Martin Luther King, Obama e il memoriale
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Martin Luther King, Obama e il memoriale

Tre anni fa, il 28 agosto 2008, Barack Obama era a Denver, Colorado, per la convention democratica che gli conferiva la nomination per la presidenza degli Stati Uniti.

Martin Luther King, Obama e il memoriale
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26 Agosto 2011 - 11.20


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di Massimo Faggioli

45 anni prima, il 28 agosto 1963, sugli scalini del Lincoln Memorial, Martin Luther King Jr. narrava, nello stile di un sermone battista, il suo sogno – «I have a dream» – di un’America libera dalla segregazione razziale. Obama dovette interrompere, in albergo, le prove del suo discorso, colto da un momento di commozione, ma mantenne la sua proverbiale, fredda calma di fronte agli ottantamila della convention e fece solo un accenno a quell’anniversario, meravigliosa ironia del calendario americano, che sovrappone discorso politico e religione della libertà.

A quasi tre anni dall’elezione del primo presidente afroamericano degli Stati Uniti, Obama è vicino al lancio della campagna per la sua rielezione: un elettorato che Obama deve riconquistare è quello afro-americano, la cui massiccia partecipazione al voto nel 2008 fu decisiva per portarlo alla Casa Bianca. Anche per questo motivo la presenza del presidente Obama all’inaugurazione del memoriale dedicato a Martin Luther King Jr. a Washington ha poco di rituale e assume un significato politico.

Dall’inizio della sua carriera Obama ha curato la sua personalità politica, stretta tra i due simboli principali del rapporto tra bianchi e neri d’America in epoca contemporanea: Martin Luther King Jr. e Malcolm X. Da una parte c’è Martin Luther King Jr., riferimento principe all’interno della biografia intellettuale di Obama, che non ha mai esitato a definirsi debitore del movimento per i diritti civili degli anni Sessanta. La migliore biografia di Obama, The Bridge, pubblicata nel 2010 dal direttore di The New Yorker David Remnick, fa propria l’interpretazione data dai seguaci e successori del reverendo King: Obama è colui che sta dall’altra parte del ponte di Selma in Alabama, teatro nel marzo 1965 degli scontri più sanguinosi tra la polizia e il movimento antisegregazionista non violento guidato da King. Obama è figlio di quel movimento nonviolento, radicale ma pragmatico, rivoluzionario ma non eversivo, integrazionista e non separatista.

Dall’altra parte c’è Malcolm X, che incarna – come mostra la bellissima biografia pubblicata in punto di morte da Manning Marable, Malcolm X: A Life of Reinvention (Viking 2011, 594 pp.) – l’anima separatista, violenta ed eversiva della reazione degli afroamericani alla segregazione razziale negli Stati Uniti. La “Nation of Islam” di Malcolm X aveva la sua sede principale a Chicago, a pochi isolati dall’abitazione di Obama, nel quartiere di Hyde Park che circonda la University of Chicago.

Ma Malcolm X è il modello di “black politics” da cui Obama si è separato fin dall’inizio e più volte, anche per interposta persona, come nel caso del suo ex reverendo, il “liberazionista” Jeremiah Wright, da cui il candidato Obama dovette prendere le distanze nel marzo 2008 dopo la pubblicazione delle sue omelie infuocate contro l’America bianca.

La scelta di Obama di incarnare un certo tipo di “black politics” è andata oltre la campagna elettorale, e la presidenza Obama ha mostrato la continuità del suo discorso sulla questione dell’eredità della segregazione razziale in America: Obama si autoidentifica come nero, quando avrebbe potuto (come Tiger Woods) qualificarsi come di razza mista; ha sposato una nera, mentre molti altri afro-americani di potere hanno sposato donne bianche; ha assunto le vesti di una borghesia nera, politicamente liberal ma integrata nel sistema, che si richiama al movimento dei diritti civili, ma non ha nessuna nostalgia di una “politica della razza” fatta all’insegna delle rivendicazioni in nome dei bianchi o dei neri. Ma è il rapporto tra l’autoidentificazione di Obama come erede del movimento dei diritti civili e il messaggio politico del quarantaquattresimo presidente che rappresenta, per molti afro-americani, una questione ancora irrisolta, come mostra Randall Kennedy, docente ad Harvard, nel suo recente The Persistence of the Color Line. Racial Politics and the Obama Presidency (Pantheon Books, 322 pp.).

La razza in America ha ancora un rilievo sociale e politico di prima grandezza: oggi assume toni meno pubblici e meno dichiarati, ma la violenza dei rapporti tra razze ed etnie esiste ancora, a leggere le analisi sulla presenza rispettivamente di bianchi, neri e latinos nelle liste di disoccupazione, nelle università, nelle carceri, nei livelli di reddito e nella distribuzione della ricchezza nel paese.

Riemergono, a tre anni dalla sua elezione, le domande che circondarono la campagna elettorale: un Obama «non abbastanza nero» per la nuova generazione di giornalisti e intellettuali neri come Cornel West e Tavis Smiley, un Obama «troppo nero» per l’America bianca di Fox News che non ha accettato di farsi rappresentare da un presidente di colore. Alle obiezioni «too black, not black enough» Obama rispose col suo miglior discorso di sempre, quello di Philadelphia del 18 marzo 2008 su razza e politica in America. L’inaugurazione del memoriale dedicato a Martin Luther King Jr. servirà a ricordare agli americani, e agli afro-americani soprattutto, che Barack Obama è soltanto colui che sta dall’altra parte del ponte di Selma: la strada è ancora lunga verso il paese del sogno proclamato da Martin Luther King Jr. il 28 agosto 1963

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