"Ladri": a Beirut la piazza s'infiamma contro i "cleptocrati" al potere
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"Ladri": a Beirut la piazza s'infiamma contro i "cleptocrati" al potere

Mua'ssasa ta'ifiya è il sistema clientelistico confessionale di cui la gente chiede la fine. Al pari dei partiti confessionali e del clientelismo a loro connaturato e di cui sono piena espressione.

Proteste a Beirut
Proteste a Beirut
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

12 Agosto 2020 - 14.59


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C’è un’altra parola,oltre a Thawra (Rivoluzione), che racchiude in sé il senso e l’orizzonte la “rivola di Beirut”. Quella parola, composta, è Mua’ssasa ta’ifiya, il sistema clientelistico confessionale di cui la piazza chiede la fine, quindi dei partiti confessionali e del clientelismo a loro connaturato e di cui sono piena espressione.

La bella piazza

Ad accompagnarci in questo viaggio nella “bella piazza” di Beirut, è una delle più brilanti reporter de L’Orient-Le-Jour, il giornale in lingua francofona del Libano, Stéphanie Khouri. Questo il suo racconto: “Martedì 11 agosto, una settimana dopo la doppia esplosione nel porto di Beirut. Il giorno prima il primo ministro aveva annunciato le dimissioni del suo governo. Fino a poco tempo fa, la sua decisione sarebbe stata come una gioiosa bomba, che riflette il successo del movimento di protesta contro il governo al potere. Ma l’annuncio di Hassane Diab è passato quasi inosservato. Come se l’esplosione del 4 agosto avesse cambiato la situazione e le aspettative, sconvolgendo le menti della gente. ‘Non ci fermeremo alle dimissioni del governo, tutto il sistema deve cadere”’, ha detto un manifestante ai piedi della statua dell’Emigrante, intatta davanti alle rovine del porto. È qui che centinaia di persone hanno scelto di organizzare, ieri alle 17, un raduno per onorare la memoria delle 171 vittime e delle migliaia di feriti caduti martedì scorso nei quartieri del porto. I nomi delle 171 persone sono stati letti uno per uno. ‘Sono qui oggi per tutte le nostre vittime, il cui sangue non si è ancora asciugato’, ha detto un medico. L’omaggio ai caduti comprende anche una richiesta di giustizia, incarnata dal patibolo nell’effigie dei “responsabili” che continuano a dimostrare la loro irresponsabilità. La giustizia come condizione necessaria per il lutto collettivo, unico rimedio per curare l’assurdità infinita di un regime. ‘Contrariamente a quanto dice Michel Aoun, è l’indagine locale che diluirebbe la verità, ne sono certo”, afferma un avvocato, riferendosi al rifiuto del capo dello Stato di affidare l’indagine sui motivi esatti dell’esplosione a una commissione internazionale.

Più che un semplice ricordo doloroso, il raduno era anche destinato a rilanciare il movimento di protesta ereditato dal 17 ottobre, ripreso sulla scia del 4 agosto. Dopo aver cantato l’inno nazionale e osservato un minuto di silenzio, i manifestanti hanno marciato verso Piazza dei Martiri, con le candele in mano. Una marcia dal porto alla Piazza dei Martiri, il tempo di passare dalla contemplazione all’indignazione. ‘Sono sceso in strada oggi per la commemorazione dell’esplosione. Ma in ogni caso, sono qui ogni giorno per aiutare. La partenza del governo non significa nulla. Se avessero davvero capito, si sarebbero dimessi il giorno dell’esplosione. Ora chiediamo le dimissioni totali, dal presidente e dal parlamento”, dice Rita, studentessa di giornalismo di Saida.

I dimostranti non nascondono i loro obiettivi. “Un governo di transizione composto da esperti indipendenti, un team eccezionale per preparare la prossima fase e le elezioni parlamentari”, riassume un volantino. I nemici del popolo sono chiaramente identificati. “Beirut è libera, l’Iran è fuori! “scandiscono i manifestanti, tra gli insulti al capo dello Stato. Come ogni sera da sabato, la rabbia dei manifestanti era diretta contro alcuni f simboli forte del regime, come un pupazzo gigante che rappresenta Michel Aoun, appeso all’estremità di una corda e bruciato davanti a uno degli ingressi del Parlamento. E come ogni sera da sabato, la manifestazione si è rapidamente trasformata in un confronto con la polizia, che ha lanciato bombe lacrimogene e ha sparato dai tetti dei palazzi di Weygand Street per far ritirare i manifestanti. Tra omaggio e commemorazione, il raduno è stato in definitiva inteso come una rivolta contro il vecchio ordine. “Il nostro Libano è morto la settimana scorsa, oggi è il primo giorno della nostra nazione”, ha esclamato un manifestante. Dal rendere omaggio alla richiesta di cambiamento, anche un’epurazione del sistema in atto, è solo un passo avanti”. Così Stéphanie Khouri.

