Caso Regeni, la compagnia di giro che ridicolizza l'Italia
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Caso Regeni, la compagnia di giro che ridicolizza l'Italia

Se non riuscite a venire a patti con la vostra coscienza, almeno cercate di dare un senso compiuto, e univoco, ai vostri comportamenti politici e istituzionali

Una manifestazione per la verità sulla morte di Regeni
Una manifestazione per la verità sulla morte di Regeni
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

3 Luglio 2020 - 13.09


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A Roma c’è un detto che ben si attaglia a questa triste vicenda: fate pace cor cervello. Che nello specifico del caso Regeni, può essere tradotto così: se non riuscite a venire a patti con la vostra coscienza, almeno cercate di dare un senso compiuto, e univoco, ai vostri comportamenti politici e istituzionali. E invece…

Invece ecco a voi un presidente del Consiglio imbarazzato e imbarazzante nel maldestro tentativo di tenere legati affari e diritti umani. C’è poi il presidente della Camera dei deputati, terza carica dello Stato, che alza i toni, indossa i guanti da pugile, e parla di cazzotti ricevuti dall’Egitto. Poi ci sono i silenti illustri, quelli che per non contraddire se stessi preferiscono tacere. La compagnia di giro conta tra le sue fila il ministro degli Esteri e il segretario del Pd. Insomma, siamo alla farsa. Una tragica farsa, recitata male da attori da avanspettacolo della politica.

Tragica farsa

Il campione italiano di arrampicamento sugli specchi è Giuseppe Conte.  Dopo il fallimentare incontro del 1° luglio tra i magistrati della procura di Roma e i loro colleghi de Il Cairo, prende la parola Giuseppe Conte, sottolineando che il caso “è una questione che seguiamo con la massima attenzione, non rimaniamo affatto indifferenti, ora acquisirò anche maggiori informazioni” ma precisando come “da un incontro non è che ne deriva automaticamente un riposizionamento dell’Italia: non è che c’è un’automatica e biunivoca corrispondenza tra Procura della Repubblica e Palazzo Chigi”.

Una performance dialettica straordinariamente penosa. Parole messe in fila per cercare di giustificare l’ingiustificabile. E poi l’insopportabile aggettivazione. L’attenzione? “Massima”. Indifferenti? “Affatto”. E poi un furbesco avverbio: da un incontro non è che ne deriva automaticamente etc.

Chiacchiere e distintivo. Un insulto, l’ennesimo, all’intelligenza di quanti, a cominciare dai genitori di Giulio, Paola e Carlo Regeni, continuano a battersi, con coraggio, determinazione, per esigere verità e giustizia per la morte del loro figlio. In un Paese normale, con la schiena diritta, chi ha responsabilità di governo non può ridursi a recitare la parte del “furbetto di Palazzo Chigi”. Visto che il presidente del Consiglio si è autoproclamato “l’avvocato degli italiani”, allora il suo essere avvocato assomiglia all’azzeccagarbugli di manzoniana memoria. Se fosse stato davvero l’avvocato degli italiani, e italiano erano Giulio Regeni, italiani sono i suoi famigliari e amici, dopo l’ennesima presa in giro da parte egiziana, avrebbe dovuto pronunciare una parola, una parola sola: Basta. E, se avesse avuto un briciolo di dignità e di orgoglio nazionale, avrebbe dovuto annunciare due cose: stop agli affari con l’Egitto, richiamo dell’ambasciatore Cantini. Niente di tutto questo è avvenuto.

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Da Palazzo Chigi facciamo qualche metro per raggiungere, virtualmente, Montecitorio. E qui la musica cambia. “L’incontro fra le procure è andato malissimo. L’Egitto ha dato un vero e proprio cazzotto in faccia all’Italia, a tutti gli italiani, al nostro Stato. Bisogna dare una risposta risoluta e veloce”, dice il presidente della Camera dei deputati Roberto Fico in un’intervista, ieri, al Tg1.

Ehi, verrebbe da dire: Fico non le ha mandate a dire a quel brutto ceffo che comanda in Egitto. Un cazzotto a tutti gli italiani…E allora? Se ricevi un cazzotto che fai? Reagisci o porgi l’altra guancia per farti colpire di nuovo.  Fico sembrerebbe uno che vorrebbe reagire, ma poi ecco che pure lui si avvita nella contiana aggettivazione. Una risposta da dare? Deve essere risoluta e veloce. Ma in cosa debba concretizzarsi quella risoluta e veloce risposta, il presidente della Camera non lo dice. Forse perché a dirlo dovrebbe essere il suo compagno di partito, il ministro degli Affari esteri e Cooperazione internazionale, Luigi Di Maio.

Ma il titolare della Farnesina preferisce il silenzio, come se la questione non lo riguardasse. Incredibile ma vero. E questa compagnia di giro dovrebbe impensierire il presidente-carceriere egiziano Abdel Fattah al-Sisi? Non scherziamo, per favore.

Intanto l’indagine della Procura di Roma sul rapimento e la morte di Giulio Regeni va avanti. Ed è una corsa contro il tempo perché entro il prossimo autunno il pm Sergio Colaiocco, titolare del fascicolo, dovrà chiudere il procedimento. Il 4 dicembre scadono, infatti, i due anni dall’iscrizione nel registro degli indagati di cinque ufficiali dei servizi segreti del Cairo accusati di sequestro di persona.

