Patrick Zaki: dopo un giorno Tajani si è svegliato e la figura è patetica
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Patrick Zaki: dopo un giorno Tajani si è svegliato e la figura è patetica

Ill governo Meloni si avventura in acrobazie linguistiche per nascondere l’assoluta inerzia sul caso Zaki e anche su Giulio Regeni

Patrick Zaki: dopo un giorno Tajani si è svegliato e la figura è patetica
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

19 Luglio 2023 - 14.39


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C’ha pensato per un giorno. Impegnato com’era a recitare il ruolo di leader (sic) di Forza Italia, Antonio Tajani non aveva tempo per occuparsi della mazzata inflitta dall’autocrate egiziano all’Italia attraverso la condanna, tutta politica, di Patrick Zaki.

Ridicoli

Il giorno dopo, ecco la dichiarazione dell’esimio ministro degli Esteri:” Siamo molto attenti” alla vicenda di Patrick Zaki, “dobbiamo essere prudenti, il governo segue con molta attenzione come ha sempre fatto”. Così  Tajani a Morning News, su Canale 5. Il titolare della Farnesina  ha aggiunto che “ieri il presidente del Consiglio ha rilasciato una dichiarazione molto chiara”. 

Alla faccia della chiarezza. “Il nostro impegno per una soluzione positiva del caso di Patrick Zaki non è mai cessato, continua, abbiamo ancora fiducia”, ha assicurato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

Attenti, fiduciosi, prudenti. Sai che paura dalle parti delle Piramidi.

Meloni e Tajani, parole al vento

Annota Gianni Ballarini su Nigrizia: ““A sua volta, il governo Meloni si avventura in acrobazie linguistiche per nascondere l’assoluta inerzia.

A gennaio 2023 il ministro degli esteri Antonio Tajani, rientrando dal Cairo, afferma: «Al-Sisi mi ha rassicurato sui casi Regeni e Zaki». Parole al vento.

La presidente del consiglio incontra al-Sisi nel novembre del 2022. Chiede attenzione ai casi Regeni e Zaki. Il Faraone annuisce. E passa oltre.

Oggi, in una nota ufficiale, Meloni se la cava con: «Il nostro impegno per una soluzione positiva del caso di Patrick Zaki non è mai cessato, continua, abbiamo ancora fiducia». Dichiarazione vuota. Se non fosse il preludio a una possibile grazia che il dittatore del Cairo potrebbe concedere a Zaki, come lasciano filtrare fonti dall’esecutivo. Il 19 luglio è la festa di El Am El Hijri, l’egira di Maometto, l’inizio del calendario islamico. Il 23 luglio si celebra il giorno della rivoluzione del 1952. Si confida in un atto di clemenza in occasione di queste feste. Speranze flebili.

C’è poi il tema immigrazione, a cui “tiene così tanto” il governo italiano: il 20% delle persone arrivate è di nazionalità egiziana. Mantenere buoni rapporti con Il Cairo, magari riempendolo di denaro (vedi la strategia con la Tunisia), sarebbe fondamentale.

L’unica a muoversi concretamente in questi anni per Zaki è la città di Bologna che gli conferisce la cittadinanza onoraria. Seguita poi dal consiglio comunale di Firenze. Iniziative meritorie. Ma poco incisive per togliere il ricercatore da quel pozzo senza fondo in cui l’hanno spinto con brutalità.

Ora tutti a dire che «è una sentenza assurda», che bisogna mobilitarsi, esercitare pressioni sul Faraone. Ma chiacchiere a parte, quali iniziative hanno assunto la politica, le istituzioni italiane in questi 1.257 giorni?

Ingiustizia è fatta. L’udienza è tolta”.

Le proteste

“Chiediamo l’immediata scarcerazione di Patrick Zaki e condanniamo con fermezza la repressione delle libertà civili e individuali in corso in Egitto”. È quanto si legge in una nota della Cgil nazionale.

