Matteo Zuppi, un'omelia che è una lezione alla politica
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Matteo Zuppi, un'omelia che è una lezione alla politica

Il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, ha tenuto l'omelia durante la veglia di preghiera "Morire di speranza" in memoria dei migranti che perdono la vita nei viaggi verso l'Europa.

Matteo Zuppi, un'omelia che è una lezione alla politica
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23 Giugno 2023 - 13.52


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Una omelia che è una lezione di alta politica. 

Il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, ha tenuto l’omelia durante la veglia di preghiera “Morire di speranza” in memoria dei migranti che perdono la vita nei viaggi verso l’Europa.

Nella basilica romana di Santa Maria in Trastevere, Zuppi ha evocato “lo scandalo e la vergona per tanta enorme sofferenza”, il fatto di non abituarsi “a questa e farne motivo e urgenza per scegliere, per finalmente scegliere un sistema di protezione e di accoglienza sicuro per tutti. Un sistema legale, perché solo con la legalità si combatte l’illegalità, e se non si dà la legalità si diventa complici. Complici, cioè, del criminale lucro di persone”. 
“E l’Europa, figlia di chi è sopravvissuto alla guerra e che non smette di sentire quelle voci lontane di umili nomi e di quanti ci hanno consegnato questa libertà e questa giustizia, deve garantire i diritti che detiene, garantendo flussi che siano corridoi umanitari e corridoi di lavoro, corridoi universitari, ricongiungimenti familiari che garantiscono futuro e stabilità, l’adozione di persone che cercano solo qualcuno che dia fiducia e opportunità”, ha affermato Zuppi nell’omelia. 
“E darla ce le fa trovare! Non si può morire di speranza! Chi muore di speranza ci chiede di cercare in fretta perché non accada lo stesso ad altri, per trovare risposte possibili, degne di tanta nostra storia, consapevoli del futuro, della grandezza del nostro continente e della nostra patria”, ha proseguito. “Come vorremmo che nella notte buia in mezzo al mare si accendano cuori che accolgono, attendono, orientano – ha aggiunto -. E’ davvero la grande occasione da non fare perdere e da non perdere, per essere quello che siamo. Perché è proprio vero che c’è la banalità del male ma anche quella del bene. E questa celebrazione ce lo mostra in maniera commovente e straordinariamente umana. L’Italia, l’Europa ritrova sé stessa grazie all’accoglienza”.

“Non dobbiamo mai accettare – ha affermato Zuppi – che sia messa in discussione in nessuna occasione l’umanissima e responsabile legge del mare, regola di umanità per cui chiunque stia in pericolo sia salvato e custodito. E’ in pericolo. Si salva”. 
“Dimenticare è un doppio tradimento della vita, che chiede, sempre, per tutti, di essere difesa e ricordata”, ed “è atroce essere ‘dimenticati’ da vivi”, ha detto Zuppi – evocando “l’angoscia” delle telefonate dei naufraghi che chiedono soccorso -, nella chiesa gremita come pure la piazza antistante, anche di tanti migranti e profughi. Sul frontale della basilica che dà sulla piazza, sono state montate alcune gigantografie che riguardano le tragedie del mare. Al centro c’è la foto di tre croci con i giubbotti ripresa sulla spiaggia di Cutro. 
“Quando la vita non è custodita è condannata – ha proseguito il presidente della Cei -. Dio risponde alle richieste: non aspetta per vedere come va a finire, se ci può pensare qualcun altro, per stabilire di chi è la competenza. Dio conosce e protegge la fragilità delle persone. 

