Così in Turchia Erdogan è rimasto senza una lira
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Così in Turchia Erdogan è rimasto senza una lira

Il Sultano turco ha riempito le carceri di oppositori. Ha cacciato da tutti i comparti dello Stato – uffici, scuole, università, magistratura, esercito -  centinaia di migliaia di persone. Ma adesso...

Così in Turchia Erdogan è rimasto senza una lira
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

1 Dicembre 2021 - 17.16


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Ha riempito le carceri di oppositori. Ha cacciato da tutti i comparti dello Stato – uffici, scuole, università, magistratura, esercito –  centinaia di migliaia di persone. Ha imbavagliato la stampa, usato i rifugiati siriani come arma di ricatto nei confronti dell’Europa. Ora però il Sultano non ha più una lira.

Erdogan sul lastrico

L’attuale crisi della lira turca “non è il risultato delle nostre politiche, ma è provocata da chi al contrario tenta di ostacolare queste politiche”.

Così il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è tornato a difendere la decisione della Banca centrale di Ankara di tenere bassi i tassi di interesse, che aveva provocato una svalutazione record della valuta nazionale. In un discorso al gruppo parlamentare del suo partito Akp, il leader turco ha dato la colpa della crisi ad attori della finanza “che tentano di manipolare i mercati”, parlando di una “iperinflazione senza logica nel mercato”. Il presidente turco si è poi scagliato contro coloro che tenterebbero di arricchirsi a causa della situazione economica in Turchia. “A quelli che stanno accumulando riserve in questo momento, vorrei dire che la nostra nazione diventerà la vostra tomba: accumulare riserve è proibito dalla nostra religione”, ha affermato Erdogan. “Abbiamo abbassato di nuovo i tassi di interesse perché rendono i ricchi più ricchi e i poveri più poveri”, ha aggiunto. Secondo il leader di Ankara, la scelta di abbassare i tassi porterà a un aumento della produzione e dell’occupazione. “Se Dio vuole – ha dichiarato – il Pil quest’anno crescerà di oltre il 10%”.

Concetti che il Sultano ha ripetuto parlando  con la stampa sul volo di ritorno da un viaggio in Turkmenistan.

“Non ho mai difeso, non difendo e non difenderò mai un aumento dei tassi di riferimento – ha detto Erdogan – e non faro alcun compromesso”. La scorsa settimana la lira ha perso il 13% del suo valore in poche ore rispetto al dollaro dopo che la banca centrale, recependo i desiderata del presidente, ha nuovamente tagliato i tassi di interesse (terzo taglio in altrettanti mesi) portandoli dal 16% al 15% a fronte di un’inflazione per il mese di novembre che, quando sarà annunciata venerdì, dovrebbe superare la soglia del 20%. Contrariamente alla dottrina economica classica, Erdogan è  convinto che alzare i tassi di interesse determini un aumento dell’inflazione, di qui la sua determinazione a pilotare continui tagli al costo del denaro. Per la lira turca questo approccio si e’ tradotto in un continuo deprezzamento che l’ha portata a perdere il 40% del suo valore rispetto al dollaro da inizio anno. In risposta al continuo aumento dei prezzi, Erdogan ha ordinato sabato l’apertura di un’indagine da parte dell’Ispettorato statale per manipolazione dei prezzi. Oggi un dollaro vale 12,73 lire turche, sostanzialmente stabile rispetto alla scorsa settimana, mentre per un euro occorrono 14,39 lire.

Una crisi che viene da lontano

L’economia turca è stata duramente colpita da quando la lira ha perso il 40% del suo valore rispetto al dollaro Usa nel 2017. La crisi valutaria, scatenatasi in agosto dopo un aspro scontro diplomatico con Washington, ha sollevato preoccupazioni per gli investitori sull’indipendenza della Banca centrale e ha evidenziato preoccupazioni più ampie sulla performance dell’economia. A febbraio l’inflazione si è attestata a poco meno del 20%, mentre il tasso di interesse principale della Banca centrale è attualmente del 24%.  Erdogan ha spesso accusato le potenze straniere e gli “speculatori” di essere responsabili delle fluttuazioni valutarie e degli altri problemi economici affrontati dalla Turchia:  ” Io sono il responsabile dell’economia del Paese”, ha ripetuto più e più volte  Erdogan, che non si è mai tirato indietro nel promettere di risollevare la situazione, senza mai omettere di accusare non meglio precisati “nemici” della Turchia, che “dopo aver provato col terrorismo e col golpe, ora vogliono destabilizzarci con l’economia”.