“A Zaki – ricorda la Confederazione – è stata conferita una laurea con il pieno dei voti dall’Università di Bologna il 6 luglio scorso. Abbiamo celebrato insieme a lui questo traguardo e auspichiamo che possa riprendere non appena possibile il suo percorso di studi”. 

Per la Cgil: “L’Egitto continua a non fornire la necessaria collaborazione per arrivare alla verità rispetto alla barbara uccisione di Giulio Regeni e continua a reprimere i diritti e le libertà dei sindacati autonomi”. 

“Le Istituzioni internazionali, l’Unione europea e il governo italiano intervengano immediatamente chiedendo la scarcerazione di Zaki e pretendendo dal governo egiziano chiarezza rispetto a questa nuova condanna”, conclude la Cgil.

Il governo batta un colpo

Da un report di Today: “Non è sorpreso Riccardo Noury della decisione del tribunale egiziano: “In Egitto ‘imputato’ è sinonimo di ‘condannato’, era da immaginare che uno scenario del genere succedesse”.

“L’immagine di Patrick che viene preso e portato via dal tribunale tra le urla e le grida della madre è terrificante” continua il portavoce. La sensazione, secondo lui, è quella di un bruttissimo atteggiamento persecutorio, di un accanimento giudiziario nei confronti di uno grande difensore dei diritti umani e della libertà. “A dieci anni dall’anniversario del colpo di stato Egitto – dice Noury –  un fatto del genere conferma come il sistema dittatoriale sia ancora in piedi e pienamente funzionante”. 

Le accuse e gli appelli al governo

Il portavoce di Amnesty International Italia si rivolge direttamente al governo perché trovi una soluzione subito. La condanna di Patrick non è soggetta ad appello o a cassazione e, contando la custodia cautelare già scontata, dovrebbe ridursi a un anno e due mesi di detenzione, secondo uno dei suoi avvocati Hazem Salah. Dopo i fatti delle ultime ore, Noury lancia un appello al governo perché mandi ufficialmente “una nota di protesta” e che vengano prese “misure necessarie perché venga annullata la sentenza e Patrick torni a Bologna”. 

Non si risparmia però il portavoce nelle proteste e nelle accuse anche contro tutti gli esecutivi che si sono susseguiti in questi anni. “Dal giorno in cui è stato scarcerato (il 7 dicembre 2021, ndr) l’azione di governo è cessata e nessuno si è più occupato del caso” nonostante si sapesse che il ragazzo non era stato prosciolto dalle accuse, solo semplicemente fatto uscire dal carcere. “La Farnesina – spiega – si è limitata a mandare gli osservatori, ma i rapporti trai due paesi sono sempre stati armoniosi”. All’epoca al governo c’era Mario Draghi, al ministero degli Esteri Luigi Di Maio.

Dopo quel giorno Patrick fu “abbandonato al suo destino”. E per farci capire la “spietatezza del partner” internazionale nelle relazioni diplomatiche, Noury spiega come nonostante il parlamento quasi all’unanimità abbia votato per conferirgli la cittadinanza onoraria, il governo – all’epoca del voto – si sia opposto per non “turbare e indisporre l’Egitto”. 

“Oggi chiediamo al governo che protesti formalmente contro questa decisione. Bisogna cambiare il rapporto: non più basato sulla sudditanza data da armi e petrolio, ma si deve intervenire su questo fronte perché venga fatta giustizia”. “L’Università di Bologna e il Comune ci hanno sempre accompagnato nella tortuosa vicenda giudiziaria e hanno sin da subito sostenuto Patrick” continua Noury, specificando come i due enti più di così non possano fare. “Oggi – conclude – chi può fare qualcosa di concreto perché Patrick venga liberato e torni nella sua città, si trova trai palazzi di Roma, non a Bologna”.

