Libia, così nasce il protettorato egiziano di Cirenaica
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Libia, così nasce il protettorato egiziano di Cirenaica

Al Sisi ha detto ufficialmente che le sue truppe entreranno in azione se le forze del Governo di Accordo Nazionale varcheranno quella che definito “la linea rossa che collega Al Jufra a Sirte”.

Il presidente egiziano Al Sisi
Il presidente egiziano Al Sisi
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

22 Giugno 2020 - 16.54


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In Libia il “mondo di mezzo” non esiste. Non esiste, al di là delle vacue parole pronunciate in conferenze o incontri senza costrutto alcuno, una visione strategica condivisa dagli innumerevoli attori, interni ed esterni, sul futuro del Paese nordafricano. Non esiste altra diplomazia operante diversa da quella delle armi. Certo, un giorno si arriverà pure ad aprire un tavolo negoziale, ma esso dovrà semplicemente registrare, e tradurre in un piano di spartizione territoriale e petrolifera, i rapporti di forza definiti sul campo.

Il resto, sono solo chiacchiere

Guerra di dichiarazioni

Rigettiamo con forza l’annuncio di al- Sisi – si legge sulla pagina ufficiale facebook del Governo di Accordo Nazionale libico, riconosciuto dalla comunità internazionale – e lo consideriamo un prolungamento della guerra contro il popolo libico, un intervento nei suoi affari interni, una minaccia grave per la sicurezza libica e dell’Africa del Nord”. ”La Libia è un Paese sovrano, nessuna parte straniera avrà alcuna autorità sul nostro popolo e sulle nostre risorse” – si legge ancora – “che difende il diritto del suo governo di instaurare la sovranità dello Stato su tutto il territorio”.

Di tenore opposto la posizione del presidente del parlamento di Tobruk (Hor), Aguila Saleh, che in una nota apprezza la risposta egiziana alla richiesta di aiuto che Tobruk aveva lanciato al parlamento del Cairo “contro l’invasione straniera”.

Saleh chiede alla comunità internazionale e alla Missione delle Nazioni Unite in Libia di attivare le conclusioni della conferenza di Berlino. Bisogna tagliare la strada all’avidità straniera – dice Saleh – che mira a saccheggiare la nostra ricchezza”. In un distinto comunicato una quarantina di deputati dello Hor ha però espresso ostilità all’ipotesi di un intervento armato egiziano.  

Ieri il presidente Abdel Fattah Al Sisi, parlando nella base militare di Sidi Barrani, a 95 km dal confine libico, ha detto al suo esercito di prepararsi a qualsiasi missione se le forze del Governo di Accordo Nazionale varcheranno quella che definito “la linea rossa che collega Al Jufra a Sirte”. L’Egitto interverrà al fianco delle tribù locali”, ha spiegato al Sisi, “per garantire sicurezza e stabilità del Paese”. Oggi il ministro degli Esteri egiziano ha gettato acqua sul fuoco e chiarisce il senso delle dichiarazioni del presidente-generale: “Un intervento militare in Libia sarebbe solo l’ultima opzione, anche se consideriamo la presenza di militari turchi nel èpaese una minaccia alla nostra sicurezza”, dice Shoukry, e conclude: “vogliamo una soluzione politica e che si permetta al popolo libico di andare prima o poi ad elezioni”. Shoukry ha sentito oggi il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov, il quale ha sottolineato che per Mosca, alleata di Haftar insieme al Cairo e agli Emirati Arabi, “Non esiste una soluzione militare al conflitto”.

  L’avvertimento del Cairo, è dunque esplicitamente diretto all’avversario turco, vero regista delle operazioni belliche di Tripoli. Infatti è arrivato subito dopo che Ankara, attraverso il portavoce di Erdogan, Ibrahim Kalim, ieri ha subordinato il cessate il fuoco al ritiro di Haftar proprio da Sirte e Al Jufra, centri strategici su cui si è arenata la controffensiva del Gna. Esattamente la “linea rossa” oltre la quale il Cairo, da sempre sostenitore di Haftar, si sente autorizzato a intervenire, per impedire ai miliziani turchi, che ritiene jihadisti e terroristi, di avvicinarsi al confine libico-egiziano. “Non abbiamo mire espansionistiche – ha precisato al-Sisi – avanzeremo solo accanto al popolo libico e subito dopo lasceremo la missione”. Abbiamo la forza armata più forte della regione, ha voluto ricordare il “faraone”.

L’esercito egiziano è il dodicesimo al mondo: dispone di armamenti moderni e conta quasi un milione di effettivi.