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Almeno sulla carta, oggi i manifestanti sembrano avere un   maggiore potere negoziale, e certamente una parte di essi ha molto meno da perdere. Tuttavia, qualunque governo venga formato da qui ai prossimi mesi – non è escluso che Diab mantenga la sua posizione amministrativa per diverse settimane, in un Paese che ha avuto qualcosa come 80 governi in 75 anni – esso non potrà che passare per l’approvazione del Parlamento, o più prosaicamente della maggioranza al suo interno.

Sullo sfondo, emergono gli opportunismi politici dei partiti che oggi sono all’opposizione, come il “Mustaqbal” di Saad Hariri (a cui si aggiunge la discreta ascesa del fratello Bahaa, in competizione con l’ex premier), il partito socialista progressista druso di Walid Jumblatt o le formazioni della destra nazionalista cristiana, cioè le Forze Libanesi di Samir Geagea e i Falangisti della famiglia Gemayel. Tutti “parte del problema”. Consci destinatari di una protesta totale, sistemica, ma anche pronti a cavalcare il diffuso malcontento che oggi si concentra contro i partiti “di governo”.

Si continua a scavare

Secondo diverse stime, a seguito dell’esplosione circa 300mila persone sono rimaste senza casa. Lunedì secondo alcuni giornali online i morti erano 220 e i dispersi 110 (il ministero della Salute ha invece parlato di 171 morti confermate). I feriti sono più di 6mila. Gli ospedali della città, molti dei quali sono stati danneggiati, non riescono ad accoglierli tutti e il più vicino all’esplosione ha dovuto occuparsi di alcuni pazienti per la strada

 perché non aveva abbastanza spazio. Altri due ospedali sono completamente fuori uso, e ci sono stati dei morti anche tra il personale sanitario: il sindacato delle infermiere libanesi ha confermato che almeno cinque infermiere sono morte nell’incidente. Un ulteriore pericolo è che la nuova emergenza favorisca la diffusione del coronavirus, sovraccaricando ulteriormente le strutture sanitarie. Nel frattempo c’è un serio problema alimentare, perché l’esplosione ha distrutto  il porto da cui il Paese riceveva la maggior parte del grano importato e un magazzino dove erano conservati i maggiori quantitativi di scorte private. A differenza di altri Paesi che dipendono dalle importazioni di grano, il Libano non ha delle scorte governative di emergenza da rendere disponibili in caso di crisi. Si stima che con le scorte private rimaste a disposizione dopo l’esplosione il paese possa andare avanti circa sei settimane.

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Intanto dalle ricostruzioni sulle cause dell’esplosione risulta che nonostante i molti avvertimenti e gli appelli per lo smaltimento, il nitrato di ammonio non fu mai portato via dal magazzino del porto. Le quasi tremila tonnellate del composto chimico, che può essere usato come fertilizzante o per costruire bombe, erano al porto di Beirut dal 2013, quando vi arrivarono a bordo di una nave mercantile di proprietà russa. La Bbc ha spiegato che he il nitrato di ammonio, che normalmente è sotto forma di piccoli cristalli, se mal conservato diventa sempre più pericoloso con il passare del tempo, perché il contatto con l’umidità dell’aria lo rende compatto. In questo stato, a contatto con il fuoco genera un’esplosione molto più intensa. La causa immediata dell’incendio è stata probabilmente individuata in una saldatura in corso il giorno dell’incidente sulla porta del magazzino che conteneva il nitrato di ammonio.