Erdogan sa bene che quella che lui ha imboccato è una via senza ritorno, o sbanca il tavolo oppure rischia di essere spazzato via, come è successo ad altri rais, autocrati, “sultani” prima di lui.

Arma di distrazione di massa?

Di grande interesse, nel merito, è un recente rapporto Ispi

“Mentre gli economisti dibattono e la lira sprofonda, l’inflazione crescente sta contribuendo, lentamente ma inesorabilmente, a erodere i consensi del partito per lo Sviluppo e la Giustizia (Apk). Secondo i sondaggi più recenti solo un terzo degli elettori,, se si andasse al voto oggi, sosterrebbe il partito di Erdogan: un netto calo rispetto al 42% del 2018. Nel tentativo di capitalizzare il malcontento, soprattutto dei giovani, i partiti di opposizione si stanno compattando in vista delle elezioni parlamentari e presidenziali previste per il 2023. Kilicdaroglu del CHP è considerato uno dei possibili aspiranti alla guida del paese. Intanto il presidente liquida i sondaggi come ‘fake news’ e si affanna a puntellare l’immagine della Turchia come pilastro di stabilità regionale, dalla Siria all’Afghanistan. Ma nonostante tutto ‘la Turchia è più instabile oggi di quanto non lo sia mai stata negli ultimi anni – scrive Steven Cook su Foreign Policy. Anche per questo è improbabile che la minaccia contro gli ambasciatori sia l’ultima mossa incendiaria a cui Erdogan farà ricorso per guadagnare consensi.” “Attaccare l’Occidente, in particolare gli Stati Uniti – osserva ancora Cook – è sempre una strategia politica vincente in Turchia’..

Fin qui il rapporto. Commenta Valeria Talbot, Co-Head Ispi Mena centre:  “Il passo indietro del presidente Erdogan è una buona notizia per la Turchia: l’espulsione dei dieci ambasciatori avrebbe infatti avuto gravi conseguenze non solo sulle relazioni diplomatiche di Ankara ma anche sulla sua fragile economia. La Turchia non può permettersi di accrescere il proprio isolamento in una fase in cui sta faticosamente cercando di ricucire diversi strappi sul piano regionale. E non può neanche permettersi di compromettere ulteriormente la sua situazione economica. La debolezza della lira turca, che da inizio 2021 ha perso circa il 25% del suo valore, è un importante campanello d’allarme sullo stato di salute dell’economia del paese le cui responsabilità difficilmente risiedono altrove. 

Della difficile situazione finanziaria della Turchia, e delle possibili conseguenze per Erdogan, ha scritto il Financial Times in un articolo firmato da Laura Pitel. “L’approccio di Erdogan all’economia di un Paese da 765 miliardi di dollari non sta funzionando. Sebbene la crescita economica sembri buona sulla carta, non si è tradotta in posti di lavoro e altri risultati più concreti», scrive la corrispondente dalla Turchia per il quotidiano economico.

L’inflazione ha sfiorato il 20% a settembre e la lira, come detto, sta perdendo valore. Cosa più importante per il presidente, che mercoledì segna il 19° anniversario della sua ascesa al potere a livello nazionale, il sostegno al suo partito Akp è sceso di circa 10 punti percentuali dalle elezioni parlamentari del 2018: oggi è ai minimi storici, tra il 30% e il 33%.

L’economia è una delle vene aperte della Turchia in questi anni Venti. “Il presidente, che per anni ha vinto le elezioni grazie alla promessa di una maggiore prosperità per milioni di persone, continua a sbandierare le cifre della crescita economica del Paese. Il Fondo monetario internazionale prevede che il Pil della Turchia aumenterà del 9% quest’anno, un tasso che lo pone davanti alla Cina e appena dietro l’India. Ma, di contro, la più grande associazione imprenditoriale del Paese, Tusiad, spesso reticente nel criticare le politiche di Erdoğan, fa notare che l’ossessiva attenzione del governo alla crescita a ogni costo sta danneggiando il Paese”, scrive sempre il Financial Times.

La crescita dei salari, infatti, non è riuscita a tenere il passo con l’inflazione dilagante. Le famiglie a basso reddito sono state le più colpite dal conseguente calo del tenore di vita. Il tasso di povertà, diminuito drasticamente durante i primi quindici anni di governo dell’Akp, è tornato a salire nel 2019 a causa di una recessione che ha portato alla perdita di 1 milione di posti di lavoro.

