Johannesburg, da un commissariato: 63 attivisti morti "suicidi" senza un colpevole
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Johannesburg, da un commissariato: 63 attivisti morti "suicidi" senza un colpevole

Decenni di mistero sulla fine di giovani oppositori al regime bianco ed all'apartheid. Le inchieste sino ad oggi non hanno trovato un colpevole.

Immagine simbolo dell'apartheid in Sudafrica
Immagine simbolo dell'apartheid in Sudafrica
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Diego Minuti Modifica articolo

9 Ottobre 2017 - 10.21


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Un palazzo grigio, sulla piazza dedicata a John Vorster, che fu presidente e primo ministro del Sud Africa bianco ed anche responsabile della Giustizia, uno dei simboli della repressione più feroce dell’apartheid. Il palazzo, dal profilo monotono, è qui e lì tagliato da pannelli azzurri davanti a scarni balconi che, se possibile, lo rendono quasi tetro. Sulla facciata due scritte con lettere a rilievo, la prima in inglese – Johannesburg central police station – l’altra in afrikaaner – Johannesburg Sentraal Polisiestasie – separate al centro dalla stella a otto punte del logo del corpo. A guardarlo oggi, sembra un comune ufficio governativo, con tanti uomini e donne – in divisa o in abiti civili – che entrano ed escono, indaffarati come dovrebbero essere tutti coloro che lavorano per un ufficio pubblico. Ma quel palazzo per decenni è stato il simbolo della paura per molti neri, attivisti per l’abolizione dell’apartheid. Perchè erano li che venivano portati quelli che le forze di sicurezza (bianche) fermavano e interrogavano con i loro metodi per sapere cosa ci fosse in lavorazione sul campo avverso, quello degli avversari del regime. Anche se ora sembra avere perso l’aura di casa del terrore che l’ha caratterizzato per decenni, il palazzo della Polizia di Jonannesburg nasconde ancora, nal riparo delle sue stanze, molti segreti. Le stanze sono quasi tutte quelle del decimo piano, dove c’erano quelle degli interrogatori ed i giovani neri venivano picchiati, schiaffi, pugni, cinghiate, per costringerli a parlare. E se non parlavano allora…..
63 persone, dagli anni ’60 fino al 1991, sono morte volando dalle stanze del decimo piano della Johannesburg central police station, troppe per pensare ad una illogica coincidenza. Ma quel che per tutti sembra una evidenza – che molti di quei morti siano stati scaraventati dalle finestre – non lo è ancora oggi, almeno, per la magistratura perchè nemmeno uno dei poliziotti che in quelle stanze dovevano pur esserci nel momento degli ”incidenti” o dei ”suicidi” è stato perseguito.
Un muro di omertà che si rompeva solo quando si doveva comunicare l’ ”avvenuto decesso” di un fermato. E la via era, prima ancora di avvertire le famiglie, uno scarno comunicato affidato alla radio di Stato. Fu in questo modo che Philip Mabelane apprese, quarant’anni fa, della morte per suicidio del figlio Matthews, un ragazzo di una ventina d’anni, le cui fotografie il padre conserva in un vecchio album, quello con la spirale di anelli di metallo dorato e la pellicola trasparente a proteggerle.
Nelle foto si vede un giovane abbigliato con vestiti colorati come quelli che andavano di moda tra i ragazzi neri alla fine degli anni ’70, con una coppolettta colorata e il dito puntato contro chissà chi, forse contro un mondo che non accettava. Matthews morì cadendo da dieci piani e vedendo infrangersi contro l’asfalto tutti i suoi sogni.
Lui e tanti altri, morti allo stesso modo senza responsabili, incredibilmente. Ma ora qualcosa sembra muoversi. Una corte di giustizia sta infatti riesaminando il fascicolo relativo ad un altro ”suicida”, Ahmed Timol, pure lui morto cadendo nel 1971 dal palazzo della polizia. La tesi del suicidio è stata, ripetutamente, ritenuta plausibile, ma ora la faniglia, grazie a nuovi elementi, ha ottenuto la riapertura dell’inchiesta, con fondate speranze che questa volta giustizia sia fatta. E se la corte dovesse dare ragione ai familiari di Timol, la sentenza farebbe giurisprudenza, con un effetto a valanga di nuovi processi e soprattutto di inattese incriminazioni.

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