Se aprire i “rubinetti” dei migranti non vi piega, allora chiudo i rubinetti del gas e allora vediamo come la mettete.
Aleksandr Lukashenko minaccia di chiudere i rubinetti dei gasdotti che portano il gas russo in Europa (Yamal Europe) se l’Ue introdurrà nuove sanzioni contro Minsk. “Forniamo all’Europa il riscaldamento e i Paesi europei ci minacciano di chiudere le frontiere. E se noi interrompessimo il transito di gas diretto all’Europa?”, ha affermato in un incontro con il governo. “Sta a loro decidere. Se chiudono le frontiere, lasciamo che lo facciano”, ha precisato, dopo aver dato istruzioni al ministero degli Esteri di “avvertire tutti gli europei che se introdurranno nuove sanzioni “indigeribili” e inaccettabili per noi, risponderemo”. “Come risponderemo? Lo abbiamo concordato circa un anno fa”. “Quindi raccomanderei alla leadership polacca, a quella lituana e ad altre personalità prive di senno di pensare prima di parlare. Non ci fermeremo di fronte a nulla per proteggere la nostra sovranità e indipendenza”, ha concluso, citato dall’agenzia Belta.
La guerra del gas
Il gasdotto Yamal ha origine in Russia e poi, attraverso la Bielorussia, arriva in Polonia e quindi in Germania. Il tratto bielorusso del gasdotto inaugurato nel 2006 appartiene alla russa Gazprom.
La questione del gas è particolarmente sentita in questi mesi perché in tutto il mondo c’è una grave carenza, e l’aumento dei prezzi sta mettendo in difficoltà sia le imprese sia le famiglie.
La Bielorussia è in realtà soltanto un paese di transito per il gas naturale: le forniture arrivano dalla Russia. Per i gasdotti bielorussi, attualmente, passa un quinto del gas che dalla Russia arriva all’Europa. I gasdotti sono controllati da Gazprom, la compagnia di stato russa, e in ultima istanza dal governo russo, che ha un’ampia influenza su quello bielorusso. Lukashenko, dunque, non potrebbe mettere in atto la sua minaccia da solo: per farlo, avrebbe bisogno del sostegno della Russia.
Il fatto è che negli ultimi giorni proprio la Russia si è dimostrata molto disposta ad aiutare Lukashenko. Giovedì due aerei da guerra russi hanno sorvolato lo spazio aereo bielorusso e tenuto delle esercitazioni a poche decine di chilometri di distanza dal confine con la Polonia, dove è in corso la crisi.
Lo scontro è anche diplomatico. E’ ciò che è accaduto nella riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu, durante il quale i paesi occidentali (Francia, Regno Unito e Stati Uniti, che sono membri permanenti, assieme ai membri a rotazione Albania, Estonia e Irlanda) hanno presentato un comunicato congiunto in cui accusavano il governo bielorusso di mettere in pericolo le vite dei migranti «per ragioni politiche» e con l’obiettivo di «destabilizzare i paesi vicini e i confini esterni dell’Unione Europea e sviare l’attenzione dalle sue crescenti violazioni dei diritti umani».
La Russia, altro membro permanente del Consiglio e con il potere di veto, ha però difeso la Bielorussia e sostenuto che piuttosto le violazioni dei diritti umani le sta compiendo la Polonia, che maltratta i migranti che cercano di entrare sul suo territorio.
Lo schema Lukashenko
Di grande interesse è l’analisi di Anna Zavesofa, profonda conoscitrice della realtà russa e delle repubbliche dell’ex impero sovietico.
Scrive Zavesofa sul sito Gariwo. La foresta dei Giusti “Questa crisi artificiale è organizzata secondo il tipico schema di Lukashenko, che da 27 anni ormai ricorre alle provocazioni con scenari molto simili, tirando il sasso e nascondendo (nemmeno troppo) la mano, allo scopo di far infuriare uno dei suoi grandi vicini, ora l’Europa, ora la Russia. La “guerra ibrida” dei migranti è una di quelle provocazioni che, secondo il dittatore belarusso, è una situazione ‘win-win’. Vilnius e Varsavia sono in prima linea europea nel combattere il regime di Lukashenko, aiutando l’opposizione e concedendo asilo ai dissidenti. Se la Bielorussia riesce a far invadere la Polonia e la Lituania da profughi, scatenando una crisi umanitaria, il voto di protesta di destra in quei Paesi potrebbe spingere i loro governi a rinunciare a combattere la dittatura di Minsk.
Se Vilnius e soprattutto Varsavia bloccheranno con durezza i tentativi dei richiedenti asilo di sfondare il confine sotto l’occhio vigile dei soldati bielorussi, potrebbero trovarsi ai ferri corti con Bruxelles e intensificare i contrasti già esistenti con l’Europa. Se l’Europa si spaventa del ricatto e decide di negoziare con Lukashenko (l’ipotesi meno probabile), Minsk potrebbe tornare ad avere una sponda alternativa a Mosca e riprendere respiro dopo la raffica di sanzioni da parte dell’Unione europea.
