La stretta di Ankara e la maschera della paura
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La stretta di Ankara e la maschera della paura

La sproporzione tra i manifestanti e le forze dell’ordine in strada é incredibile. Ma i giovani continuano a marciare e portare avanti le proprie richieste. [Salvatore Lucente]

La stretta di Ankara e la maschera della paura
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20 Luglio 2013 - 20.06


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di Salvatore Lucente

Lungo Istiklal oggi pomeriggio ci sono di nuovo capannelli di persone, piccoli gruppi di manifestanti che fanno sentire la propria voce megafoni e bandiere alla mano, prima di sedersi a terra per celebrare il Fast, il momento in cui i musulmani interrompono il digiuno al calar del sole. Continua in questo modo la sfida quotidiana alle imposizioni del sultano Erdogan, nonostante i nuovi scontri dello scorso sabato quando sia qui che ad Ankara le forze di polizia hanno eseguito una vera eradicazione della protesta. Nella capitale, Guven park é stato nuovamente sgomberato, ed i circa 200 manifestanti che vi si trovavano dentro, tra cui molti ragazzini e madri, sono stati attaccati con acqua mischiata ad agenti chimici. L’atmosfera ad Ankara é totalmente diversa, la sproporzione tra i manifestanti e le forze dell’ordine in strada é incredibile. Eppure i giovani continuano a tornare in Kennedy Street e nei parchi, così come persone un po’ pıù in là con gli anni si ritrovano, appena il lavoro lo consente, per marciare e portare avanti le proprie richieste. Non sarà pittoresca come quella nella città del Bosforo, ma la resistenza ad Ankara continua ad essere viva anche se non é sotto i riflettori e le notizie arrivano con il contagocce.

Dopo che sabato e domenica scorsi la polizia ha fatto tabula rasa nei principali centri della protesta, la repressione é continuata casa per casa, con un totale di 48 arresti tra Istanbul, Ankara ed Izmir. Rastrellamenti nelle residenze universitarie, alla ricerca di materiale compromettente, da parte dele squadre anti terrorismo che nella sola Istanbul hanno arrestato 29 ragazzi martedì, accusandoli di condotta violenta nei confronti dei negozianti del centro e della polizia. Di questi, 21 sono stati rilasciati oggi, mentre 8 sono stati spediti al tribunale. Tra questi, Olgu Özdemir, il rappresentante provinciale della Tgb , l’Unione della Gioventù Turca. Come sempre dall’inizio della protesta, gli arresti si concentrano su persone che fanno parte di organizzazioni o movimenti politici.

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È la polizia ad applicare queste misure restrittive delle libertà personali, di stampa, di manifestazione, ma gli ordini inutile dirlo vengono dall’alto. Come decisa in alto é stata l’esclusione di Cenk Akyol dalla squadra nazionale di basket turca. Cenk é stato tra i trascinatori del Galatasaray alla conquista dello scudetto, ma si é macchiato di una gravissima colpa, ha sostenuto dall’alto della sua visibilità la protesta di Gezi. Con gesti anche plateali. Eclatante l’intervista non concessa all’emittente Ntv dopo la conquista dello scudetto: davanti alle telecamere, Cenk chiede all’intervistatore: siete Ntv? E a risposta affermativa lascia cadere il microfono a terra girandosi dall’altro lato. Venerdì scorso le convocazioni, con l’asso del Galatasaray clamorosamente fuori dai giochi. L’atleta turco ha dichiarato di aver chiesto spiegazioni ai suoi tecnici, sentendosi rispondere semplicemente “il governo”. La corda si stringe, e la stretta viene dal governo. Non voglio dire che chi applica é innocente, soltanto, é a suo modo vittima dello stesso sistema marcio nelle fondamenta, sbagliato, che mette l’uno contro l’altro persone invece di permettergli di collaborare.

