Giorgia Meloni, gli scafisti e le vergognose parole contro i migranti
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Giorgia Meloni, gli scafisti e le vergognose parole contro i migranti

Parlando a Porta a Porta Giorgia Meloni ha detto che "Quelli che accogliamo noi sono banalmente quelli che hanno i soldi da dare agli scafisti". Come se fossero ricchi in cerca di avventura

Giorgia Meloni, gli scafisti e le vergognose parole contro i migranti
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

23 Dicembre 2022 - 16.14


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Sgomenti. Non riusciamo a trovare akltro termine per descrivere la sensazione che chi scrive ha provato ascoltando la presidente del Consiglio proferire questa sprezzante considerazione nell’accogliente, “acchittato” verrebbe da dire, salotto mediatico di Bruno Vespa. Palando dei migranti, Giorgia Meloni è stata tranchant:  “Quelli che accogliamo noi sono banalmente quelli che hanno i soldi da dare agli scafisti. Io non credo che questo sia un modo intelligente di gestire l’immigrazione”. E ha rivendicato anche la posizione presa: “Francia e Italia hanno sicuramente avuto una frizione” sui migranti, che però “rivendico perché al di là della propaganda e delle posizioni di parte tutti quanti si sono resi conto che la reazione francese, di fronte alla prima nave Ong mai sbarcata in Francia con a bordo 230 persone quando in Italia ne sono arrivati 94 mila”, è stata “molto risentita”.

Nessun contraddittorio. La “verità di Giorgia” in Tv, su una rete di Stato.

Il Caso Iuventa

Un caso emblematico. Raccontato da Amnesty International.

“Il 19 dicembre eravamo a Trapani per prendere parte, in qualità di osservatori internazionali, all’udienza preliminare, durata quasi sei ore, del processo contro Dariush Beigui, ex membro dell’equipaggio della nave Iuventa della Ong tedesca Jugend Rettet.

Insieme ad altre tre persone, Beigui è accusato di “favoreggiamento dell’immigrazione irregolare”e rischia fino a 20 anni di carcere, per aver tratto in salvo migliaia di persone intercettate e soccorse nel Mar Mediterraneo: più di 14.000 nello specifico, tra il 2016 e il 2017, fino a quando l’avvio delle indagini e il sequestro della nave hanno interrotto forzatamente le attività.

Le udienze sono iniziate il 21 maggio e sono state da subito caratterizzate da vizi procedurali, in particolare legati all’assenza di traduzioni adeguate a garantire il diritto degli imputati, di madrelingua tedesca, ad accedere a un processo equo e a una legittima difesa. Proprio per questo il 19 dicembre il giudice ha ordinato una perizia dei precedenti interrogatori, volta a determinare la qualità dell’interpretazione fornita: un passaggio decisamente importante.

Come importante, ma in una direzione che ci preoccupa, è un altro elemento di novità: nel corso dell’udienza il ministero dell’Interno e la presidenza del Consiglio dei ministri hanno chiesto di essere ammessi come parte civile, con l’intenzione di sollecitare un risarcimento per i danni “economici e morali” sostenuti dallo stato italiano in conseguenza del processo.

Lo stesso stato cui il giudice ha ordinato, con sentenza del 7 dicembre, di “provvedere all’esecuzione di tutte le opere di manutenzione ordinaria e straordinaria necessarie a ripristinare e a mantenere la situazione della nave esistente al momento del sequestro”, indicando nell’esecutore materiale della sentenza il comandante della Capitaneria di porto di Trapani, dove la Iuventa giace in stato di abbandono da ormai cinque anni.

La posizione del governo purtroppo si pone in continuità con il clima ostile che da anni l’Italia e altri stati membri dell’Unione europea hanno creato contro i difensori dei diritti umani impegnati in operazioni di ricerca e soccorso in mare, che si muovono – è bene ricordarlo – nel rispetto del diritto marittimo internazionale.

La criminalizzazione del lavoro delle organizzazioni della società civile impegnate in missioni di soccorso si inserisce in una politica che, mentre mira a dissuadere dal prestare assistenza umanitaria a rifugiati e migranti e a gettare discredito su chi porta avanti azioni di solidarietà, punta a ridurre il numero di persone che giungono in Europa attraverso misure di esternalizzazione che spesso hanno conseguenze gravi sulla tutela dei diritti umani: è il caso ad esempio del Memorandum Italia-Libia, rinnovato automaticamente lo scorso 2 novembre . È in questo contesto che le navi delle Ong hanno svolto un ruolo fondamentale nel salvataggio di decine di migliaia di vite, mettendo contemporaneamente in luce i fallimenti e le mancanze delle istituzioni e degli stati membri dell’Unione europea e diventando proprio per questo bersaglio di misure amministrative e giudiziarie volte a bloccarne le attività piuttosto che a sostenerle.
Continueremo a stare al fianco di chi ha messo in gioco la propria vita per difendere i diritti. Continueremo a criticare l’uso erroneo delle accuse di favoreggiamento degli ingressi irregolari, che non riflette la definizione internazionale del reato di traffico di esseri umani ed è volto a criminalizzare le Ong, come nel caso Iuventa.

