La "capitale" della Palestina? E' Istanbul...
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La "capitale" della Palestina? E' Istanbul...

La “capitale” politica, diventata tale da quando a farsi paladino, interessato, della “causa palestinese” è assurto Recep Tayyp Erdogan.

Abu Mazen e Erdogan
Abu Mazen e Erdogan
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

21 Ottobre 2020 - 12.21


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La “capitale” della Palestina? E’ Istanbul. La “capitale” politica, diventata tale da quando a farsi paladino, interessato, della “causa palestinese” è assurto Recep Tayyp Erdogan.
Il Sultano ha spodestato il Faraone, al secolo Abdel Fattah al-Sisi, presidente- generale dell’Egitto. “Il valico di Rafah, che costituisce l’unico accesso della Striscia di Gaza all’Egitto, è chiuso da marzo, a parte due brevi periodi – scrive Zvi Bar’el, firma di Haaretz, il quotidiano progressista di Tel Aviv -.
Ufficialmente, questo per fermare la diffusione del coronavirus. Ma anche se questa ragione è indiscutibilmente valida, è probabile che l’Egitto abbia tenuto chiuso il valico come parte delle sanzioni contro Hamas per aver osato intraprendere un’azione politica indipendente. Per due mesi, Hamas e Fatah hanno discusso il rilancio del loro piano di riconciliazione e lo svolgimento di nuove elezioni – prima per il Consiglio legislativo palestinese, di fatto il parlamento per i palestinesi che vivono in Cisgiordania e Gaza, poi per la presidenza, e infine per il Consiglio nazionale palestinese, l’istituzione rappresentativa per i palestinesi di tutto il mondo. Quando Israele e gli Emirati Arabi Uniti hanno firmato il loro accordo di pace, i palestinesi sono stati costretti a fare i conti con la realtà: gli Stati arabi stanno abbandonando l’Iniziativa di pace araba, normalizzando le relazioni con Israele e ponendo fine alla loro garanzia teorica che qualsiasi accordo di pace con Israele richiederebbe un ritiro israeliano dai Territori palestinesi.
Alla ricerca di uno sponsor “Cercando alternative a questa rete di sicurezza araba – rimarca Bar’el – il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha autorizzato Jibril Rajoub, segretario generale del comitato esecutivo dell’Olp, a chiedere aiuto ad altri Paesi per aprire i negoziati con Hamas. All’inizio di settembre, i rappresentanti di Fatah e di Hamas si sono incontrati a Beirut. La riunione successiva è stata a Damasco. Poi, il 22 settembre, si sono incontrati a Istanbul, il che ha suscitato indignazione al Cairo. I delegati palestinesi hanno definito l’incontro una ‘svolta’, e la Turchia è diventata improvvisamente il sensale dei palestinesi. Sono stati raggiunti accordi di principio per lo svolgimento delle elezioni nel corso di sei mesi, con l’obiettivo di formare un governo di unità nazionale che includa tutte le fazioni palestinesi.
Al prossimo incontro, che si terrà a Ramallah, i rappresentanti di queste fazioni dovrebbero autorizzare Abbas ad emettere decreti che specifichino le date delle elezioni e le modalità di svolgimento. L’incontro successivo dovrebbe avvenire al Cairo. Ma tre settimane dopo il raggiungimento degli ‘accordi di Istanbul’, l’Egitto non l’ha ancora approvato. Secondo un esponente dell’Autorità Palestinese, l’Egitto non si accontenta di fare da padrone di casa. ‘Vogliono partecipare ai colloqui, e sono apparentemente arrabbiati perché i colloqui… si sono svolti in Turchia. Abbiamo dato a Erdogan un biglietto d’ingresso politico nell’arena palestinese interna, un ruolo tradizionalmente riservato all’Egitto”, aggiunge l’autorevole fonte.. Ufficialmente, i rappresentanti di Hamas e Fatah affermano che l’Egitto ha un ruolo centrale nel processo e nessuno dei due gruppi prevede di adottare un nuovo mecenate. Ma gli accordi stabiliscono che ovunque si svolgeranno i colloqui, essi saranno “puramente palestinesi, senza il coinvolgimento di altri Paesi”. In breve, l’Egitto non può unirsi a loro. La settimana scorsa i palestinesi hanno lanciato un’altra freccia contro l’Egitto, quando un gruppo di alti funzionari di Hamas guidati da Moussa Abu Marzouk ha incontrato a Mosca l’inviato in Medio Oriente del presidente Vladimir Putin, Mikhail Bogdanov. Abu Marzouk