Ognuna è sua ed è preziosa. Ognuna è un mondo, un mondo da salvare. La celebrazione di oggi è di salvati che non possono dimenticare i sommersi”. 
Secondo Zuppi, “noi siamo salvati. Non dimentichiamo e non smettiamo di ringraziare che siamo sopravvissuti. Alcuni tra noi lo sono fisicamente perché erano esattamente nelle stesse condizioni di chi non ce l’ha fatta e qualcuno porta con sé lo stesso dolore perché qualche amico, qualche fratello, qualche mamma non sono mai arrivati. Che dolore. In realtà tutti siamo salvati dalla tempesta del mare, dalle onde della guerra che quando si alza travolge ogni persona e tutti inghiotte nei suoi flutti di morte”. 
“Ricorderemo tanti nomi di quanti non sono stati salvati. Ci sono cari, ci diventano cari”, ha detto ancora, ricordando poi “la storia di Osama, di 25 anni, e Shawq Muhammad, di 22 anni, siriani, annegati insieme a Moshin, Abdul e Sami, pakistani, la notte tra il 13 e il 14 giugno 2023 davanti a Kalamata, in Grecia, a causa del capovolgimento del barcone dopo un viaggio di 5 giorni iniziato a Tobruk, in Libia. Ricordiamo i 700 passeggeri, di cui molte donne e bambini, provenienti soprattutto da Siria, Egitto e Pakistan. Si sono salvati solo in 108”.

L’autocrate si ribella e alza il prezzo

Ne scrive Dario Prestigiacomo per EuropaToday: “Ribadisco ancora una volta che la Tunisia può monitorare solo i propri confini” e per questo “non accetterà l’insediamento dei migranti sul proprio suolo”. Non ha usato giri di parole il presidente tunisino Kais Saied nell’incontrare i ministri degli Interni di Germania e Francia, rispettivamente Nancy Faeser e Gérald Darmanin. Una visita, quella del duo franco-tedesco, che sulla carta dovrebbe essere in scia alla missione della settimana scorsa dalla premier Giorgia Meloni insieme alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e al leader olandese Mark Rutte. Ma in realtà, più che mostrare unità, l’Europa sembra andare in ordine sparso nel cercare un’intesa sulla migrazione (e non solo) con l’uomo forte di Tunisi. 

Saied e le divisioni Ue

Saied lo sa, e sembra giocare sulle divisioni e i diversi interessi in seno all’Ue. Per il presidente, accusato in patria come dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani, di aver instaurato un regime autoritario nel Paese e di razzismo nei confronti dei migranti subsahariani, l’importante è ottenere più aiuti finanziari possibili per far fronte alla grave crisi economica e sociale della Tunisia. E la leva della migrazione sembra stia funzionando in tal senso.

Nel suo viaggio con Meloni e Rutte, von der Leyen si è impegnata a sborsare fino a 900 milioni di euro, presi dal bilancio Ue, per sostenere Tunisi. Francia e Germania, invece, dopo aver ricordato che dei fondi promessi dall’Ue, il 40% viene dalle casse di Parigi e Berlino, hanno aggiunto altri 25,8 milioni. La differenza tra i due impegni finanziari è notevole, ma i soldi franco-tedeschi dovrebbero arrivare in tempi brevi. Quelli Ue, invece, sono condizionati a un fattore non secondario: l’accordo tra Tunisi e il Fondo monetario internazionale (Fmi) su un prestito da 1,75 miliardi di euro.

Il nodo Fmi

Il prestito richiede riforme strutturali, come l’eliminazione dei sostegni pubblici per carburanti e generi alimentari, e la riduzione del personale dell’amministrazione statale. Ma Saied, che fa del populismo la sua arma politica principale, non ha intenzione di passare alla Storia del suo Paese come l’uomo dell’austerity. Ecco perché sta cercando di ottenere dai governi europei più esposti ai flussi di migranti dalle sue coste un appoggio diplomatico per spingere il Fmi a più miti consigli. 

Dall’altra parte, l’Europa chiede due cose a Tunisi: fermare le partenze dei barconi, e riprendersi i migranti clandestini che sfuggono a tale stretta (non solo quelli tunisini). Nella nuova strategia di Bruxelles, condivisa da tutti i governi, la Tunisia dovrebbe essere una sorta di “piattaforma” dove rispedire i clandestini: qui, non si sa ancora bene come, verrebbero svolte le procedure di asilo. I migranti a cui viene riconosciuto tale diritto verrebbero ripresi dagli Stati membri, gli altri resterebbero in Tunisia. Nella pratica, questo vorrebbe dire creare una sorte di ponte aereo costante tra l’Italia e il Paese nordafricano: una bella soluzione per Roma.