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Continueremo, infine, a chiedere alle istituzioni di garantire tempestive missioni di soccorso in mare seguite da un pronto sbarco di rifugiati e migranti in un luogo sicuro, sospendendo gli accordi con i paesi che non rispettano i diritti e tutelando, finalmente, il diritto a chiedere asilo, a spostarsi alla ricerca di migliori condizioni di vita, e alla tutela stessa della vita”.

Un impegno che Globalist sostiene e su cui continueremo a informare.

Quel rapporto rivelatore

“Nessuno verrà a cercarti: i ritorni forzati dal mare ai centri di detenzione della Libia”.

E’ il titolo di un illuminate Rapporto di Amnesty International. 

Il rapporto rivela che dalla fine del 2020 la Direzione per il contrasto all’immigrazione illegale (Dcim), un dipartimento del ministero dell’Interno della Libia, ha legittimato le violazioni dei diritti umani, integrando tra le strutture ufficiali due nuovi centri di detenzione dove negli anni scorsi le milizie avevano sottoposto a sparizione forzata centinaia di migranti e rifugiati. Persone sopravvissute a uno di questi centri hanno denunciato che le guardie stupravano le donne e le obbligavano ad avere rapporti sessuali in cambio di cibo o della libertà.

“Questo rapporto getta nuova luce sulla sofferenza delle persone intercettate in mare e riportate in Libia per finire immediatamente in stato di detenzione arbitraria ed essere sistematicamente sottoposte a torture, violenza sessuale, lavori forzati e altre forme di sfruttamento nella totale impunità. Le autorità libiche, dal canto loro, hanno premiato i responsabili di queste violazioni dei diritti umani attraverso promozioni e l’assegnazione di posizioni di potere. Questo significa una sola cosa: che rischiamo di vedere gli stessi orrori replicarsi ancoraha dichiarato Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.

“Il nostro rapporto evidenzia inoltre la perdurante complicità degli stati europei, che continuano vergognosamente a rafforzare e assistere i guardacoste libici nella cattura di persone in mare e nel ritorno forzato di queste ultime nell’inferno dei centri di detenzione della Libia, anche se nelle capitali europee si sa perfettamente a quali orrori quelle persone andranno incontro”, ha aggiunto Eltahawy.

Amnesty International chiede agli stati europei, tra cui l’Italia – il cui parlamento sta dibattendo sul proseguimento della fornitura di sostegno militare e altre risorse ai guardacoste libici –, di sospendere la cooperazione con la Libia in tema di controllo dell’immigrazione e delle frontiere.  

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Il rapporto contiene le storie di 53 migranti e rifugiati precedentemente trattenuti in centri ufficialmente posti sotto il controllo del Dcim, 49 dei quali detenuti direttamente dopo essere stati intercettati in mare.

Le autorità libiche hanno dichiarato di voler chiudere i centri del Dcim dove si sono verificate violazioni dei diritti umani ma le stesse violazioni si stanno verificando nei centri di detenzione nuovi o trasferiti sotto il controllo dello stesso Dcim. Sintomo di un’impunità dominante, luoghi informali di prigionia originariamente sotto il controllo di varie milizie sono stati riconosciuti e integrati nella struttura del Dcim.

Nel 2020, centinaia di persone intercettate in mare e riportate in Libia sono di fatto scomparse in un luogo informale di detenzione, all’epoca diretto da una milizia. In seguito, il sito è stato posto sotto il controllo del Dcim col nome di Centro di raccolta e di ritorno di Tripoli – meglio conosciuto col nome al-Mabani – e vi sono stati assegnati il direttore e altro personale del centro Dcim di Tajoura, tristemente noto per le torture, chiuso nell’agosto 2019 dopo un bombardamento che aveva ucciso almeno 53 detenuti.

Violazioni dei diritti umani in corso nei centri di detenzione della Libia

Nella prima metà del 2021 ad al-Mabani sono state portate oltre 7000 persone intercettate in mare. Ex detenuti hanno descritto ad Amnesty International le torture, le condizioni detentive inumane, le estorsioni e i lavori forzati cui erano sottoposti. Alcuni hanno anche riferito di essere stati costretti a subire perquisizioni corporali invasive, umilianti e violente.

L’altro centro di detenzione precedentemente diretto da una milizia e ora integrato nel Dcim è quello di Shara’ al-Zawiya, a Tripoli, cui sono destinate persone in condizioni di vulnerabilità. Ex detenuti hanno raccontato ad Amnesty International che le guardie stupravano le donnee che alcune di loro venivano obbligate ad avere rapporti sessuali in cambio di forniture essenziali come l’acqua potabile o della libertà.

