destinata a ricordare a lui e ai suoi colleghi che anche se hanno cenato con kebab di pesce su una foglia di ulivo, riso “Ben-Gurion” e pomelo a fine inverno – a sole due ore di distanza, un popolo continua a soffocare sotto la brutale e totalitaria occupazione israeliana”.

Così Levy

Prospettiva-Bantustan

Il suo nome è Hagai El-Ad, ed è il direttore esecutivo di B’Tselem, l’ong israeliana che monitorizza la situazione nei Territori Occupati in materia di diritti umani.

Scrive El-Ad: “Restringere il conflitto  è la calda merce politica israelo-palestinese mainstream di questi tempi.  Già nella sua primissima intervista come primo ministro designato, nel giugno di quest’anno, il futuro premier israeliano Naftali Bennett ha proclamato che ‘ridurre il conflitto’ era la sua ‘filosofia’ per gestire il futuro dei palestinesi.  Alla fine di agosto, il nuovo premier ha portato questa stessa merce alla Casa Bianca nel suo primo incontro con il presidente americano Joe Biden: crescita continua degli insediamenti per gli israeliani, senza libertà, diritti o indipendenza per i palestinesi e certamente senza negoziati; il tutto senza annessioni formali e una migliore “qualità della vita” per i palestinesi obbedienti.  E questa settimana, nel suo discorso inaugurale davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Bennett ha ulteriormente ridimensionato la questione – al punto di non menzionarla nemmeno.

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In un’intervista al New York Times pochi giorni prima del suo primissimo incontro come primo ministro con il presidente Biden, Bennett ha descritto il suo governo come impegnato a ‘trovare il terreno di mezzo in modo tale che noi  [israeliani] possiamo concentrarci su ciò su cui siamo d’accordo”. In quell’intervista, Bennett ha spazzato via le documentate da parte di gruppi di diritti umani palestinesi, israeliani e internazionali, che la politica israeliana, dalle quali emerge con nettezza che  la sua ‘terra di mezzo’- è apartheid. La visita di Bennett a Washington è stata considerata un successo. Solo pochi giorni fa, nel suo primo discorso come presidente davanti all’Assemblea Generale dell’Onu, Biden ha detto, a proposito di una soluzione a due Stati: ‘Siamo molto lontani da quell’obiettivo’.

Questa è la soluzione dei due Stati in cui lui continua a credere e che Bennett rifiuta apertamente. Verso la fine del suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Biden ha parlato in modo commovente del coraggio delle persone in Bielorussia, Birmania, Siria, Cuba, Venezuela, Sudan, Moldavia e Zambia, nella lotta per la democrazia e la dignità umana. In qualche modo, in questa parte del suo discorso, i palestinesi sono stati cancellati. Infatti, sembrano essere ‘molto lontani’ da un presidente americano che osa identificarsi con la loro causa, la loro libertà e la loro lotta per la dignità umana.

Il modello di lunga data di Israele per riuscire a farla franca con l’apartheid senza subire conseguenze internazionali si basava di solito sul fatto di pagare il necessario servizio verbale ai ‘negoziati’ e all’interminabile ‘processo di pace’, mentre si caratterizzava attentamente per un personaggio digeribile a livello internazionale – pensate a Shimon Peres sotto Ariel Sharon – per gestire il marketing all’estero. Anche Netanyahu ha seguito attentamente questo copione: si pensi al suo discorso di Bar Ilan, fino all’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca. Ma ora, con Trump fuori dalla Casa Bianca (almeno fino al 2024), è diventato essenziale per Israele ricalibrare la sua immagine. Dopo quattro anni di aperto allineamento con Trump – e con il trumpismo – Israele aveva bisogno di un non-Netanyahu per prendere le distanze da quei residui tossici.

In questo senso chiave, le élite politiche di Israele hanno abilmente soppesato i chiari benefici di avere un non-Netanyahu come primo ministro – persino un ex leader dei coloni a capo di un governo di coalizione molto insolito – per gestire meglio un presidente democratico alla Casa Bianca.  Ciò che è notevole in questo stato di cose è che semplicemente non essendo guidato da Netanyahu, Israele riesce a riavviare la sua immagine internazionale senza alcun cambiamento sostanziale nella politica.

Il suo attuale premier non-Netanyahu non ha nemmeno bisogno di spruzzare in giro il buon vecchio lip service – infatti egli, molto sinceramente, dichiara apertamente che non ci saranno negoziati e nessuna indipendenza palestinese. Come può essere digeribile a livello internazionale? Semplicemente perché Bennett non è Netanyahu. Proprio come con la ‘crisi’ del 2020 riguardante la potenziale annessione formale, la preoccupazione qui non riguarda una politica significativa, la libertà o la dignità umana.