Nel registro sono iscritti ufficiali della National security, i servizi di sicurezza interna. Si tratta del generale Sabir Tareq, dei colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal, del maggiore  Magdi Sharif  e dell’agente Mhamoud Najem. A questi nomi, per i quali Roma ha chiesto l’elezione di domicilio, potrebbero affiancarsi altri 007 che avrebbero avuto un ruolo nella vicenda del ricercatore friulano trovato morto nel febbraio del 2016. Sono almeno altre cinque le persone su cui si stanno effettuando accertamenti, tutti colleghi degli ufficiali già indagati. I loro nomi spuntano dai tabulati telefonici forniti nei mesi scorsi dalle autorità egiziane.

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Intanto a piazzale Clodio si attende un riscontro alla rogatoria inviata nel maggio del 2019: nei 12 quesiti si fa riferimento agli altri uomini degli apparati che avrebbero avuto un ruolo nella vicenda di Regeni. In particolare si chiedeva di “mettere a fuoco il ruolo di altri soggetti della National Security che risultano in stretti rapporti con gli attuali cinque indagati”.  L’incontro avvenuto l’1° in videoconferenza, non ha portato a sostanziali cambiamenti. Il procuratore generale egiziano “ha assicurato che, sulla base del principio di reciprocità, le richieste avanzate dalla procura di Roma sono allo studio per la formulazione delle relative risposte alla luce della legislazione egiziana vigente”. Sul punto però il Procuratore di Roma, Michele Prestipino, ha “insistito sulla necessità di avere riscontro concreto, in tempi brevi, alla rogatoria avanzata nell’aprile del 2019 ed in particolare in ordine all’elezione di domicilio degli indagati, alla presenza e alle dichiarazioni rese da uno degli indagati in Kenya nell’agosto del 2017”. Il vertice si è concluso senza che venisse fissato, fin da ora, un nuovo appuntamento tra i magistrati. Dal Cairo assicurano che “la Procura di Roma toccherà con mano la trasparenza della squadra di inquirenti egiziani e il desiderio di giungere alla verità nel prossimo periodo”. Per i genitori del ricercatore l’Italia dovrebbe richiamare l’ambasciatore. Sul punto il sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano, taglia corto: “Non credo che il ritiro dell’ambasciatore sia una soluzione, non l’ho mai creduto per un semplice motivo: l’ambasciatore è sostanzialmente il rappresentante del suo Paese in un altro Paese. Se si toglie l’ambasciatore di fatto si finisce di dialogare, ma a noi interessa dialogare perché dobbiamo avere la verità su Regeni”.

Ecco, ci mancava pure Di Stefano. Hai voglia a dire che l’abito non fa il monaco. Stare al governo trasforma il barricadero presidente pentastellato della Commissione esteri della Camera, quello che tuonava contro il premier Gentiloni per aver osato rimandare al Cairo l’ambasciatore Cantini, nel sottosegretario agli Esteri più realista del re. E visto che ci siamo, eccovi Alessandro Di Battista: “Proprio in questi giorni, alla vigilia di Ferragosto, Gentiloni in persona ha ben pensato di far tornare aIl Cairo l’ambasciatore Giampaolo Cantini: una misura che per modalità e tempistica ci indigna profondamente e che, oggi, uccide Giulio una seconda volta” (Alessandro Di Battista, 16 agosto 2017). Non vi basta, e allora leggete questo: “A giudicare dalle passerelle dei nostri ministri e dalle timide dichiarazioni del premier, anche in questa vicenda, ancora una volta si rischia di preferire gli interessi economici. In Egitto l’Eni ha interessi stratosferici ed Edison, Intesa Sanpaolo, Pirelli, Italcementi, Ansaldo, Tecnimont, Danieli, Techint, Cementir stanno piantando tende. Alcuni di questi gruppi hanno Renzi al guinzaglio e non gli permetteranno mai di fare la voce grossa con il dittatore al-Sisi per ottenere la verità sui responsabili della morte di Giulio. L’Egitto ci prende in giro. Ci avevano detto che Giulio fosse morto in un incidente d’auto, ma dopo l’autopsia in Italia scopriamo che la vera causa è stata la frattura della vertebra cervicale dopo un colpo alla testa. Sul corpo ci sono segni di un violento pestaggio. Ora come ora, se al -Sisi si ostinerà a nascondere la verità, il Governo dovrebbe minacciare e eventualmente avviare ritorsioni economiche verso l’Egitto” . Chi è l’autore di questo possente j’accuse? Luigi Di Maio (7 febbraio 2016). Passano 7 giorni, è “Giggino” rincara la dose: “Inoltre, chiediamo a Renzi di sospendere immediatamente l’export di armi dall’Italia verso Il Cairo, se non vuole rendersi complice del regime di Al-Sisi, accusato di una repressione interna e di numerose violazioni dei diritti umani. L’Italia alzi la testa!” (Luigi Di Maio, 14 febbraio 2016).

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Ora che si è al governo, però, la prospettiva pare sia cambiata completamente. E al-Sisi viene invitato in visita ufficiale in Italia, oltre che al tavolo dei negoziati sulla Libia (per il “fondamentale ruolo che l’Egitto gioca in Cirenaica”).  E quello che un tempo erano per i pentestellati un brutale dittatore, è diventato, parole di Di Maio, uno che ha la faccia tosta di dire, e Di Maio, riportarlo ai giornalisti dopo il loro incontro al Cairo, “Regeni è uno di noi”.

La cronaca politica narra di un “lungo colloquio”, lungo e “chiarificatore” avvenuto in mattinata tra Conte e Fico sul caso Regeni. E i retroscenisti in servizio effettivo permanente narrano di un Di Maio imbufalito con il suo sottosegretario ciarliero, che aveva fatto il pompiere, mentre la Farnesina faceva filtrare l’irritazione del ministro e la presa in considerazione di un richiamo dell’ambasciatore Cantini.

Che brutta fine, povera Italia nostra. 

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