Una svolta drammatica

“Non ci aspettavamo questa svolta drammatica. Siamo stati presi in contropiede”. Lo spiega a La Repubblica Reny Iskander, la fidanzata di Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna condannato dalla Procura di Mansoura ad altri 14 mesi di carcere – oltre ai 22 già scontati – dopo l’arresto nel febbraio 2020. Zaki e Iskander sono ufficialmente fidanzati e a settembre dovrebbero sposarsi. “Pensavamo ci sarebbe stato un altro rinvio, o una data per il verdetto”, racconta la ragazza al quotidiano nell’intervista, “Non il verdetto. Era impensabile: Patrick non ha fatto nulla in queste settimane o in questi mesi per cui dovesse tornare in carcere. Prima di arrivare a Mansoura abbiamo parlato del fatto che avremmo fatto rientro al Cairo, appena finita l’udienza, come sempre abbiamo fatto in questi mesi: udienza dopo udienza. E del fatto che saremmo andati al mare nel fine settimana: per festeggiare insieme la nostra laurea”.


Alcuni ‘contestano’ a Patrick di non aver mantenuto un basso profilo. “Patrick è una persona dal cuore d’oro”, chiarisce la fidanzata, “Non può vedere una crisi umanitaria o politica, migliaia di rifugiati in strada o una guerra in corso e stare zitto sapendo di avere una voce che la gente ascolta. Si è occupato di questioni internazionali, di diritti umani, non di questioni interne all’Egitto”. 


“Poco dopo essere uscito di prigione mi ha chiesto ufficialmente di sposarlo”, ricorda Reny Iskander, “Naturalmente ho detto sì e abbiamo fatto la festa di fidanzamento. Abbiamo fatto moltissime cose, cercando di recuperare il tempo perduto. Abbiamo studiato, abbiamo scritto le nostre tesi in contemporanea e in contemporanea le abbiamo discusse e ci siamo laureati: io ero a Bologna e lui al Cairo. Era dispiaciuto di non essere con me all’università, ma felice della laurea, del voto, delle reazioni della gente. Allo stesso tempo abbiamo cercato una casa dove andare a vivere dopo il matrimonio e dopo tanto cercare l’abbiamo finalmente trovata. La stiamo rinnovando in questi giorni, dovrebbe essere pronta per la fine del mese.


E infine nelle ultime settimane ci siamo concentrati sui preparativi del matrimonio: è tutto pronto, non posso pensare che ora lui potrebbe non esserci. E alla fine, in questi giorni, abbiamo parlato tanto di questo week end al mare, che doveva essere il nostro modo per festeggiare la laurea. Io ero a Bologna, lui qui, c’era l’udienza: non c’era stato modo di farlo prima. Aspettavamo questa piccola vacanza con tantissima gioia”. “Adesso vorrei solo che tornasse libero in tempo per il nostro matrimonio. Ho il vestito pronto e la casa sarà pronta: tutto è pronto, ma ora tutto rischia di essere inutile e io non posso crederci”, conclude la ragazza, “Io e Patrick vogliamo solo iniziare la nostra vita insieme: una vita, ci tengo a dirlo, che non sarà lontana dall’Egitto. Il nostro futuro è qui. Patrick non vuole scappare né andare a vivere all’estero. Andremo all’estero per esplorare nuove opportunità, se ci saranno, e se e quando il suo divieto di espatrio sarà revocato. Ma sarà solo per un po’. Le nostre famiglie sono qui, i nostri amici sono qui, la nostra vita insieme sarà qui. Amiamo il nostro Paese, non abbiamo nessuna intenzione di abbandonarlo”.

Banco di prova

Così l’incipit dell’editoriale de il Foglio: “La condanna, tutta politica, di Patrick Zaki,

 esprime la volontà del governo egiziano di impedire ogni forma di dissenso. Quello di tipo occidentale impersonato dallo studente laureato a Bologna non è il dissenso più preoccupante per i militari al potere, quello davvero insidioso è quello di tipo islamistico, ma evidentemente il regime ha scelto di dare un esempio, senza tener conto delle pressioni occidentali e in primo luogo italiane. Giorgia Meloni ha detto di avere “ancora fiducia” in una soluzione positiva, ma naturalmente si tratta di un obiettivo assai arduo. La sentenza è inappellabile per via giuridica, ma potrebbe essere annullata per decisione delle autorità militari del distretto.