La guardia costiera tunisina

Ma Saied, che da quando è presidente ha alimentato una retorica razzista nei confronti dei migranti che arrivano nel suo Paese dal resto dell’Africa, non ha nessuna intenzione di fare della Tunisia la piattaforma in cui l’Europa esternalizza il trattamento delle domande d’asilo. Semmai, è ben disposto a rafforzare la sua guardia costiera, nota da tempo per i suoi metodi efficaci nel fermare i trafficanti. Metodi che, secondo diverse inchieste e testimonianze di Ong e sopravvissuti, contemplano l’uso di violenza durante le operazioni di intercettazione in mare, alcune delle quali avrebbero portato a naufragi e morti (bambini compresi). 

Di tali violenze, però, l’Europa non sembra preoccuparsi più di tanto. Anzi, sia le missioni di von der Leyen e Meloni, sia quella franco-tedesca, hanno promesso nuovi ingenti fondi per la guardia costiera. Già in passato Tunisi ha ricevuto decine di milioni di euro per il controllo dei suoi confini, e a differenza della Libia, ha dato prova di efficacia quando si è trattato di bloccare i trafficanti. Ma da qualche tempo, in parallelo con la crisi economica, il blocco navale tunisino sembra aver perso smalto. O forse, ha bisogno del giusto incentivo”.

Stragi continue

Da un lancio di Agenzia Nova: “È di almeno dodici migranti irregolari provenienti da Paesi subsahariani dispersi il bilancio del naufragio di tre barche al largo delle coste settentrionali di Sfax, in Tunisia. Lo ha riferito il portavoce del Tribunale di primo grado di Sfax 1, Faouzi Masmoudi, all’emittente radiofonica “Mosaique fm”. Nelle ultime due giornate, sono stati soccorsi 152 migranti e sono stati recuperati tre corpi. Secondo quanto dichiarato da Masmoudi, 39 persone sono state salvate dopo essere partite dalla costa di Ellouza, ma sette risultano ancora disperse, incluso un neonato. Riguardo alla seconda imbarcazione affondata, partita dalla costa di Ellouata, sono stati soccorsi 83 migranti e recuperati i corpi di due neonati. Dopo il naufragio di un’altra barca salpata da Ellouata, sono stati soccorsi 30 immigrati ed è stato recuperato un corpo, mentre altre cinque persone, tra cui bambini, risultano disperse. Secondo gli ultimi dati disponibili sul sito del Viminale, a oggi dall’inizio dell’anno 4.061 migranti hanno dichiarato di avere la cittadinanza tunisina al momento dello sbarco”.

Testimoni scomodi

I sopravvissuti all’ecatombe di Pylos. Di grande interesse è il reportage di Vincenzo R.Spagnolo per Avvenire del 22 giugno: “«Siamo partiti da Tobruk, nella parte est della Libia, vicino al confine con l’Egitto. Dopo due giorni di navigazione, eravamo già senza cibo né acqua, costretti a provare a dissetarci attingendo dal mare…». Lo chiameremo Hassan. Ha 25 anni, è di nazionalità siriana ed è uno dei superstiti del tragico naufragio di Pylos. Lui e gli altri 103 sopravvissuti (il più giovane è nato nel 2007) sono ora divisi fra l’ospedale di Kalamata e il campo di Malakasa. Ed è lì che tre volontarie dell’Operazione Colomba – il corpo di pace dell’associazione Comunità Papa Giovanni XIII, presente in Grecia per aiutare i migranti – hanno raccolto la sua testimonianza, che ora Avvenire è in grado di riportare. Nel proprio racconto, Hassan ripercorre i concitati momenti che hanno preceduto l‘affondamento del barcone: «Abbiamo contattato l’Italia (non precisa quale ente o autorità, ndr), ma ci hanno detto che non potevano soccorrerci perché non eravamo nelle loro acque (il riferimento è presumibilmente alla zona Search and Rescue di competenza italiana, ndr)» . Poi, prosegue il giovane siriano, «al quinto giorno di navigazione la nave andava lentissima. Alla sera si è avvicinata un’imbarcazione greca». Di che genere? «Police», dicono lui e altri superstiti, intendendo una imbarcazione con insegne e uomini in uniforme. E cosa ha fatto? «Ci ha lanciato una fune, iniziando a trainarci. Il mare era calmo, il peschereccio su cui stavamo non era guasto – sostiene Hassan -, ma le manovre con la fune hanno destabilizzato la barca che si è rovesciata. Siamo tutti caduti in mare, era notte fonda. La barca greca si è allontanata, lasciandoci al buio nel mare per almeno due ore, poi sono arrivati i soccorsi».

