Estremismo made in Kosovo
Top

Estremismo made in Kosovo

Il governo di Pristina sotto lo sguardo delle potenze internazionali vuole mostrare di saper reagire  di fronte alla minaccia interna del terrorismo islamico.<br>

Estremismo made in Kosovo
Preroll

redazione Modifica articolo

22 Ottobre 2014 - 08.31


ATF

La città di Kacanik, al confine con la Macedonia, nella storia del Kosovo è ricordata come il luogo dove più dura fu la resistenza alla penetrazione dell’Impero ottomano: qualche secolo dopo la stessa cittadina è nota come uno dei centri più importanti del radicalismo islamico nei Balcani occidentali, secondo quanto rivela un reportage pubblicato dal “Balkan Insight”. Da qui sono partiti molti degli estremisti islamici che hanno scelto di combattere in Siria e in Iraq fra le falangi terroriste, e molti fra gli abitanti rimasti non nascondono la loro personale “simpatia” per la causa.

“Se qualcuno me lo chiedesse anch’io ci penserei su seriamente, e forse partirei”, dice una donna che preferisce non rivelare il suo nome, seduta poco distante dalla moschea gremita per la preghiera del venerdì. Sempre in forma anonima un giovane ammette che il suo cuore “è con la legge della Sharia”, e quindi vicino all’idea di costituire uno Stato islamico. Mentor invece ha raggiunto la mezza età e non nasconde né il suo nome né la sua opinione su quella che definisce una guerra di liberazione. Traccia un parallelo con il conflitto in Kosovo del 1999, e cita l’intervento compiuto allora dalla Nato. “Quando gli stranieri sono venuti qui ad aiutarci, nessuno si è lamentato. Adesso i kosovari vanno a fare la stessa cosa”. Il problema dell’estremismo islamico in Kosovo è stato riportato alla ribalta dai media internazionali, fino a fare intervenire, in una diretta televisiva alla statunitense “Fox news Channel”, la presidente kosovara Atifete Jahjaga.

“Stiamo prendendo molto seriamente la minaccia e i nostri meccanismi di sicurezza stanno lavorando senza sosta”, ha detto la Jahjaga cercando di rassicurare l’opinione pubblica e soprattutto le autorità americane. Secondo l’agenzia di intelligence kosovara sono circa 150 i cittadini usciti dal Paese per andare a combattere in Siria o in Iraq nelle falangi dell’estremismo islamico. Circa 40 sono morti in conflitto, sempre secondo i dati dei servizi di sicurezza nazionali, mentre a decine sono attualmente dispersi. Anche se le cifre sono piccole in rapporto alle migliaia di combattenti provenienti da Paesi stranieri, il caso si fa particolarmente delicato per Pristina, perché va a contraddire gli sforzi compiuti da un Paese che fin dalla proclamazione unilaterale d’indipendenza, nel 2008, ha cercato di acquistare  i favori del contesto internazionale puntando su un’immagine di Stato giovane, democratico e progressista oltre che a maggioranza musulmana.

In questi giorni è stata lanciata l’ultima maxi-retata da parte delle forze di polizia, che ha portato a centinaia di arresti e bloccato i conti bancari di decine di organizzazioni non governative. Il sospetto per tutte è quello di fornire, dietro al paravento dell’organizzazione, supporto finanziario ai reclutatori dei terroristi islamici. La prima maxi-retata era stata lanciata due mesi fa, subito dopo l’episodio che forse più di ogni altro aveva preoccupato le autorità di Pristina, e che vedeva protagonista Lavdrim Muhaxheri, concittadino 24enne degli abitanti intervistati a Kacanik.

A fine luglio Muhaxheri aveva postato su facebook delle immagini che lo ritraevano con un coltello in mano, mentre si preparava alla decapitazione di un adolescente siriano. In un altro video Muhaxheri distruggeva il suo passaporto kosovaro mentre pronunciava un discorso in lingua araba. Lo scorso 19 agosto i media curdi avevano annunciato che Muhaxheri era morto per le ferite riportate in una battaglia contro i peshmerga. In un’intervista pubblicata poco tempo prima, il 2 agosto, dal quotidiano “Dita” di Tirana, Muhaxheri aveva dichiarato di non avere fatto “niente di più di quanto avevano fatto i membri dell’esercito di liberazione kosovara, l’Uck, durante la guerra in Kosovo”. La citazione delle forze capeggiate da Hasim Thaci, in seguito divenuto premier del Paese, rimanda ad un conflitto che secondo la fonte del “Balkan Insight” ha contribuito non poco a formare, e distorcere in casi come questo, le coscienze dei bambini di allora.

Il ricordo della guerra, dice il funzionario di intelligence, è uno dei fattori che spingono oggi i giovani kosovari ad uscire dal Paese e unirsi al terrorismo internazionale. “La maggior parte di loro era molto piccola quando ci fu il conflitto in Kosovo, e adesso vogliono provare di nuovo che cos’è la guerra”. Ad agevolare il loro trasferimento nelle zone di guerra, spiega ancora la fonte kosovara, sono i confini troppo porosi e il costo decisamente basso del viaggio.

Con un centinaio di euro è infatti assicurato il volo fino ad Istanbul e da lì un autobus porta gli estremisti fino  al confine siriano. Grazie agli arresti compiuti fra agosto e settembre, dice ancora la fonte, i membri di due cellule terroristiche si trovano nelle carceri di Pristina, e fra gli arrestati eccellenti c’è anche l’imam della più grande moschea della capitale kosovara, Shefquet Krasniqi. Il leader della comunità islamica in Kosovo, Naim Ternava, è stato da più parti accusato di avere “chiuso un occhio” in questi anni di fronte al proliferare dell’estremismo.

Sia vero oppure no, adesso Ternava mostra il pugno di ferro contro “quegli individui che vogliono interpretare l’islam in modo troppo restrittivo, e finiscono con il male interpretarlo”. Oltre ai ricordi della guerra “in casa propria” e all’influsso di imam troppo zelanti, gli esperti additano la povertà e un sistema scolastico carente quali fattori di rischio per la gioventù kosovara. Skender Perteshi, del Centro kosovaro per gli studi di sicurezza, ritiene che sia questo il contesto in cui è potuto crescere il radicalismo islamico. Le azioni della polizia sono incoraggianti in questo senso, dice, perché mandano per lo meno un messaggio che dice “che lo Stato è capace di fronteggiare tutte le minacce che gli vengono rivolte contro, incluso il terrorismo”.

(fonte: Balkan Insight)

Native

Articoli correlati