E mentre si continua a scavare, a fare la conta dei morti, e a protestare, continua il rimpallo delle responsabilità tra le varie autorità libanesi. Durissimo è l’editoriale di Issa Goraieb pubblicato oggi dall’OLY: “Quello a cui stia assistendo è uno spettacolo indecoroso, come quello delle autorità politiche, delle autorità portuali e doganali, dell’esercito, dei vari servizi segreti e dei magistrati che si accusano a vicenda per il disastro. Basta questo per dare il tocco finale alla triste immagine che lo Stato libanese offre al mondo di un padre indegno, disattento dei suoi figli, un giocatore d’azzardo, un bevitore e, soprattutto, un ladro, che si è dilettato con il patrimonio familiare prima di ritrovarsi sul lastrico e di fare appello alla carità internazionale. E’ l’indegna esibizione della cleptocrazia libanese. E poiché nessun funzionario osa, per paura di essere fischiato o peggio, sono solo i visitatori stranieri che vanno a confortare la popolazione colpita… Ma che dire dell’immagine dello Stato, e delle sue massime autorità, che i cittadini stessi hanno? Mai prima d’ora negli annali libanesi il regime è stato oggetto di una tale ira popolare, di un tale diluvio di maledizioni, insulti, pronunciati sia per le strade che da molti media. Mai prima d’ora la presidenza della Repubblica è stata così screditata, diventando di giorno in giorno l’obiettivo prioritario della protesta. Come il gigantesco fungo che è stato vomitato dall’esplosione del 4 agosto, il disgusto e la rabbia non potevano che salire in alto, molto in alto. Il generale Michel Aoun – che in virtù della sua posizione è anche il comandante supremo delle forze armate – non ha certo aiutato la situazione dichiarando di non avere il potere di controllare il dog sitter assassino che regnava nel porto… Per questi motivi, i fumi del cataclisma dovrebbero, come minimo, alterare seriamente l’aria pulita di Bkerké (il palazzo presidenziale, ndr), al punto da imporre alcune radicali revisioni. Per la preoccupazione degli interessi politici e istituzionali dei maroniti, per l’attaccamento ai principi fondanti dello Stato del Grande Libano, il patriarcato ha storicamente regolarmente proibito ogni attacco al mandato presidenziale. Tuttavia, così come il popolo, oltre alle calamità domestiche, è ostaggio di un contesto regionale perverso, Michel Aoun è prigioniero delle sue alleanze, quelle che gli hanno permesso di soddisfare le sue ambizioni presidenziali. Egli è in obbligo con i   suoi alleati; anche lui è un ostaggio impotente”.

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In attesa di capire cosa succederà, una cosa sembra chiara:, concordano analisti politici e fonti diplomatiche a Beirut con cui Globalist ha parlato:  dietro le dimissioni del premier si nasconde un regolamento di conti politico con il presidente della camera, Nabih Berri. Tutto è cominciato la sera dell’8 agosto, quando il primo ministro uscente si è rivolto alla nazione, annunciando che avrebbe presentato al consiglio dei ministri (che si è tenuto il 10 agosto) un disegno di legge che prevedeva le elezioni anticipate. In questo modo Diab ha tentato di calmare la rabbia dei manifestanti, dopo una giornata segnata da violenti scontri con le forze dell’ordine intorno al parlamento. Le parole di Diab non sono servite ad attenuare il malcontento della folla e in più hanno scatenato l’ira del presidente della camera. 

Secondo una fonte anonima, Berri avrebbe visto nella mossa di Diab un attacco alle sue prerogative e a quelle del parlamento, anche perché il primo ministro dimissionario ha parlato di elezioni anticipate senza consultarsi né con il presidente della camera né con Hezbolah, ovvero i principali sostenitori del governo. A questo punto, riferisce la fonte, Berri ha deciso di convocare un dibattito alla camera il 13 agosto, con la tragedia del 4 agosto sullo sfondo. La seduta avrebbe dovuto provocare la caduta del governo, ma le dimissioni di Hassan Diab hanno privato Berri della soddisfazione di essere la causa della fine dell’esecutivo. 

Hezbollah è stato informato della determinazione di Berri a liberarsi di Diab. L’organizzazione ha accettato le dimissioni del primo ministro, mentre il direttore dell’intelligence libanese, Abbas Ibrahim, cercava invano di gettare acqua sul fuoco per l’ennesima volta.

Un’impresa non riuscita. Perché Beirut brucia. Di dolore, di rabbia. E della volontà indomita di farla finita con la cleptocrazia al potere.

 

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