Ma soprattutto la crisi artificiale al confine con l’Europa – e la Nato – viene creata a beneficio dell’interlocutore principale di Lukashenko, Vladimir Putin. I canali di propaganda televisiva russi, e lo stesso ministro degli Esteri del Cremlino Sergey Lavrov hanno già fatto loro la retorica di Minsk sugli “europei disumani” che ‘sparano a donne e bambini’ alla frontiera polacca, ribaltando completamente l’abituale narrazione razzista sui ‘nullafacenti musulmani che invadono l’Europa’ . E il dittatore bielorusso si è affrettato a telefonare al suo collega russo per denunciare un ‘pericolo di conflitto armato’ ai confini con l’Europa.
Nonostante sporadici tentativi di giocare su due tavoli con l’Europa, tutto quello che fa Lukashenko è ormai rivolto a Mosca. La crisi del suo regime dopo le ‘elezioni’ del 9 agosto 2020 e della repressione violenta della protesta in piazza, ha distrutto qualunque speranza di un negoziato con l’Occidente. Ma paradossalmente ha aumentato, invece di ridurre, la leva di Minsk sul Cremlino, come mostrato anche dal recente pacchetto di accordi di integrazione tra i due Paesi. Come nota Maksim Samorukov su Carnegie Moscow, più Lukashenko vacilla, più il Cremlino riduce le sue pressioni per inglobare la Bielorussia. Nonostante Putin continui a non fidarsi del suo vicino, rimproverandogli – non del tutto a torto – di aver sabotato per vent’anni le ambizioni imperiali di Mosca, più il regime bielorusso corre il rischio di collassare, meno spazio di manovra ha Putin: l’alternativa a Lukashenko rischia sempre di più essere non un altro autocrate più abile e meno odioso, ma una rivoluzione democratica sul modello ucraino, con conseguente passaggio di Minsk nell’orbita europea e occidentale. Una opzione inaccettabile, nella visione geopolitica manichea di Putin. È a lui che sono indirizzate le dichiarazioni del ministero degli Esteri bielorusso sugli ‘armamenti pesanti ammassati dalla Polonia al confine’. Dopo che, al negoziato di pochi giorni fa, il Cremlino ha riconfermato lo sconto sul gas per Minsk, ma ha stretto i cordoni della borsa su altri dossier, Lukashenko vuole dimostrare a Putin di essere l’ultimo baluardo all’avanzata dell’Europa e dei suoi valori, in quello ‘scontro di civiltà’ che il leader russo vede come inevitabile. Chiedere a Putin un intervento militare per ‘proteggere i confini bielorussi dalla Nato” – e quindi permettere alla Russia la finora negata presenza militare diretta sul suolo bielorusso, in cambio di aiuti per la propria sopravvivenza sul trono: nella logica di Lukashenko potrebbe essere un premio che vale il rischio di uno scontro militare in Europa, e tanto più la vita e la sicurezza di qualche migliaio di migranti mediorientali”.
Fin qui la puntuale e argomentata analisi di Anna Zafesova.
Il patto Moscxa-Minsk
Mosca, con una quota del 50% nel commercio mondiale bielorusso, è il principale partner economico di Minsk. La Bielorussia si colloca al quarto posto tra i partner commerciali della Russia. In termini di investimenti russi nell’economia bielorussa, il Cremlino occupa il primo posto. Una componente importante delle relazioni russo-bielorusse sono i legami interregionali, che disvelano il potenziale della cooperazione commerciale, economica e umanitaria. I contatti sono regolarmente mantenuti nel campo dell’istruzione, della scienza e della cultura. Infine, l’esperienza di successo dell’interazione nel quadro dello “Stato dell’Unione” ha contribuito ad incrementare i processi di integrazione nello spazio della Comunità degli Stati Indipendenti (Csi), portando alla formazione dell’Unione doganale, dello spazio economico comune di Russia, Bielorussia e Kazakistan e poi l’Unione economica eurasiatica.
L’8 novembre scorso il ministro bielorusso per l’energia Viktar Karankevich e il direttore generale della compagnia russa Rosatom Aleksei Lihachev hanno sottoscritto a Mosca un documento di cooperazione per il trasporto di materiale nucleare in vista della costruzione di una centrale atomica in Bielorussia. L’ultimo tocco ai rapporti di stretta alleanza è stata la firma, il 9 novembre, di un protocollo sui prezzi del gas russo nel 2022. Lo hanno sottoscritto il ministro dell’energia bielorusso Viktar Karankevich e il suo parigrado russo Nikolai Shulginov. Il documento non contiene ancora cifre. Verranno scritte dal colosso energetico russo Gazprom in un testo che sarà concordato in seguito.
