Israele, il generale si arrende a "King Bibi". Radiografia di un fallimento di nome Gantz
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Israele, il generale si arrende a "King Bibi". Radiografia di un fallimento di nome Gantz

L’uomo che doveva porre fine all’”era Netanyahu” ora si ritrova a dover condividere il probabile nuovo governo con il primo ministro più longevo nella storia dello Stato ebraico.

Benny Gantz
Benny Gantz
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

1 Aprile 2020 - 17.42


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Non basta essere stato un bravo generale, un discreto capo di stato maggiore, un uomo senza scheletri (giudiziari) nell’armadio. Non basta tutto questo per trasformarti in un politico di primo livello. Certo, l’effetto novità può pagare nel breve, portare a un incasso elettorale, ma poi, quando arriva il momento della verità, quando il gioco si fa duro, l’homo totus politicus finisce per surclassare l’”apprendista”.

E’ la storia di Benny Gantz. L’uomo che doveva porre fine all’”era Netanyahu”, spodestare dal trono “King Bibi” e che ora si ritrova a dover condividere il probabile nuovo governo d’Israele con Benjamin Netanyahu, il primo ministro più longevo nella storia dello Stato ebraico. Una longevità che, stando alle trattative in corso, dovrebbe prolungarsi fino a settembre-ottobre 2021. Diciotto mesi: una eternità per la volubile politica israeliana.

Senza combattere

Gantz ha perso un’occasione irripetibile. E ha perso perché è venuto meno alla stessa narrazione su cui aveva costruito la sua entrata nell’agone politico: quello di un uomo tutto di un pezzo, che fa quel che dice, coerente con i principi che hanno ispirato la sua vita militare (e in Israele questo conta molto). Insomma un uomo tutto di un pezzo. Ma il generale Gantz non ha tenuto fede a questa narrazione: ha ondeggiato, ha fatto marcia indietro più volte, dimostrando alla fine un’assenza di rigore, che era la sua qualità precipua. Ora: in una politica, come quella israeliana, dominata da vecchie volpi e da “pescecani”, si può anche essere “ondivaghi” e magari anche contraddire se stessi, a una condizione, però: saperlo fare, dimostrare di essere capace di dare le carte al tavolo delle trattive, rilanciare quando è il caso e anche, quando è il caso, saper bluffare. A quel tavolo da poker il leader di Kahol Lavan (Blu e Bianco) ci si è seduto ma alla fine ha dovuto cedere al rilancio di un avversario, Netanyahu, che nel suo abile cinismo, dove l’accento cade sull’aggettivo, ha saputo utilizzare al meglio anche l’emergenza sanitaria. A ben vedere, quella israeliana è una storia che ai tempi del Covid-19 varca i confini nazionali e parla anche a noi. A noi italiani, a noi europei. In momenti tragicamente eccezionali, come quello che stiamo vivendo, i dilettanti in politica vanno allo sbaraglio e l’opinione pubblica, impaurita, insicura, cerca certezze affidandosi all’uomo forte, all’usato sicuro. In Israele, a Benjamin Netanyahu. E’ un discorso che va oltre la classica divisione destra/sinistra (Gantz, peraltro, di sinistra non è mai stato) e investe categorie metapolitiche che, messe assieme, formano la psicologia di una nazione.

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Il capolavoro di “Bibi”

Ma non c’è solo la riconferma a capo del governo israeliano. La sua operazione, di Netanyahu, è stata un autentico capolavoro politico , concordano gli analisti politici a Tel Aviv, pur dando a quel “capolavoro” differenti giudizi di merito. Ma nessuno mette in discussione che il premier più longevo nella storia d’Israele, in un colo solo ha mantenuto la guida del nuovo governo, per 18 mesi, certo, ma nella politica israeliana sono una eternità, e mandato in frantumi l’alleanza che per tre elezioni consecutive gli ha sbarrato la strada per la vittoria.

