Giornata Onu di soldarietà per il popolo palestinese: Italia, quando il riconoscimento dello Stato di Palestina?
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Giornata Onu di soldarietà per il popolo palestinese: Italia, quando il riconoscimento dello Stato di Palestina?

l 29 novembre le Nazioni Unite celebrano la giornata di solidarietà con il popolo palestinese per ricordare che la questione palestinese è ancora e drammaticamente irrisolta. Senza un piano di pace che dia speranza di giustizia e di libertà

Giornata Onu di soldarietà per il popolo palestinese: Italia, quando il riconoscimento dello Stato di Palestina?
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

29 Novembre 2022 - 16.21


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Lasciamo la parola a Rete Italiana Pace e Disarmo: “Un altro anno è passato e lo Stato italiano non ha riconosciuto lo Stato di Palestina.

Il 29 novembre le Nazioni Unite celebrano la giornata di solidarietà con il popolo palestinese per ricordare che la questione palestinese è ancora e drammaticamente irrisolta. Senza un piano di pace che dia speranza di giustizia e di libertà. Con l’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele e la costruzione di nuove colonie. Con i palestinesi che vivono a Gerusalemme Est minacciati di espulsione, ritiro del diritto di residenza, espropriazione e demolizione delle loro abitazioni, soggetti al divieto di espressione e di associazione. Con la popolazione della Striscia di Gaza isolata, privata della libertà di muoversi, obbligata a sottostare al fondamentalismo religioso di Hamas e della violenza della jihad islamica. Con oramai tre generazioni di profughi raccolti nei campi in Giordania, Libano, Iraq, Siria e nei Territori palestinesi, cittadini di serie B in ogni luogo, sempre in attesa, senza diritti, spesso vittime di altre guerre. 

Una pentola in continua ebollizione che giorno dopo giorno, anno dopo anno, non fa altro che peggiorare le condizioni di vita di tutti quanti, israeliani compresi.

Ma nessuno vuole affrontare la questione e dar corso a quello che tutti recitano come un karma “due Stati per due popoli”, finché l’altra parte, Israele, non acconsentirà a riconoscere la nascita dello Stato di Palestina. Siamo entrati in un gorgo che ci porta tutti ad affondare nella più terribile delle oscurità. 

Non è più la comunità internazionale, le Nazioni Unite ed i suoi stati membri che, dopo aver riconosciuto lo Stato d’Israele, hanno il compito e la responsabilità di dar corso al riconoscimento dello Stato di Palestina, come detto, scritto e sancito da innumerevoli risoluzioni ONU, ma il decisore è diventato lo Stato d’Israele che, dall’assassinio del loro presidente, Itzhak Rabin, hanno dichiarato ripetutamente la volontà di rinunciare a quel 22% della Palestina originale che ancora manca al proprio Stato.

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina già da 42 anni ha riconosciuto lo stato d’Israele. Con gli accordi di Oslo, il governo israeliano presieduto da Itzhak Rabin riconobbe il diritto dei palestinesi ad avere il loro Stato e i palestinesi, tramite il suo leader storico, Yasser Arafat, accettarono i confini del 1967 e la condivisione della città di Gerusalemme come capitale dei due Stati. Ci sarebbero quindi tutte le condizioni e gli strumenti per superare lo status quo che blocca il processo di pace ed impedisce la fine di questo conflitto che ha origini post-coloniali e che rende tutta la regione un focolaio di guerre, di violenze e di instabilità regionale e mondiale. A chi conviene di mantenere questa situazione?

Il riconoscimento dello Stato di Palestina, al fianco dello Stato d’Israele non sarebbe la fine del conflitto, ma diventerebbe la base per far sedere al tavolo del negoziato i due Stati ed affrontarlo con pari dignità, legittimità, autorevolezza le due parti: due Stati sovrani che con la cooperazione e l’assistenza delle Nazioni Unite dovranno risolvere le questioni rimaste in sospeso e costruire la convivenza, la sicurezza comune, il rispetto di tutte le comunità, religioni e minoranze presenti nei due Stati. 

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Questo è il cammino della pace e della soluzione dei conflitti nel Medio Oriente. Per questo il ruolo delle Nazioni Unite e l’applicazione della carta costitutiva dell’ONU da parte degli Stati membri sono condizione irrinunciabile e fondamentale per uscire dalle guerre e dai conflitti che si trascinano da decenni. Serve la Conferenza internazionale di Pace per ristabilire il multilateralismo ed il principio della sicurezza dei popoli, di tutti i popoli e del pianeta.