“Grace” (nome di fantasia) è stata picchiata brutalmente per non aver accettato il ricatto: “Gli ho detto di no. Allora [la guardia] mi ha picchiato con una pistola, poi mi ha dato un calcio su un fianco con uno scarpone di cuoio da soldato”.

A seguito delle violenze subite, due giovani donne detenute a Shara’a al-Zawiya hanno tentato il suicidio.

Tre donne hanno testimoniato che due bambini, detenuti in cattive condizioni di salute con le loro madri dopo essere stati intercettati in mare, sono morti all’inizio del 2021 dopo che le guardie avevano rifiutato di trasferirli in ospedale.

Il rapporto di Amnesty International descrive violazioni dei diritti umani simili – tra cui pestaggi brutali, violenze sessuali, estorsioni, lavori forzati e condizioni detentive inumane – in sette centri di detenzione del Dcim.

Nel centro di Abu Issa, nella città di al-Zawiya, i detenuti hanno riferito di essere stati privati di sostanze nutrienti fino al punto di patire la fame. Ad al-Mabani e in altri due centri del Dcim, Amnesty International ha documentato l’uso illegale della forza e delle armi da fuoco da parte delle guardie e di altri uomini armati, che hanno ucciso e ferito detenuti.

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“L’intero sistema dei centri di detenzione libici per i migranti è marcio dalle fondamenta e dev’essere smantellato. Le autorità libiche devono chiudere immediatamente tutti i centri di detenzione per rifugiati e migranti e porre fine alla loro detenzione”, ha sottolineato Eltahawy.

 Le missioni “di soccorso” libiche mettono in pericolo le vite umane

Tra gennaio e giugno del 2021le missioni “di soccorso” dei guardacoste libici sostenuti dall’Europahanno intercettato in mare e riportato in Libia circa 15.000 persone,più che in tutto il 2020.

Le persone intervistate da Amnesty International hanno regolarmente descritto la condotta dei guardacoste libici come negligente e violenta. Sopravvissuti hanno raccontato come i guardacoste libici avevano deliberatamente danneggiato le imbarcazioni su cui viaggiavano, in alcuni casi causandone il capovolgimento e – in almeno due occasioni – l’annegamento di migranti e rifugiati. Un testimone oculare ha dichiarato che dopo che i guardacoste libici avevano fatto capovolgere un gommone, anziché soccorrere le persone in mare hanno filmato la scena.

Nei primi sei mesi del 2021 nel Mediterraneo centralesono morti annegati oltre 700 migranti e rifugiati.

Persone intervistate da Amnesty International hanno spesso dichiarato che, durante la traversata, avevano visto degli aerei sopra di loro o delle navi nei paraggi che rifiutavano di offrire assistenza, mentre i guardacoste libici si avvicinavano.

Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere e delle coste, svolge sorveglianza aerea sul Mediterraneo per individuare imbarcazioni di migranti e rifugiati e dal maggio 2021 utilizza un drone su questo tratto di mare. Le navi europee hanno per lo più abbandonato le rotte del Mediterraneo centrale per evitare di dover soccorrere imbarcazioni di migranti e rifugiati a rischio di affondamento.

L’Italia e altri stati membri dell’Unione europea hanno continuato a garantire assistenza materiale, come ad esempio motovedette, ai guardacoste libici e stanno lavorando alla creazione di un centro di coordinamento marittimo nel porto di Tripoli, prevalentemente finanziato dal Fondo Fiduciario dell’Unione europea per l’Africa.

“Nonostante le massicce prove dei comportamenti sconsiderati, negligenti e illegali dei guardacoste libici in mare, e delle sistematiche violazioni dei diritti umani nei centri di detenzione a seguito dell’intercettamento in mare, i partner europei continuano a sostenere i guardacoste libici che riportano a forza le persone in Libia, a soffrire di nuovo quegli stessi abusi da cui erano fuggite”, ha commentato Eltahawy.

“È ampiamente giunto il momento che gli stati europei riconoscano che le conseguenze delle loro azioni sono indifendibili. Devono sospendere la cooperazione con la Libia in tema di controllo dell’immigrazione e delle frontiere e aprire urgentemente quei percorsi sicuri così necessari per la salvezza di migliaia di persone bisognose di protezione, attualmente intrappolate in Libia”, ha concluso Eltahawy.

Il rapporto di Amnesty International è del 15 luglio 2021. Un anno e cinque mesi dopo, la situazione è ulteriormente peggiorata. Altre stragi d’innocenti, altri respingimenti in mare. E poi la “sentenza” di  Giorgia Meloni. Si vergogni, signora presidente. 

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