Annota Lorenzo Lamperti su Affaritaliani.it: “Sul fronte strategico, due bombardieri russi a lungo raggio Tu-22m3 hanno effettuato dei voli di pattuglia nello spazio aereo bielorusso. Il ministero ha aggiunto che gli aerei russi ‘svolgono i compiti di allerta al combattimento per la difesa aerea nel sistema di difesa aerea regionale dell’Unione statale Russia-Bielorussia’.
Dietro la crisi c’è infatti una questione geopolitica ben più ampia. Da una parte l’avvicinamento della Nato ai confini dell’unione statale Russia-Bielorussia, dall’altra parte il tentativo di riaccreditare il regime di Lukashenko o quantomeno dargli un’onorevole uscita di scena. Entrambi i punti di vista rischiano però di saltare anche per gli interessi di un altro attore, che complicano la storia e la rendono meno semplice nella divisione dicotomica tra buoni e cattivi. Si tratta, ovviamente, della Polonia, che potrebbe aver visto nella situazione che la coinvolge direttamente un problema in grado di trasformarsi in opportunità. Varsavia – rimarca Lamperti – è infatti coinvolta in uno scontro durissimo con Bruxelles e dopo una sentenza della sua corte costituzionale che pone il diritto polacco al di sopra di quello comunitario si parla sempre di più di Polexit. Ebbene, amplificare la portata della crisi in atto potrebbe non solo attrarre simpatie e aiuti a Varsavia, ma anche a porla in una migliore posizione negoziale con le istituzioni Ue. Lo sostiene per esempio Matteo Villa, responsabile del programma migrazioni dell’Ispi, che all’AdnKronos ha spiegato che il problema è ‘ingigantito’, visto che si tratterebbe al massimo di 2500 migranti che premono per entrare in territorio comunitario. Anche se le autorità polacche parlano di numeri ben diversi e identificabili nell’ordine di diverse decine di migliaia. Ma secondo Villa la Polonia starebbe “cavalcando la crisi”. Una crisi che coinvolge soprattutto la Germania, meta prediletta dei migranti in arrivo da Afghanistan e Iraq. Forse anche con questo si spiega la solerzia con la quale Berlino vuole colpire Minsk”.
Quella in atto “Non è una crisi migratoria, è una vera e propria aggressione” ha detto al Parlamento europeo la commissaria agli Affari interni, Ylva Johansson, aggressione di “un regime illegittimo e disperato che sappiamo capace di compiere atti atroci”.
La denuncia di Amnesty
Nell’ambito della repressione brutale e di massa scatenata contro il dissenso dopo le elezioni dell’agosto 2020, le autorità della Bielorussia hanno ridotto il sistema giudiziario a un’arma per punire le vittime della tortura più che i responsabili”. È la denuncia di Amnesty international nel suo rapporto “Bielorussia:“Voi non siete esseri umani” ”, che definisce la ricerca della giustizia in Bielorussia “senza speranza”. Secondo l’organizzazione per i diritti umani “è necessario che la comunità internazionale si attivi affinché le vittime delle violazioni dei diritti umani abbiano giustizia e i responsabili delle violazioni siano chiamati a rispondere”. Sebbene abbiano ammesso di aver ricevuto oltre 900 denunce di violazioni dei diritti umani commesse dalla polizia a partire dall’agosto 2020, le autorità bielorusse “non hanno avviato una sola indagine mentre ne hanno aperte centinaia contro manifestanti pacifici, molti dei quali vittime di maltrattamenti e torture”. “Dall’inizio delle proteste post-elettorali – ha dichiarato Maria Struthers, direttrice per l’Europa orientale e l’Asia centrale di Amnesty International -, i gruppi per i diritti umani hanno raccolto prove di tortura riguardanti centinaia di manifestanti pacifici e hanno documentato la morte di almeno quattro di loro”. Il report di Amnesty presenta terribili resoconti di arresti di massa di manifestanti pacifici, sottoposti a tortura, obbligati a rimanere nudi o in posizioni dolorose, pestati senza pietà e privati per giorni del cibo, dell’acqua potabile e delle cure mediche. Durante e dopo le proteste, le autorità bielorusse hanno utilizzato decine di centri di detenzione per trattenere arbitrariamente i manifestanti pacifici, compresa la famigerata struttura Akrestsina nella capitale Minsk: all’inizio del dicembre 2020, secondo l’Alta commissaria Onu per i diritti umani, aveva già superato quota 27.000 e gli arresti da allora sono proseguiti. Invece di avviare procedimenti penali nei confronti dei sospetti autori di violazioni dei diritti umani, il 28 ottobre 2020 la Procura generale della Bielorussia ha reso noto che erano stati aperti 657 fascicoli nei confronti dei manifestanti e che oltre 200 persone erano state incriminate per rivolta di massa e violenza contro agenti di polizia. ‘La comunità internazionale non può restare a guardare’, ha concluso Struthers.
Purtroppo, la comunità internazionale ha continuato a chiudere gli occhi. Aprendoli solo adesso di fronte al duplice ricatto dell’autocrate di Minsk.