La coalizione Blu e Bianco non esiste più. I due partiti anti-Netanyahu della coalizione, Yesh Atid guidato da Yair Lapid e Telem capeggiato da Moshe Ya’alon, hanno annunciato il passaggio all’opposizione, lasciando gli alleati di Israel Resilience , il partito di Gantz. La comunicazione è stata formalmente data nelle sedi di assemblea e in Aula c’è stato il voto contrario, insieme ai laburisti e alla destra nazionalista e laica, di Yisrael Beiteinu dell’ex ministro della Difesa, Avigdor Lieberman. Lapid ha spiegato che “la crisi causata dal Coronavirus non ci dà il diritto o il permesso di abbandonare i nostri valori. Non si può strisciare in un governo del genere e dire che l’hai fatto per il bene del Paese”.  E ancora: “Ciò che si sta formando oggi non è un governo di unità nazionale e non è un governo di emergenza. È un altro governo di Netanyahu. Benny Gantz si è arreso senza combattere”.  “I risultati delle elezioni hanno dimostrato che Israele aveva bisogno di quell’alternativa come noi abbiamo bisogno dell’aria per respirare. Volevamo realizzare un cambiamento, creare una speranza, iniziare un nuovo percorso. E Gantz ha deciso di interromperlo”, ha concluso il fondatore di Yesh Atid, formazione centrista nata nel 2012 occupando un ruolo rilevante nel panorama politico con una precisa identità: contrastare Netanyahu. Per l’ormai ex alleato Ya’alon, quello di Gantz è un suicidio politico. “Questo è un giorno buio – dice a Globalist – Nitzan Horowitz, leader di Meretz,la sinistra pacifista israeliana -. Non mi piace usare la parola tradimento, di certo, però, la giravolta di Gantz ne ha il sapore…”. Un sapore amaro per l’Israele che aveva puntato sul leader di Kahol Lavan come l’uomo del cambiamento, ed ora si trova a fare i conti con un continuismo mascherato da “emergenza nazionale”, in nome della lotta al Coronavirus.

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Ancora più dura in aula la laburista Merav Michaeli: “Volevi essere Yitzhak Rabin ma sei finito come un altro ex capo di Stato maggiore Shaul Mofaz, un uomo simpatico ma una caricatura di un politico che ha ceduto a Netanyahu e la cui carriera si è conclusa poco dopo”. Ma in politica, si sa, le affermazioni perentorie sono spesso “volatili”. Tant’è che il segretario del Labor, Amir Peretz, si è affrettato a dichiarare la disponibilità del suo partito a entrare nella coalizione di governo se “Netanyahu e Gantz apriranno alle nostre proposte nel campo economico e sociale”.

La lezione israeliana

Altra lezione che viene da Israele: confondere i propri auspici in realtà è qualcosa di esiziale, soprattutto in politica. E questo vale soprattutto per i circoli culturali progressisti israeliani e per il loro giornale di riferimento, Haaretz. La realtà è altra cosa rispetto alla sua percezione. E la realtà dice che è’ stata sottostimata la capacità di resilienza di Netanyahu, abile nell’identificare le maglie deboli della coalizione centrista Kahol Lavan, nata per spodestare prima di tutto Netanyahu e senza una reale volontà di leadership da parte di Gantz. “L’incapacità di superare l’impasse e formare un governo e la necessità di fronteggiare l’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del coronavirus hanno spinto Gantz a dare prova di pragmatismo, invece che di rispetto della morale”, annota David Khalfa, ricercatore associato presso l’Institut prospective et Sécurité en Europe (Ipse), specializzato in Medio Oriente.

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Ma il pragmatismo senza visione si riduce a mero tatticismo, un terreno minato per l’”apprendista” Gantz. Per Khalfa, “Netanyahu, inoltre, non sarà totalmente dipendente da Gantz e manterrà i suoi rapporti con i partiti della destra religiosa. Netanyahu ha capito che doveva mantenere unita la sua base di sostegno, gestendo anche bene i media, ed è riuscito alla fine anche a dividere l’opposizione.

Altra lezione israeliana: la scorciatoia “giustizialista” non paga. E non può sostituirsi alla politica. I guai giudiziari di Netanyahu erano e restano sotto gli occhi di tutti gli israeliani. Gantz, in prima battuta, ha provato a farsene forza, invocando il rispetto dello stato di diritto, con la separazione dei poteri, e del principio che tutti i cittadini sono eguali davanti alla Legge, e non esiste uno più eguale degli altri, neanche se questo uno è il Primo ministro.

Gantz ha perso perché, al momento della verità, non ha retto il punto. Ma c’è un altro dato, non meno significativo, che spiega la sua sconfitta, perché tale rimane anche se Gantz sarà ministro degli Esteri e, tra 18 lunghi mesi, subentrerà a Netanyahu alla guida del governo. Un dato tutto politico. Perché se sul terreno della sicurezza, nell’accettare il “Piano del secolo” di Donald Trump, con incorporate l’annessione della Valle del Giordano e delle Alture del Golan, con una modifica unilaterale dei confini d’Israele, se sbraghi su tutto questo, allora è meglio l’originale, Netanyahu, che una “fotocopia”, Gantz. Morale di una favola non a lieto fine: leader non ci s’improvvisa, tantomeno uomini della provvidenza. In passato, nei momenti di maggiore difficoltà, Israele si è rivolta a uomini in divisa diventati politici di lungo corso: Yitzhak Rabin e Ariel Sharon, solo per fare due esempi opposti rispetto agli orientamenti politici. Ma Benny Gantz ha avuto i gradi di Rabin e Sharon, ma non la statura politica. Quella non la si eredità, la si conquista sul campo.

 

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