Si tratta solo di apparenze e negabilità. L’annessione formale era una falsa pista – Israele fa quello che vuole ovunque in Cisgiordania a prescindere – ma se fosse passata attraverso la formalizzazione, sarebbe stato un enorme imbarazzo per l’UE (e per un presidente americano non-Trump) in quanto avrebbe esposto la riluttanza internazionale a ritenere Israele responsabile. Inoltre, avrebbe pubblicamente sgonfiato l’aria del palloncino della soluzione dei due Stati che la comunità internazionale ha gonfiato con vuota retorica per decenni.

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Lo stesso vale per quanto riguarda un Netanyahu contro un non-Netanyahu che continua a guidare il governo di apartheid di Israele sui palestinesi: si consideri quanto sarebbe stato politicamente più complicato per il presidente Biden accettare il no-negoziati-più-insediamenti da un primo ministro Netanyahu. Ma da un non-Netanyahu? Facile. E nella realtà, sul terreno? I palestinesi sono stati per decenni testimoni – e hanno lottato contro – l’effettiva riduzione delle loro terre, libertà e diritti. Sanno fin troppo bene che ‘restringere il conflitto’ – cioè permettere a Israele di continuare con le sue implacabili politiche contro di loro finché il furto delle loro terre non viene formalizzato attraverso l’annessione ufficiale – significa un ulteriore restringimento del loro mondo. 

Ridotto fino a che punto? Da qualche parte tra le dimensioni di un Bantustan e una cella di prigione: i palestinesi obbedienti potrebbero vedere il loro Bantustan permesso di migliorare economicamente; quelli disobbedienti – Israele rifiuta qualsiasi forma di opposizione o protesta palestinese – dovrebbero aspettarsi di affrontare misure che vanno dal rifiuto dei permessi, al carcere, alla fucilazione. Mentre gli insediamenti continuano a espandersi e le case palestinesi continuano a essere demolite, mentre si costruiscono infrastrutture permanenti che aprono la strada a un milione di coloni israeliani in Cisgiordania, mentre Gaza rimane sotto blocco e i palestinesi continuano a essere uccisi impunemente dalle forze di sicurezza israeliane – ‘restringere il conflitto’ sono le parole magiche che un primo ministro di Israele non-Netanyahu deve articolare affinché la comunità internazionale accetti una Palestina sempre più piccola.

La ‘terra di mezzo’ israeliana di milioni di palestinesi – metà della popolazione che vive sotto il controllo di Israele – che sopportano una forma o l’altra di sottomissione, con solo la metà ebrea della popolazione che ha pieni diritti (cioè l’apartheid) ha così ottenuto un prolungamento della vita. È bastato che un non-Netanyahu lo ribattezzasse come una filosofia di ‘contrazione del conflitto’.

Questa ridenominazione di idee stantie ora rigurgitate – pensate alla ‘pace economica’ o alle ‘misure di rafforzamento della fiducia’ – fornisce ai politici delle capitali occidentali una rinnovata negabilità per ciò che stanno effettivamente facendo: continuare a sostenere l’apartheid israeliana. Ma le persone di coscienza non riusciranno mai a non vedere i blocchi di cemento, le sbarre e i muri che Israele impone a metà della popolazione tra il fiume e il mare.  Salvare la faccia per politiche fallimentari può durare ancora per molto, perché, come ha detto lo stesso presidente Biden alle Nazioni Unite, ‘Il futuro apparterrà a coloro che abbracciano la dignità umana, non la calpestano’. Finora, quando si tratta della Palestina, Biden ha dimenticato il suo stesso consiglio e i suoi valori proclamati: Questo è molto spiacevole. I palestinesi ne stanno pagando il prezzo.

Ma la politica estera degli Stati Uniti non deve rimanere per sempre dalla parte sbagliata della storia. Poiché gli attivisti palestinesi e gli alleati stanno cambiando il discorso a Washington e altrove, alla fine la politica seguirà.  È tempo di spingere oltre e più velocemente, perché il potere di dire la verità ridurrà le bugie, le distorsioni e le scuse. La Palestina non rinsecchita non è solo il futuro che dobbiamo abbracciare: è il futuro che possiamo rendere reale”, conclude il direttore di B’Tselem.

Il fallimento della politica

Due popoli, e due dirigenze politiche, fanno fatica a realizzare il “sogno” chiamato compromesso. Sì, compromesso. Scrive Amos Oz, il grande scrittore israeliano da poco scomparso: “Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte”.

La morte dei senza speranza.

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