Lunedì scorso mi hanno fermato per l’ennesima volta. Ero piuttosto nervoso e non riuscivo a farmi capire mentre provavo a dirgli che il tesserino da giornalista io ce l’ho, ma che non cambia niente visto che in una strada pubblica non é proibito scattare foto. Loro non mi capivano ed io non potevo nemmeno muovere le braccia e mostrargli il tesserino, visto che mi tenevano saldamente da un lato e dall’altro mentre quello di fronte a me, probabilmente l’unico a non parlare inglese, mi urlava in faccia parole per me incomprensibili. Finalmente ci siamo capiti, il capo ha guardato perplesso la mia tessera nazionale e mi hanno mandato via. Mentre esco dal capannello, si é avvicinato un fotografo, barba lunga stile profeta e sguardo bonario, mi ha fatto un cenno senza parlare ed io gli ho risposto nel linguaggio universale dei segni “tutto ok, ormai é routine”. Ci fermiamo a parlare e lui mi chiede se sto bene, da dove vengo e per chi lavoro. Poi mi chiede se ho bisogno di mangiare qualcosa. Rispondo di no, il gas toglie l’appetito e ne avevo respirato già un bel po’. Mi presenta alla sua troupe e mi fa un’altra domanda, quella scontata, ovvero cosa ne penso di ciò che succede in Turchia. Non faccio in tempo a rispondere che Islam dice “per me é come un gioco, quelli della play station. Da una parte i buoni e dall’altra i cattivi, e non sono sempre sicuro di chi siano i buoni e chi i cattivi. Capito?” . Poi mi lascia il suo biglietto da visita, dicendomi di chiamarlo se avessi avuto qualche problema con la polizia. Il giorno dopo scopro, grazie ad un amico, che Islam é uno dei pezzi pregiati di un’agenzia collegatissima con l’Akp, la Anadolu Ajansi. Tengo questa carta sempre con me, non si sa mai. So bene da che parte stare, ma non sono un eroe.

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La prima sera ad Ankara, prendiamo un taxi per andare a Kennedy street dove ci sarebbe stata una manifestazione di protesta. Iniziamo a chiacchierare con il tassista, a dire il vero il mio amico Sinan parla con lui, mentre Idil mi traduce in Inglese quello che si stavano dicendo. Ed il sunto del discorso era questo: “perché protestate, ragazzi? Ai miei tempi le ho fatte tutte, noi non avevamo niente da mangiare, non potevamo andare a scuola, non avevamo futuro. Emigravamo. E per questo protestavamo. Ma voi?” . Messa così, é difficile da spiegare. Libertà di espressione? Diritti civili?

L’altro giorno ho visto un essere umano, ha preso il mio tesserino, l’ha guardato ed ha detto: questo tesserino non é valido. Ero stanco, troppo stanco per protestare e non avevo alcuna voglia di farmi arrestare, perciò sono rimasto in religioso silenzio. Quando mi ha ridato il tesserino, e mi ha detto please go to your country, sono rimasto pietrificato, per un attimo. E lui ha continuato dicendomi questa carta non é valida qui, non sei autorizzato a fare fotografie, per favore vattene nel tuo paese. L’ho guardato negli occhi, il contrasto con l’insieme era surreale. Un corpo enorme, un’espressione quasi feroce, vestito scuro e con tutto l’armamentario necessario per far male. Ma gli occhi di chi sta supplicando per ottenere una grazia. Cosa diavolo mi stava chiedendo? Mentre mi spingeva via, dovevo voltargli le spalle perché mi veniva da ridere. Davvero mi chiedeva di tornarmene al mio paese? No. Dai suoi occhi per la prima volta veniva fuori tutta l’umanità di una persona messa lì senza neanche sapere. Un ragazzo probabilmente di famiglia povera, che non ha neppure potuto finire gli studi, che si trovava lì come una pedina. E che al colmo della tensione mi supplicava di andar via. Di non costringerlo ad eseguire gli ordini. In quegli occhi ho visto quasi la paura verso se stesso, di cosa avrebbe potuto fare . Ed io, pavidamente, sono andato via.

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In questi giorni gira un volantino con una riflessione secondo me molto profonda. Sul foglio ci sono foto di poliziotti antisommossa, con indosso le maschere. E una scritta: metti la maschera non per difenderti dal gas, ma per nascondere il tuo volto, per non mostrare agli altri la tua paura. Metti la maschera per questo, e la metti per non guardarti in faccia.

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