Il riconoscimento dello Stato di Palestina è urgente, è il primo passo da fare, è il segnale che la politica è tornata in campo per costruire la pace”.

Così Ripd.

Fermiamo il commercio con gli insediamenti illegali

Noi, 49 associazioni e organizzazioni della società civile italiana, sosteniamo la campagna europea per fermare il commercio con gli insediamenti illegali. Riteniamo vergognoso che nel 2022 esista ancora la colonizzazione. Da più di mezzo secolo Israele occupa e colonizza i territori palestinesi. Malgrado ciò, l’Unione Europea continua il commercio con le colonie contribuendo alla loro economia. Tutti insieme abbiamo il potere di portare un cambiamento firmando l’iniziativa popolare dei cittadini europei #StopTradeWithSettlements.

Il 29 novembre, nella giornata internazionale ONU in solidarietà con il popolo palestinese, chiediamo a tutti il massimo impegno per firmare e far firmare la campagna.

Se raggiungiamo 1 milione di firme da tutta Europa, l’Unione Europea sarà costretta a dare una risposta a quanto richiesto.

Francia, Irlanda, Belgio e Olanda hanno già raggiunto la quota di firme prevista. L’Italia è ancora molto indietro e mancano solo tre mesi alla chiusura della campagna per questo è urgente agire.

E’ facilissimo: clicca sul link www.stopsettlements.org

Prendere atto della realtà

Riflette su Haaretz Nehemia Shtrasler: “Da quando ho acquisito consapevolezza politica, ho sostenuto la soluzione dei due Stati. Mi è sempre stato chiaro che si trattava della soluzione corretta e morale per entrambe le parti. Dopo tutto, non c’è alcuna possibilità che 2,8 milioni di palestinesi in Cisgiordania rinuncino al loro sogno di uno Stato indipendente e, se non vogliamo condannarci a una guerra infinita, i cui risultati potrebbero essere catastrofici, è nostro dovere dividere il territorio tra il Giordano e il mare tra Israele e Palestina. Questo è ciò che pensavo quando ero uno studente delle superiori, ascoltavo le parole del profeta Yeshayahu Leibowitz, che subito dopo la Guerra dei Sei Giorni disse che tenersi stretti i territori avrebbe portato la distruzione su di noi. Ricordo persino le discussioni nel quartiere, con la maggioranza che non voleva rinunciare alla Tomba di Rachele a Betlemme o alla Tomba dei Patriarchi a Hebron. Ma per me era chiaro che la soluzione dei due Stati è la realizzazione della visione sionista di uno Stato ebraico e democratico, che vive in pace con i suoi vicini e raggiunge così una vera sicurezza.
Da allora, gli anni sono passati (55, per l’esattezza), la realtà è cambiata e non c’è momento migliore di questi giorni, tra Rosh Hashanah e la vigilia dello Yom Kippur, per un esame di coscienza e per una verifica delle convinzioni passate. Mi sono posto una semplice domanda: Supponiamo che mi facciano decidere e che io debba firmare un accordo che dia ai palestinesi uno Stato. Lo firmerei? Ci sono stati anni in cui non avrei esitato un attimo. Dopo tutto, subito dopo la Guerra dei Sei Giorni, il Primo Ministro Levi Eshkol dichiarò che stavamo tenendo i territori solo come deposito, fino a quando non ci sarebbe stata la pace, e l’opinione pubblica credeva che Israele avrebbe ceduto i territori e sarebbe sorto uno Stato palestinese. Ma molto rapidamente l’umore nazionale è cambiato e ci siamo innamorati dei territori. Abbiamo iniziato a fare escursioni giornaliere tra Gerusalemme e Nablus e il deposito temporaneo è diventato un “patrimonio”, che è nostro fin dai tempi biblici.
Il grande cambiamento avvenne subito dopo la guerra dello Yom Kippur, quando il movimento Gush Emunim si rese conto che se fosse riuscito a riempire i territori con decine di insediamenti e centinaia di migliaia di coloni, nessun governo sarebbe stato in grado di rimuoverli. E infatti, nell’inverno del 1975, il ministro della Difesa Shimon Peres si arrese al fervore messianico di Hanan Porat e Moshe Levinger e approvò la creazione di un insediamento temporaneo a Kadum, da cui spuntarono 150 (!) insediamenti su ogni collina, e oggi è chiaro che se un primo ministro dovesse mai firmare un accordo per l’evacuazione della Cisgiordania, finirebbe in una guerra civile dei coloni e dell’estrema destra contro l’esercito e il governo. Anche dall’altra parte si sono verificati cambiamenti di vasta portata. Con il passare del tempo, il giogo dell’occupazione ha pesato di più; ci sono più furti di terra, più vessazioni, più uccisioni, povertà e disoccupazione. Tutto questo non fa che aumentare il desiderio dei palestinesi di avere uno Stato indipendente.
Il presidente palestinese Mahmoud Abbas, Abu Mazen, che sostiene una lotta politica senza l’uso della violenza, ora non è più in grado di fermare la rabbia popolare e gli atti di terrore. I palestinesi hanno perso la speranza di porre fine all’occupazione in modo non violento e i giovani si stanno schierando apertamente contro l’esercito. Non si nascondono, ma si documentano sui social network con le armi, diventando così eroi locali. Di conseguenza, l’Autorità Palestinese ha perso il controllo nel nord della Samaria, a Jenin e a Nablus, e al suo posto hanno preso il controllo Hamas e la Jihad islamica. Oggi Abu Mazen controlla solo parzialmente i suoi servizi di sicurezza e alcuni dei suoi uomini partecipano ad attività terroristiche contro Israele. Oggi nessuno è in grado di garantire che se viene firmato un accordo per la creazione di uno Stato con l’Autorità Palestinese, questo venga effettivamente attuato. La preoccupazione è che Hamas prenda il controllo del territorio (come ha fatto nella Striscia di Gaza) e che arrivi l’Iran. E allora, invece di uno Stato smilitarizzato che punta alla pace, avremo minacce, razzi e guerra. Questo significa che non c’è soluzione al conflitto e che siamo condannati a morire di spada? Non è certo. Non ci siamo ancora arresi. Ricordo ancora le parole di Leibowitz. Ma è chiaro  – conclude Shtrasler – che il tempo gioca a nostro sfavore. Gli estremisti di entrambe le parti si stanno rafforzando e anche persone come noi cominciano a dubitare della soluzione che finora era stata così logica e chiara”.

