La lingua è un campo di battaglia: dimmi come parli e ti dirò chi sei
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La lingua è un campo di battaglia: dimmi come parli e ti dirò chi sei

L'evoluzione della lingua come strumento politico è sempre più evidente nei nostri giorni, ma non è detto che la battaglia di genere possa trovare nella lingua uno strumento di liberazione

La lingua è un campo di battaglia: dimmi come parli e ti dirò chi sei
Il femminile sovraesteso all'Università di Trento
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Ludovico Conti Modifica articolo

17 Aprile 2024 - 22.58 Culture


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Mina cantava “Parole, parole, parole”, come se fossero effimere. Oggi ci troviamo, però, in una realtà in cui le parole hanno un peso concreto e possono definire l’identità di una comunità, la sua cultura e persino le sue leggi. Gli attacchi mediatici, spesso ideologici, che si scatenano su un uso improprio del congiuntivo (poi scoperto anche sin troppo corretto) da parte di una figura pubblica ne sono un esempio lampante.

L’evoluzione della lingua come strumento politico è sempre più evidente nei nostri giorni. Quello che una volta era il dominio di poeti e scrittori, oggi è lo scenario di aspre contese politiche e sociali. Tutto passa dalla lingua e dal suo utilizzo, che sia un attacco per un suo utilizzo od un suo utilizzo atipico come provocazione. La decisione del rettore, o meglio adesso della rettrice, e del senato accademico di Trento di adottare, ad esempio, il femminile sovraesteso per il nuovo regolamento accademico ha provocato polemiche non solo nel mondo accademico.

Dal canto suo la rettrice Flavio Deflorian ha espresso una sensazione di straniamento leggendo il testo del regolamento interamente declinato al femminile, un sentimento che si propone come specchio inverso di quello provato storicamente dalle donne. La misura, prevista per durare dieci anni, ha suscitato reazioni contrastanti: alcuni la vedono come una trasformazione culturale necessaria e altri, tra cui l’Accademia della Crusca, vedono questi interventi come “discutibili interventi di carattere risarcitorio”.

La lingua, si sa, è il riflesso della società, ma può una società vedere riflessi i propri cambiamenti all’interno di una forzatura linguistica? Sull’uso della lingua viene in mente un excursus interessante fatto in una recente puntata del celebre podcast Muschio Selvaggio. Il titolo della puntata un po’ provocatorio era “Non si può più dire nulla” e l’ospite era Immanuel Casto. Per chi non lo conoscesse, Immanuel Casto è l’alter ego di Manuel Cuni: attivista LGBTQI+, autore di giochi da tavola, cantautore abbastanza famoso per la sua irriverenza ma anche presidente del Mensa Italia (un’associazione, per capire meglio il tutto, di cui fa parte il 2% della popolazione con il quoziente intellettivo più alto al mondo).

Casto in quell’occasione rifletteva sulla lingua non solo come un mezzo per esprimere pensieri ma anche come strumento indicatore di una società che vede sé stessa e il mondo che la circonda attraverso le trasformazioni dei termini che sono stati utilizzati per parlare della disabilità, la cui evoluzione riflette anche il cambiamento nella percezione sociale. In passato, termini come “storpio” o “handicappato” erano comunemente accettati, ma con il tempo sono diventati dispregiativi a causa del loro uso offensivo. Si è cercato di spersonalizzare il termine con “portatore di handicap” “persona speciale”, poi “diversamente abile” ecc., e ora si è tornati a “disabile”, iniziando a riflettere di più sul fatto che sia più necessario rimuovere il pregiudizio dal contesto piuttosto che dalla parola stessa.

Un altro esempio di come la lingua sia in trasformazione è la ormai celeberrima schwa, cioè l’adozione di una forma neutra nella lingua italiana. La schwa era stata utilizzata come una provocazione ed è diventa un simbolo di inclusione e di battaglia ma i simboli come questo o l’uso dell’asterisco per indicare la neutralità di genere possono diventare puramente simbolici ed una semplice mutazione visiva straniante nonostante il loro iniziale impatto denso di significante.

La domanda che si impone è: la battaglia di genere può trovare nella lingua uno strumento di liberazione, o rischia di cadere in un simbolismo che non incide sulla sostanza delle disuguaglianze? Questo ci porta a interrogarci: il pensiero modifica il significato delle parole o le parole modellano il pensiero? Sebbene la teoria del determinismo linguistico di Sapir-Whorf suggerisca che il linguaggio influenzi il pensiero, è importante non cadere nell’errore di ritenere che questo rapporto sia così semplice o unidirezionale. Non esistono studi conclusivi che dimostrino che cambiare le parole possa automaticamente cambiare il pensiero.

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