Vi racconto il campo profughi di Moria tra angoscia, filo spinato, soldati e cani addestrati. Ma anche un po' di speranza
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Vi racconto il campo profughi di Moria tra angoscia, filo spinato, soldati e cani addestrati. Ma anche un po' di speranza

"Non ci ho mai messo piede, un po’ per mancanza di tempo, un po’ per mancanza di coraggio"

Moria a Lesbo
Moria a Lesbo
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9 Settembre 2020 - 10.11


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di Davide Madeddu* 
Non è la prima volta che il campo profughi di Moria viene dato alle fiamme, anche a marzo di quest’anno capitò e a farne le spese fu un bambino di 6 anni, e bruciò pure nel 2016, l’anno in cui mi trovavo anch’io a Lesbo come operatore umanitario.
Capitò qualche mese dopo la visita del Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, perché gli allora 6000 abitanti di Moria non videro mantenute le promesse di un miglioramento delle loro condizioni di vita.
Dopo quattro anni, Moria è più inferno di prima, “ospita” 13000 persone (a fronte di 3000 posti letto) e continua a darsi fuoco.
Non ci ho mai messo piede, un po’ per mancanza di tempo, un po’ per mancanza di coraggio: basta anche solo transitarvi di fronte per percepirne tutta l’angoscia e l’oppressione, tra fili spinati, soldati ai posti di blocco, cani addestrati, terra battuta e un’aria perennemente polverosa, unità abitative costipate, donne e uomini addormentati all’addiaccio, ammassati sotto sporadici alberi rinsecchiti, soffocati dal caldo torrido dell’estate greca (quell’anno il termometro del campo di Kara Tepé, dove operavo io, segnò 50 gradi prima di rompersi), i bambini formano delle gang e vengono aizzati dai più grandi a odiare altri bambini per gli stessi motivi che alimentano le guerre da cui fuggono, gli adulti vagano catatonici schivando gli incontri con gli altri.
Mi trovavo a bordo della Hoppet, una barca a vela dei primi del ‘900, assieme a teatranti, musicisti, giornalisti, per portare un po’ di arte e speranza ai profughi bambini e ai minori senza accompagnamento delle case rifugio: un progetto finanziato dall’Unione Europea con lo scopo di alleggerire, per un attimo, la vita dei richiedenti asilo politico.
Una sera, mentre ci troviamo ormeggiati di fronte al porto di Mitilene, tre ragazzi si avvicinano incuriositi e facciamo conoscenza: sono un turco, un siriano e un algerino (non è una barzelletta) e provengono tutti e tre da Moria, sono maggiorenni e possono andare e venire dal campo quando vogliono durante il giorno.
Gli spieghiamo che stiamo montando uno spettacolo nel castello della città assieme agli adolescenti delle case rifugio e ci implorano di partecipare anche loro.
Il giorno dopo, puntualissimi (da Moria al castello è un’ora e mezzo di camminata) li incontriamo sul palco che abbiamo allestito e partecipano al laboratorio, si impegnano quanto e più degli altri; trascorriamo così un paio di settimane con lo spettacolo ormai alle porte.
Ma il giorno del debutto l’isola è blindata, né barche né aerei possono partire o rientrare, tra Moria e Mitilene ci sono 8 posti di blocco, dentro la città ogni 500 metri c’è un presidio militarizzato con carri armati, in cielo elicotteri, in mare navi da guerra e sottomarini: è arrivato Ban Ki-moon in visita e nessuno può uscire dai campi profughi.
Uno dei tre ragazzi mi chiama disperato: vogliono fare lo spettacolo più di ogni altra cosa.
Ci diamo appuntamento dietro Moria, prendo l’auto di servizio, attendo su una stradina di campagna e la scena che mi si profila davanti agli occhi è la seguente: prima i tre ragazzi scavalcano un primo muro altissimo e sento il rumore sordo del loro atterraggio, poi sbucano da un impercettibile buco nascosto nella macchia e si liberano così del secondo (insormontabile) muro.
Mi dicono che hanno scavato tutta la notte.
Salgono a bordo e dentro di me sento che sto facendo una cosa giusta e allo stesso tempo una cazzata solenne: è come se stessi aiutando tre extracomunitari a fuggire, sudo freddo per ognuno degli 8 posti blocco che incontriamo lungo la strada, fortuna vuole che nessuno ci ordini di fermarci.
Arriviamo euforici al castello e siamo pronti per andare in scena.
Potrei quindi raccontare dello spettacolo che seguì, di quante etnie, nazioni, religioni c’erano ad applaudire e a scambiarsi abbracci e strette di mano, e dirvi di come piangeva commosso il nostro fonico al punto che quasi non riusciva più a parlare.
Mi basta però dirvi che uno di questi tre ragazzi, l’algerino, appena ottenuti i documenti è partito in Olanda dove ora lavora e strano a dirsi, ma non troppo, studia recitazione.
A voi la morale di questa vicenda, dove gli elementi da far combaciare sono fuoco, arte e speranza.

*operatore umanitario (il progetto europeo si chiama “meeting the odyssey” ed è ambientato nei mari della Grecia)

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