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Un libro da leggere.
E’ La prigione più grande del mondo (Fazi Editore, 2022, pp.400, euro 20,00). L’autore è uno dei più autorevoli storici israeliani: Ilan Pappè. Il professor  Pappé è docente presso l’Università di Exeter ed è stato senior lecturer di scienze politiche presso l’Università di Haifa. Pappé è uno dei “nuovi storici” che, dopo la pubblicazione di documenti britannici e israeliani a partire dai primi anni ‘80, hanno riscritto la storia della fondazione di Israele nel 1948.

Riportiamo di seguito la scheda di presentazione dell’opera di Pappé. E’ un buon viatico: “Dopo la sua acclamata indagine sulla pulizia etnica della Palestina avvenuta negli anni Quaranta, il famoso storico israeliano Ilan Pappé rivolge l’attenzione all’annessione e all’occupazione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, esponendoci la prima critica globale relativa ai Territori Occupati palestinesi. Frutto di anni di ricerche, il nuovo lavoro di Pappé rappresenta probabilmente l’analisi più completa mai scritta sulla genesi dei Territori Occupati e sulla vita quotidiana all’interno di quella che l’autore definisce, appunto, «la prigione più grande del mondo». Pappé analizza la questione da molteplici punti di vista: attraverso l’analisi di materiali d’archivio recentemente declassificati, ricostruisce sotto una luce nuova le motivazioni e le strategie dei generali e dei politici israeliani – e lo stesso processo decisionale – che hanno gettato le basi dell’occupazione della Palestina; rivolgendo poi lo sguardo alle infrastrutture legali e burocratiche e ai meccanismi di sicurezza messi in atto dagli occupanti, rivela il modo in cui Israele è riuscito a imporre il suo controllo a oltre un milione di palestinesi; infine, attraverso i documenti delle Ong che lavorano sul campo e i resoconti di testimoni oculari, Pappé denuncia gli effetti brutalizzanti dell’occupazione, dall’abuso sistematico dei diritti umani e civili ai blocchi stradali, dagli arresti di massa alle perquisizioni domiciliari, dal trasferimento forzato degli abitanti autoctoni per far spazio ai coloni al famigerato muro che sta rapidamente trasformando anche la stessa Cisgiordania in una prigione a cielo aperto. Il libro di Pappé è al contempo un ritratto incisivo e commovente della quotidianità nei Territori Occupati e un accorato appello al mondo perché non chiuda gli occhi di 

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