Dayton, il grande errore bosniaco
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Dayton, il grande errore bosniaco

A due decenni dalla guerra, caos istituzionale e crisi economica caratterizzano ancora la Bosnia.

Dayton, il grande errore bosniaco
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30 Novembre 2015 - 20.07


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Ai colloqui erano presenti tutti i più importanti rappresentanti politici della regione ad eccezione del serbo-bosniaco Radovan Karadzic, che l’anno dopo sarebbe stato accusato formalmente accusato di crimini di guerra dal Tribunale dell’Aja: per l’etnia serba c’era il presidente jugoslavo Slobodan Milosevic, per i croati il capo dello Stato da poco indipendente della Croazia, Franjo Tudjman, mentre per la parte bosniaca c’era Alija Izetbegovic, accompagnato dal ministro degli Esteri Muhamed Sacirbey. La conferenza di pace, che doveva porre fine alla guerra in Bosnia, fu guidata dal mediatore statunitense Richard Holbrooke assieme all’inviato speciale dell’Unione Europea Carl Bildt e al viceministro degli Esteri di Mosca Igor Ivanov. Fu così che nacquero gli Accordi di Dayton, firmati il 21 novembre 1995 nella base americana di Wright-Patterson e ratificati a Parigi il 14 dicembre dello stesso anno. A vent’anni esatti di distanza gi analisti provano a tirare le somme sui risultati dei negoziati che fermarono l’ennesimo massacro in atto nella Jugoslavia di allora.

Secondo l’analista Branislav Bozic “in realtà, e adesso lo si riconosce, non si trattò solo di riappacificare la Bosnia ma piuttosto di allenare l’apparato internazionale al processo di globalizzazione che in quel momento storico si stava delineando. (…) In Bosnia Erzegovina sono arrivati, attraverso donazioni e cose simili, quasi dieci miliardi di euro da parte della comunità internazionale, e questo si è tradotto per abitante in una somma ben più sostanziosa del Piano Marshall che a suo tempo  consentì lo sviluppo dell’Europa occidentale”. Lo sforzo della comunità internazionale, la costituzione di organismi statali indipendenti in Bosnia e la convivenza fra le varie etnie presenti non sembra ancora avere trovato però una soluzione accettabile, in particolare alla luce del caos istituzionale continuamente denunciato da osservatori e opinione pubblica.

Secondo Lana Pasic, venti anni dopo “Dayton è ancora impresso fortemente nelle menti e nelle vite dei cittadini bosniaci, perché ancora oggi forgia la vita politica, quella istituzionale ed economica e perfino le evoluzioni interne della società. (…) E’ generalmente accettata la conclusione secondo cui il primo decennio ha portato un certo progresso, sia in termini di ripresa economica che nelle relazioni con gli Stati confinanti. Gli ultimi dieci anni sono invece ritenuti ‘una decade perduta’, un periodo in cui i cittadini bosniaci sono rimasti vittima della negligenza politica e della stagnazione economica, oltre che di crescenti disparità ed ingiustizie sociali”. Il cuore degli Accordi consiste in una stretta divisione per etnie del Paese, in modo da garantire una rappresentanza politica ed istituzionale a tutte le parti.

Questo ha portato a due conseguenze fondamentali, ovvero la presenza internazionale per continuare a garantire tale rappresentanza etnica e la manipolazione delle differenze da parte di una classe politica che ha perso progressivamente la fiducia dei cittadini. “L’allegato IV degli Accordi di pace, che rappresenta la costituzione della Bosnia Erzegovina, ha diviso il Paese in due parti – dice la Pasic – . La separazione è avvenuta basandosi sulle linee di separazione del tempo di guerra. Sono così state create due regioni distinte etnicamente. Anche se qualcuno può obiettare che non vi era allora un’altra soluzione praticabile, la perpetuazione di tali divisioni ha consolidato le divisioni, attraverso sistemi separati per l’istruzione e assegnazioni di posti di lavoro pubblici in virtù dell’appartenenza etnica”. In Europa, prosegue l’esperta, vi sono esempi di tutela delle etnie come in Svizzera, in Tirolo e in Belgio. “In Bosnia, però, le differenze etniche sono il pilastro su cui si fonda la costituzione del Paese. Questo incide sui diritti alla partecipazione politica e la rappresentanza dei gruppi minoritari.  (…) Il carattere etnico dei cantoni, delle entità e delle istituzioni che compongono lo Stato hanno minato il potenziale che serve per costruire una Nazione e per la stessa riconciliazione”. L’altro punto debole degli Accordi è l’esigenza di una prolungata presenza internazionale, sottolinea ancora la Pasic.

“Mentre le operazioni di peace-keeping erano più che necessarie nel periodo immediatamente successivo al conflitto – dice – l’estensione di un coinvolgimento straniero ha minato la credibilità delle istituzioni nazionali”. L’Alto rappresentante straniero è la più alta autorità civile del Paese, e a lui spettano dei compiti di controllo sugli aspetti civili degli Accordi. La sua nomina è effettuata dallo Steering Board del Peace Implementation Council (PIC), un organo di 55 Stati ed organizzazioni internazionali. Tale nomina viene poi approvata ufficialmente dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. “La presenza di questo ‘osservatore permanente’ – conclude la Pasic – ha consentito ai rappresentanti locali legittimamente eletti di sfuggire alle proprie responsabilità, previste nelle società democratiche per chi sta a capo di un pubblico ufficio”. Le analisi degli esperti sembrano essere confermate dai risultati delle ultime elezioni, tenute nell’autunno del 2014 e che hanno visto vincere proprio quei politici che hanno saputo fare più leva sui rigurgiti nazionalistici.

Paradossalmente non sono stati rari, nel corso degli anni, neanche i casi di “cambi” improvvisi della propria identità etnica per trarne dei vantaggi, e uno degli esempi più eclatanti è stato segnalato proprio nell’ottobre 2014, all’indomani delle elezioni. La proclamazione della nuova composizione parlamentare è stata rimandata per settimane a causa di irregolarità nella presentazione dei candidati. La Commissione centrale ha rigettato l’iscrizione di tre deputati nelle fila del gruppo serbo, dopo avere scoperto che nella precedente legislatura gli stessi nomi comparivano come appartenenti ad una diversa etnia. In realtà la stessa Commissione centrale ha più volte richiamato alla necessità di profonde modifiche nella legge, ma i partiti non hanno mai istituito una discussione parlamentare sulla materia.

Uno degli scogli più grandi è quello riguardante le dimensioni di ciascuna componente etnica nel territorio nazionale. Il numero dei rappresentanti politici è infatti proporzionale a quello degli abitanti di ciascuna componente, e al momento i calcoli si basano sui dati del 1995, quando furono stretti gli Accordi di Dayton. Un nuovo censimento è stato compiuto  fra il primo e il 15 ottobre del 2013, per la prima volta dopo 22 anni, e ancora si attendono i risultati.

(Fonti: Balkan analysis – Nin – agenzie)

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