Un report della Banca mondiale sottolinea che la crisi recente si è tradotta in quasi 1,5 milioni di poveri aggiuntivi, per un totale di 8,4 milioni a livello nazionale, cancellando quasi tutti i risultati ottenuti nei tre anni precedenti. Anche gli investimenti diretti esteri si sono ridotti, ormai inferiori ai 6 miliardi di dollari nel 2020 – in netto calo rispetto al picco di oltre 19 miliardi di dollari registrati nel 2007.

Le difficoltà economiche, però, hanno (anche) un’origine politica. “Sebbene sia ancora un politico formidabile – scrive il FT– oggi Erdogan appare  spesso stanco e fiacco. I funzionari del governo sostengono che il presidente tragga ancora energia dallo scendere in strada e stare tra la folla, ma i suoi incontri con il pubblico sempre più spesso sono segnati da passi falsi e incomprensioni». Dopo aver consolidato il suo controllo sulle istituzioni turche, Erdogan si è scontrato con la banca centrale turca – teoricamente un’istituzione indipendente dal potere politico – chiedendo ripetutamente e ottenendo tassi di interesse più bassi. Questi, secondo il Sultano, aiuterebbero a combattere l’inflazione. Poi però la combinazione di una politica monetaria espansiva con il rialzo incontrollato dei prezzi ha fatto vacillare l’economia del Paese.

Lira turca e inflazione remano contro Erdogan

“Gli investitori stranieri – annota Giuseppe Timpone su investireoggi.it – detenevano il 30% del debito pubblico turco in lire nel 2013, oggi meno del 5%. La banca centrale non può difendere il cambio, disponendo di riserve valutarienette assai scarse, per non dire nulle. Erdogan crede e spera che il crollo della lira turca sostenga le esportazioni e, per tale via, anche il PIL. Una pia illusione, se si pensa che nei primi 9 mesi dell’anno la Turchia ha accusato un saldo commerciale passivo per quasi 30 miliardi di dollari.

E se è vero che un cambio debole accresca teoricamente la competitività delle imprese turche, d’altra parte finisce per aumentare il costo dei beni importati, tra cui l’energia e le altre materie prime.

I consumatori turchi stanno vivendo sulla loro pelle la follia del loro governo. Alle stazioni di servizio, un litro di verde costa ormai quasi 8 lire, circa 0,70 euro. Un litro di diesel arriva a 8,20 lire, circa 0,725 euro. E il peggio deve arrivare. Il governo aveva eliminato quest’anno tasse sul carburante per 46 miliardi di lire (4 miliardi di euro). Ma lo sconto fiscale è finito e ciò accentuerà il rialzo dei prezzi alla pompa, già sostenuti dal caro greggio e dal crollo della lira turca. E la perdita veloce del potere d’acquisto sta riducendo le quotazioni di Erdogan in vista delle elezioni presidenziali nel 2023. I sondaggi dicono che oggi come oggi perderebbe nettamente contro il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu.

Di fatto – conclude Timpone – Erdogan si gioca la rielezione con l’andamento dell’economia nel 2022. Per questo, non accetta alcuna politica monetaria di freno alla crescita, anche se non sembra capire che proprio l’alta inflazione gli sta alienando una fetta crescente della popolazione. Ed essa finirà per imporre alla banca centrale una stretta nei prossimi mesi, quando il collasso della lira turca diverrà così eclatante da provocare la totale destabilizzazione dei prezzi interni. E a ridosso delle elezioni, tra lo spettro dell’iperinflazione e l’impatto duro del rialzo dei tassi sull’economia, sì che una ennesima vittoria di Erdogan sarebbe seriamente a rischio”.

Nei giorni scorsi decine di persone sono scese in strada a Istanbul e nella capitale Ankara gridando  “Via l’Akp, potere al popolo!” e chiedendo la fine del governo del presidente. “Vattene Akp, questo paese è nostro”, era l’altro slogan degli studenti accampati a Kadikoy, quartiere dove spesso vengono organizzate le proteste a Istanbul, contro l’aumento del prezzo degli affitti. 

Il leader del Partito del Futuro, Ahmet Davutoglu, che è anche l’ex primo ministro di Erdogan, ha definito la gestione dell’economia del presidente non semplice “ignoranza”, ma un “tradimento” nei confronti del Paese. “Chiedo a tutti i leader dei nostri partiti politici e alla preziosa nazione di iniziare la vera guerra d’indipendenza economica contro questo tradimento”, ha twittato Davutoglu il 23 novembre. 

Il malessere è trasversale alla società turca. E a farlo passare ad Erdogan non basterà alimentare l’islamonazionalismo, divenuta di fatto ideologia di Stato.

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