Le mire del “Faraone”

Oltre a interessi militari e politici, l’Egitto è spinto a partecipare attivamente nello scenario libico anche da interessi economici, tanto fragili quanto importanti per il governo di al-Sisi. Il presidente egiziano ha di fatto mostrato la propria preoccupazione per i cittadini egiziani in Libia, lavoratori emigrati da decenni che, una volta iniziati gli scontri militari, hanno cercato protezione in patria pur senza avere la possibilità di essere riassorbiti nel tessuto lavorativo e sociale (scenario attualmente inattuabile per il fragile Egitto). Le stime dei lavoratori egiziani in Libia si aggirano intorno a una cifra che va dai 700.000 al milione e mezzo di unità. Lavoratori che versano sotto forma di rimesse in Egitto quasi venti miliardi di dollari, linfa vitale per le casse di uno stato in estrema difficoltà economica nonché politica e sociale.

A far gola ad al-Sisi c’è anche il futuro energetico dell’Egitto. Un paese che intende sviluppare la propria infrastruttura industriale ha sempre necessità di petrolio. Necessità che può essere soddisfatta da Haftar, qualora diventi leader riconosciuto della Libia. La vittoria del governo di Tobruk offrirebbe un’opportunità non da poco per l’Egitto, che intende rilanciarsi economicamente anche grazie alle fonti energetiche presenti in una regione nella quale vuole tornare a fare la voce grossa. Linfa vitale per le imprese del settore energetico egiziano, nei decenni passati tagliate fuori quasi del tutto dalla francese Total e dall’italiana Eni.

Giochi di posizionamento

Il portavoce della presidenza turca, Ibrahim Kalin, è tornato sul braccio di ferro, per ora solo mediatico, tra Turchia ed Egitto, dichiarando che Ankara “comprende le legittime preoccupazioni di sicurezza dell’Egitto circa il suo confine comune con la Libia”, sottolineando che il Cairo sta perseguendo una politica sbagliata con il sostegno ad Haftar.

Il portavoce ha aggiunto che “non possiamo trascurare l’importanza della pace in Libia per l’Egitto”, affermando che la Turchia è determinata a restare in Libia “finchè il Governo libico vuole che rimaniamo”. 

La presidenza turca ha accusato gli Emirati Arabi Uniti di “finanziare la guerra”, sottolineando la necessità di stabilire una tregua sostenibile in Libia. “La Turchia – ha affermato Kalin – sostiene la posizione del governo libico che chiede il ritiro delle forze del colpo di stato del generale Khalifa Haftar dalle città di Sirte e Al-Jufra per garantire un cessate il fuoco sostenibile”.

Va detto che la Turchia, impegnata militarmente in Libia con propri ufficiali, combattenti e miliziani siriani, ha fino ad oggi rigettato qualsiasi accordo di cessate il fuoco, nonostante i numerosi appelli internazionali. Ankara è stata protagonista anche di “incidenti” con la Missione Navale europea Irini rifiutando il sopralluogo a bordo di sue navi, sospettate di trasportare armi in Libia.

Il portavoce di Erdogan ha proseguito criticando anche la posizione francese, affermando che Parigi “mette in pericolo la sicurezza della Nato con il suo sostegno ad Haftar”, precisando che la Turchia “sostiene un governo legittimo in Libia, mentre il governo francese supporta un barone della guerra illegale, e la sicurezza della Nato, del Mar Mediterraneo, del Nord Africa e della stabilità politica in Libia sono a rischio”.

E la chiosa finale è dedicata ad Haftar. Ed è una condanna senza appello:“Era inaffidabile fin dall’inizio, minando tutti gli accordi di tregua e le iniziative di de-escalation”, sentenzia Kalin, spiegando che il Gna non accetterà alcun negoziato che includerà Haftar

Bruxelles batte un colpo

 “I libici e la Libia non hanno bisogno di ulteriori escalation, le recenti dichiarazioni e le interferenze da parte di attori esterni sono fonte di grave preoccupazione”. Così un portavoce della Commissione Ue a chi gli chiedeva di commentare le recenti dichiarazioni dell’Egitto, che ha minacciato un intervento militare nel Paese. “E’ importante disinnescare le tensioni e gli attori internazionali coinvolti dovrebbero lavorare a questo, non aumentarle – ha aggiunto -. E’ cruciale uno stop immediato alle attività militari e che ci si concentri su una soluzione negoziale”.

“L’unica strada responsabile” da percorrere, “che è nell’interesse dei libici e della stabilità regionale, è focalizzarsi su una soluzione negoziale” che avvenga “sotto l’egida dell’Onu nel quadro del processo di Berlino”, ha precisato il portavoce.

Chi scrive ha fatto una ricerca su Google per fare una conta, approssimativa, di quante volte da Bruxelles (Ue), o da New York (Onu) o da Roma (Palazzo Chigi e Farnesina) tali affermazioni siano state reiterate: 157, solo negli ultimi 12 mesi. Una ogni due giorni, pressappoco. Dichiarazioni facsimile, e tutte hanno fatto la stessa fine: miserabile. Perché nessuno tra i responsabili dell’inferno libico, alcuni dei quali parte del circo dei dichiaranti, ha smesso di sparare, di armare, di finanziare , i signori della guerra mascherati da politici.

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