Diversi testimoni: il tentativo di traino ha contribuito al disastro

La sua testimonianza si interseca con quelle di altri sopravvissuti riportate l’altro ieri dal quotidiano ellenico Kathimerini, che ha riferito come almeno nove superstiti siano stati ascoltati dall’autorità portuale di Kalamata. Le loro ricostruzioni – e anche quella di Hassan, seppur con alcune differenze – addosserebbero parte della responsabilità dell’affondamento alla Guardia costiera greca, per via del tentativo fallito di trainare il barcone coi migranti di origine siriana, egiziana, palestinese, pachistana. Secondo alcuni, le manovre durante il tentativo di traino avrebbero fatto oscillare il natante stracarico di persone. «Per i primi minuti siamo andati avanti, ma poi la Guardia costiera ha girato a destra ed è così che la nave si è ribaltata», si legge in una delle testimonianze riportate da Kathimerini. E in un’altra, un sopravvissuto dà una versione lievemente diversa da altre: «Quando la nave si è ribaltata sul posto, la Guardia costiera ha tagliato la corda e ha proseguito da sola – riferisce –. Si è allontanata e tutti abbiamo gridato. Dopo 10 minuti, sono tornati con delle piccole barche per prendere le persone, ma non sono arrivati dove si trovava la barca, hanno preso solo quelli che avevano nuotato e si erano allontanati».

Hassan: avevo video e foto sul cellulare, ma la polizia me lo ha sequestrato

Dal canto suo, il 25enne siriano ascoltato dalle volontarie italiane riferisce altri particolari che meriterebbero di essere approfonditi: «Io avevo tutte le prove sul mio telefonino, le foto e i video. Ma dopo che siamo sbarcati, la prima cosa che ha fatto la polizia è stata quelle di sequestrarci i passaporti e i telefonini, con dentro tutto. Ho perso tutte le prove. E un poliziotto mi ha anche minacciato, avvicinando il suo pugno al mio occhio. Come a dire: stai attento…». In quanti erano a bordo? Sia Hassan che altri superstiti confermano l’alto numero ipotizzato finora: «Eravamo 750. Siamo stati salvati in 104, quindi mancano alla conta 646 persone. Soprattutto donne e bambini, che stavano nella stiva, mentre noi eravamo in coperta».

Fuori dal campo, le volontarie della Papa Giovanni parlano con diversi parenti dei dispersi: sono fratelli, cugini, zii delle presunte vittime, giunti qui (come a Cutro nei mesi scorsi) da tutta Europa,con una foto del proprio congiunto in mano, nella speranza di trovarlo fra i salvati e non fra i sommersi. Ieri nelle acque al largo del Peloponneso è stato ripescato l’ennesimo corpo, il numero 82 della conta ufficiale delle vittime, ancora lontana da ciò che potrebbe purtroppo essere l’agghiacciante bilancio finale. Il cadavere è stato portato a Kalamata, dove ieri sera sono sbarcati anche 63 migranti soccorsi dalla Guardia Costiera greca mentre erano su una barca a vela alla deriva a sud ovest di Capo Tenaro. Nel frattempo, al di là del tornello di metallo che regola entrata e uscita nella struttura di Malakasa, Hassan scruta l’orizzonte. «Questo non c’è più», dice, indicandosi il cuore. «C’è, ma forse sta dormendo», prova a dirgli una volontaria italiana. Ma Hassan ribatte: «Fi, c’è, ma è morto».

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