ha poi twittato che Mosca è disposta ad ospitare i colloqui tra i leader delle fazioni palestinesi. Abdullah Abdullah, membro del Consiglio rivoluzionario di Fatah, ha anche detto che se l’Egitto non accetta di ospitare l’incontro, “i palestinesi non saranno prigionieri del luogo. Troveremo un altro modo per tenerlo”. Gli analisti palestinesi sono stati rapidi a concludere che il monopolio dell’Egitto sulla gestione della disputa interna palestinese stava crollando, e che la Turchia e il Qatar avrebbero potuto sostituirlo. Seduti sulla linea di faglia del Medio Oriente “Anche questa volta, l’accordo di principio raggiunto in Turchia probabilmente naufragherà su dettagli, come sul quando si terranno le elezioni, come si svolgeranno, come si suddivideranno i seggi in parlamento e l’identità sfuggente del successore di Abbas – annota ancora Bar’el-.
Tuttavia, i colloqui mostrano la volontà di Fatah di vedere la Turchia, il mecenate di Hamas, come un facilitatore dei colloqui interni palestinesi, e anche di dare un punto d’appoggio alla Russia. L’AP si è così invischiata in una lotta di potere tra due coalizioni rivali in Medio Oriente. Una di esse comprende l’Egitto, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e Israele. L’altra comprende la Turchia, il Qatar e, a distanza, l’Iran.
Le loro dispute inizialmente non avevano nulla a che fare con i palestinesi, ma si sono rapidamente estese a loro, il che richiede che anche Israele prenda posizione. Il riavvicinamento dell’AP con i Paesi non arabi del Medio Oriente deriva non solo dal riconoscimento di aver perso i partner arabi che in precedenza la sostenevano, ma anche dalla profonda crisi economica. Secondo i dati del Ministero delle Finanze palestinese diffusi domenica scorsa, gli aiuti internazionali all’AP sono calati dell’81 per cento nei primi otto mesi dell’anno. In particolare, gli aiuti arabi sono scesi a 38 milioni di dollari, in calo vertiginoso rispetto ai 198 milioni dello stesso periodo dell’anno scorso. Gli aiuti sauditi da soli sono crollati da 130 milioni di dollari a soli 30 milioni di dollari. L’AP rifiuta ancora di accettare le tasse che Israele riscuote per suo conto da quando Israele ha iniziato a detrarre la somma che dice essere spesa per sostenere i palestinesi che sono stati incarcerati con l’accusa di terrorismo e le loro famiglie. L’Unione Europea si è finora rifiutata di colmare il deficit, dicendo che l’AP deve prima accettare il proprio denaro – i dazi doganali e l’imposta sul valore aggiunto che Israele trasferisce, meno la detrazione – prima che l’Europa consideri di aumentare gli aiuti. “Israele – rileva Bar’el – tratta questa crisi economica come se non fosse stata colpita. I governanti israeliani sono convinti che la pressione economica che alla fine costringerà l’AP ad accettare il denaro delle tasse, e anche ad accettare il piano di pace Trump, rilanciando così gli aiuti americani e arabi. Israele pensa anche che se la crisi dovesse peggiorare, gli Stati arabi come il Qatar, che è già diventato il bancomat della Striscia di Gaza, verrebbero in soccorso dell’AP. Ma finora entrambe le ipotesi sembrano infondate. La domanda che dovrebbe davvero interessare Israele e i suoi alleati arabi, tuttavia, è se debbano lasciare che la Turchia e/o il Qatar riempiano le casse vuote dell’AP, concedendo loro così influenza sulle azioni dell’AP.
Questo è anche un dilemma per Abbas, che deve prendere una decisione strategica che avrà implicazioni significative per il futuro dell’AP e per il futuro di qualsiasi soluzione diplomatica. Come tutti i leader del mondo, Abbas, a quanto pare, sta aspettando i risultati delle elezioni presidenziali americane prima di decidere da che parte stare. Per ora, anche se senza alcuna gioia, ha dato il via libera a continui colloqui di riconciliazione con Hamas, sperando che un nuovo presidente americano si tolga presto le castagne dal fuoco”. L’ascesa di Rajoub Grazie a autorevoli fonti palestinesi, Globalist  può ricostruire i passi del “riavvicinamento” tra Fatah e Hamas.
