L'Egitto di piazza Tahrir, tra esercito e rivoluzione
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L'Egitto di piazza Tahrir, tra esercito e rivoluzione

Presidenziali in programma il 26 e 27 maggio, ballottaggio a giugno. L’Egitto torna alle urne per scegliere il successore di Morsi e trovare una stabilità politica. [Sara Lucaroni]

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31 Marzo 2014 - 21.03


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di Sara Lucaroni

Le dimissioni di una settimana fa del generale Abdel Fattah el Sisi dalla carica di ministro della difesa e capo delle forze armate in vista della sua candidatura alle elezioni, hanno anticipato il calendario elettorale reso noto in queste ore: si vota il successore di Morsi il 26 e 27 maggio, con secondo turno il 16 e 17 giugno. L’Egitto torna alle urne, in cerca di una stabilità politica in nome della quale forse in molti pensano di sacrificare anche le velleità libertarie che hanno portato alla cacciata di due presidenti, Hosni Mubarak prima e Mohamed Morsi poi.

È la quarta volta alle urne in due anni, dopo le presidenziali del maggio 2012 vinte dai Fratelli Musulmani e due referendum costituzionali. Ma il nodo, per gli egiziani, è capire dove sia il confine tra il senso e il peso rivoluzionario di piazza Tahrir e la capacità di strumentalizzazione delle rivolte da parte dall’esercito, che in tre anni ha avuto un ruolo politico indubbiamente centrale nel traghettare il paese attraverso la cacciata di due premier. 59 anni, ex capo dei servizi segreti di Mubarak, accademia militare e studi in Inghilterra e Stati Uniti, Sisi gode di una vasta popolarità, considerato l’uomo forte per la svolta laica e politica del paese, dopo i fallimenti economici e le derive islamiste del governo di Mohamed Morsi, democraticamente eletto nel 2012 e deposto un anno dopo. Lui a coordinare il golpe, inviando elicotteri e i carri armati in al Cairo per proteggere e legittimare la montante protesta anti- Morsi nel luglio di un anno fa, lui a dialogare col movimento di opposizione Tamarod nel suo braccio di ferro con un premier ormai in difficoltà. Lui a sostenere la leadership del presidente ad interim Adli Mansour, lui a comparire in tv, in uniforme e occhiali scuri, per invitare i cittadini a manifestare a sostegno del nuovo regime e legittimare il suo mandato per far fronte all’insicurezza e al terrorismo.

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Un ruolo in equilibrio (e in bilico) sulle violenze, gli scontri e le morti che non cessano, e dunque sulla profonda spaccatura del paese tra membri e sostenitori del partito del presidente “deposto illegittimamente”, oggi condannati a morte in massa e arginati con una messa al bando e una legge che vieta manifestazioni non autorizzate, e gli oppositori, laici che rifiutano ogni forma di islamizzazione e liberali che vedono nell’esercito un garante del ritorno all’ordine. Intanto al referendum del gennaio scorso per emendare la Costituzione del post- Morsi ha votato il 38% degli aventi diritto.

Un dato che è un test di consenso per la guida militare del paese, che ha approvato una Carta che elimina i vincoli con la sharia, ma concede ampi poteri ai vertici dell’esercito, come la possibilità di giudicare i civili nei tribunali militari. Il 20 aprile scadono i termini per presentare le candidature. Al momento a sfidare il potere di al Sisi c’è solo il nasseriano Hamdeen Sabbahi.

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