Quei pietosi balbettii

Rimarca Alberto Negri su Il Manifesto: “In Egitto la giustizia è uno strumento del sistema repressivo dominante, che azzera il dissenso politico, le voci indipendenti degli attivisti dei diritti umani, e dove le sparizioni sono all’ordine del giorno come la tortura. Occorrerebbe una vera diplomazia, ma la diplomazia del nostro governo attuale, così subalterna agli affari, ha fallito, come del resto quella dei governi precedenti.

Al Sisi ha incontrato la Meloni. Tajani pure di recente – ma vi sembra un ministro degli esteri uno che un giorno sì e l’altro pure è impelagato nelle pastette ereditarie di Forza Italia in epoca post-Berlusconi? C’è stata anche una recente visita al Cairo di Crosetto. Noi con l’Egitto facciamo affari a josa ma per il resto, come dimostra la vicenda Zaki, non solo non portiamo a casa niente ma veniamo regolarmente presi in giro.

Ogni volta che un nostro rappresentante incontra il generale-presidente golpista torna affermando che l’Egitto «promette collaborazione». Ma questa collaborazione non si è mai vista. L’Egitto stringe accordi con l’Eni sul gas, con cui il Cairo ha rapporti storici, Leonardo e Fincantieri sono in prima fila per le commesse belliche. Ma quando si tratta di avere giustizia e di diritti umani l’impressione concreta è che l’Italia non solo non conti nulla ma neppure riesca a giustificare la sua esistenza come democrazia sul quadrante del Mediterraneo. Come dimostrano i recenti accordi con la Tunisia che replicano quelli del passato – alla maniera neocoloniale di Minniti – e sotterrano sotto la sabbia i diritti umani. Le notizie corrono e gli altri sulla Sponda Sud sanno di che pasta siamo fatti.

I nostri rappresentanti vanno in Egitto sorridenti e tornano indietro ancora più sorridenti. Più li prendono in giro e più esprimono «fiducia» nel raìs egiziano. Dobbiamo sdraiarli sul divano di uno psicanalista. I casi sono due: o non sanno quello che fanno, oppure non sanno come arrivare a un risultato e mentono spudoratamente soddisfatti dello scambio affari-diritti umani. Propendiamo per entrambi i casi, comprese le «mance» che elargisce Al Sisi alle nostre imprese per tenerci buoni. Fanno parte di ogni nostra visita in Egitto, una tragica rappresentazione teatrale dove l’italiano di turno viene accomodato al tavolo e poi fatto passare alla cassa.

Del resto Al Sisi fa il suo mestiere da autocrate: o vogliamo ricordare l’ineffabile Renzi che, a un anno e mezzo dal sanguinoso golpe del 2013, da premier fu il primo sdoganatore del generale. E dopo l’uccisione di Giulio Regeni si adoperava pure per far rilasciare al generale presidente golpista lunghe interviste ai giornali italiani nelle quali giurava la sua innocenza? Cosa deve mai pensare Al Sisi del nostro Paese?

Quindi cerchiamo questa volta di non promettere di bloccare i rapporti economici con Il Cairo tanto preziosi per il “piano Mattei” o le commesse militari tanto care al Made in Italy. Sappiamo tutti benissimo che non lo faremo. Ed evitiamo anche i proclami, tanto non servono a nulla. Pensiamo piuttosto come sbloccare la situazione di Zaki con un’azione diplomatica efficace e subito una mobilitazione di solidarietà. Quanto alla «fiducia» espressa della Meloni si dà alle persone serie, come recitava la réclame di una volta, ai dittatori mai. Altrimenti conclude Negri – come appare, si è complici”.

Così è. Globalist lo ha scritto e ripetuto innumerevole volte. L’Italia è complice, consapevole, degli al-Sisi che marchiano a sangue, il sangue dei loro popoli e dei Giulio Regeni (come hanno ricordato i suoi genitori, di giovani come Giulio ne sono spariti, trucidati, a centinaia in Egitto e non solo) , la sponda sud del Mediterraneo. 

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