Passi che sono sembrati particolarmente drammatici e rapidi a settembre. Come altre volte in passato, anche stavolta le trattative erano condotte da Jibril Rajoub, segretario del Comitato centrale di Fatah e capo dell’’Associazione calcistica palestinese. Dopo alcune telefonate tra Abbas e il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, e un caloroso incontro online dei capi delle organizzazioni palestinesi, Rajoub è partito nell’ultima settimana di settembre per un tour “diplomatico”, durante il quale ha incontrato i dirigenti di Hamas: Salah al-Arouri a Istanbul, e Khaled Meshal e Moussa Abu Marzouk in Qatar. Turchia e Qatar non solo fanno da padroni di casa, ma esortano anche le parti a riconciliarsi. Insieme all’Iran, costituiscono l’asse di opposizione al riavvicinamento arabo-israeliano. Rajoub ha poi proseguito gli incontri in Giordania e in Egitto, due stati vicini con i quali è necessario mantenere relazioni cordiali anche se non si sono opposti al processo di normalizzazione che Israele sta portando avanti con altri stati arabi. Un incontro online, dei segretari delle varie organizzazioni, che avrebbe dovuto essere risolutivo, era stato promesso per il 3 ottobre (sabato), per discutere di intese e per preparare le elezioni. Tre giorni prima, i portavoce di Fatah si erano ritirati dalla promessa di tenere quell’incontro online come previsto. In seguito è stato convocato il Comitato centrale di Fatah. Si è discusso delle elezioni, ma secondo Rajoub, è stata anche approvata una risoluzione per “stabilire una leadership unita che si assuma la responsabilità di sviluppare e gestire la resistenza popolare e le attività nazionali in patria e nella diaspora”. Questa formulazione vaga e criptica, e il rinvio del confab online, suggeriscono disaccordi. Osserva Amira Hass, la giornalista israeliana che meglio conosce la realtà palestinese e le dinamiche interne alle varie fazioni: “Non c’è dubbio, la gente palestinese vuole la riconciliazione. Ma nelle mani dell’Anp, parlare di riconciliazione è anche una spada di cartone che di tanto in tanto sventola di fronte a Israele.
Oggi, soprattutto, è difficile impressionare Israele e gli israeliani con questi “sviluppi” stagnanti nell’arena palestinese”. Una “stagnazione” che serve per mantenere privilegi e gestire i finanziamenti che ancora arrivano dall’esterno. Di fronte all’annessione di fatto che Israele continua a portare avanti, con la massiccia colonizzazione della Cisgiordania, un atto davvero di rottura sarebbe “restituire le chiavi” dei Territori agli israeliani, mettendoli di fronte alla responsabilità di amministrare i quasi cinque milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
Per Israele sarebbe uno shock, una patata ultra bollente da maneggiare. Ma questo atto chiuderebbe i rubinetti dei finanziamenti alla nomenclatura di Ramallah e di Gaza. Il mantenimento dello status quo, al di là di proclami propagandistici ad uso interno quale il “piano di annessione” evocato da Netanyahu, è da sempre l’obiettivo delle autorità israeliane. Ma ciò su cui si riflette meno, anche in quella ridotta europea che ha ancora a cuore la “causa palestinese”, è che lo status quo è anche interesse di una nomenclatura palestinese che non ha perso occasione per perdere l’occasione, un vecchio assunto che ha l’amaro sapore della verità storica, anteponendo i propri interessi di “casta” a quelli di una popolazione sempre più impoverita e disillusa. Una gerontocrazia al potere più che le armate israeliane teme il giudizio della gente che pretende di rappresentare. Votare oggi significherebbe essere spazzati via. E allora è meglio promettere elezioni per poi puntualmente rinviarle a data da destinarsi.
È stato questo il modus operandi di quelli di Tunisi, figure prive di carisma e di seguito ma per questo fedeli al capo, che Yasser Arafat impose nel vivo della prima intifada, l’unica che ebbe le fattezze di una vera rivolta popolare, emarginando una leadership interna che in quella rivolta si era forgiata e legittimata: i Feisal Husseini, i Sari Nusseibeh, gli Abdel Shafi, le Hanan Ashrawi, i Marwan Barghouti, erano figure troppo ingombranti, perché autonome, per i gusti di “Mr.Palestine”. Il risultato è desolante. Una nomenclatura corrotta e incapace ha “suicidato” la causa palestinese. Ed ora a farsene carico, pro domo sua, è il Sultano di Ankara.

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