Tutte le spine del Pd quando sarà il dopo-Monti
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Tutte le spine del Pd quando sarà il dopo-Monti

Chi dice che non bisogna regalare il premier alla destra; chi teme di lasciare tutto lo spazio a sinistra. Il partito è nel dilemma mentre a destra si organizzano.

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3 Marzo 2012 - 11.38


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di Maurizio Ambrogi

Probabilmente non sarà dispiaciuto a Palazzo Chigi “l’incidente” della norma sulle banche, che ha provocato la scomposta reazione dell’Abi. E infatti nessuno ha mosso un dito per correggere la norma prima del voto finale. Il governo dei banchieri che fa saltare il vertice dell’Associazione Bancaria è un opportuno colpo d’immagine. Raddrizza un po’ la barra di un esecutivo che di fatto sta attuando una agenda politica da destra storica: rigore di bilancio, anche attraverso un ulteriore aumento della pressione fiscale, riforma delle pensioni e del mercato del lavoro, liberalizzazioni.

I partiti un po’ soffrono, un po’ lasciano fare, visto che lo spread scende e il consenso al governo sale, nonostante le politiche da lacrime e sangue. E intanto pensano alle prossime elezioni, quando dovranno riprendersi quel bastone del comando affidato ai tecnici nel novembre scorso.

Su quali piattaforme politiche si presenteranno agli elettori dopo questo lungo letargo? Il Pdl potrà rispolverare lo slogan meno tasse per tutti? Il Pd proporrà la controriforma del welfare o delle pensioni? In realtà non sarà facile abbandonare una politica riscoperta come tecnica e competenza per tornare alle contrapposizioni ideologiche tipiche del bipolarismo muscolare del ventennio appena trascorso. E’ questa la sfida culturale che deriva dall’esperienza del governo dei tecnici: non si potrà tornare facilmente all’era della politica declamata e vuota, o a quella della finanza creativa. Tanto più che le misure di rigore prese dal governo Monti, nonostante la loro ampiezza e impatto sulla finanza pubblica, non sono comunque sufficienti e non lasciano molto spazio per futuri alleggerimenti.

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Per tutte queste ragioni le prossime elezioni saranno probabilmente vinte da chi si proporrà come erede credibile, in termini di serietà, rigore e competenza, dell’esperienza del governo tecnico. A destra si stanno già attrezzando, perfino Berlusconi sembra averlo capito e aver scelto: sostegno pieno a Monti anche a costo di rompere con la Lega. E addirittura riproposizione della Grande Coalizione: un governo politico Pdl-Pd-Terzo Polo nella prossima legislatura. Ipotesi cui nessuno crede veramente, ma che serve per accreditare un senso di continuità e buone intenzioni e a mettere in difficoltà il Pd che già soffre l’abbraccio mortale di un governo che mette in discussione i diritti dei lavoratori, e si prepara a gestire con durezza la crisi in Val di Susa.

Ma la vera operazione politica è un’altra: ed è la creazione di un grande polo moderato che ricompatti il centro, una grande parte del Pdl e magari qualche profugo del Pd. Non che sia operazione facile: a partire da chi ne sarà il leader e azionista di riferimento. Anche in questa chiave si legge il rinnovato protagonismo di Berlusconi, che non è in campo, ma vuole gestire e non subire una operazione di questa rilevanza. E poi si tratta di capire se il rassemblement debba nascere dentro uno schema bipolare, prima delle elezioni, come vorrebbe il Cavaliere, per ingabbiare il Terzo Polo; oppure dopo il voto, in uno schema multipolare, in cui ogni forza mantenga fino ad allora le mani libere. Questione da cui deriva la scelta della legge elettorale. Anche a sinistra la discussione sugli scenari del 2013 è aperta ed è forse più lacerante, come si vede dalle fratture che provoca nel Pd la discussione sull’articolo 18. Chi dice che non bisogna regalare Monti alla destra avverte il pericolo di rimanere isolati su una posizione socialdemocratica, troppo schiacciata sulla Cgil, e in un’alleanza obbligata con Vendola e Di Pietro: di fatto chiusa a qualsiasi prospettiva di allargare il fronte verso il centro, o comunque di costruire una coalizione che risulti interessante per l’elettorato moderato.

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Il problema non è nuovo e non è di facile soluzione: è anzi il vero nodo mai sciolto dalla nascita del Pd, quello dell’identità e del profilo politico. Se il Pd si apre a posizione riformiste, lascia a sinistra uno spazio enorme e incolto. Se si rinserra nel fortino regala a destra fette di elettorato decisive per la vittoria in uno schema bipolare. Il paradosso è che il partito che, nel momento di maggior crisi del berlusconismo, ha sacrificato una vittoria certa alle elezioni, accettando la soluzione Monti per il bene del paese (e pur di cacciare Berlusconi), esca sconfitto dall’evoluzione del quadro politico. Si ritrovi cioè a fronteggiare con lo schema di Vasto (che qualcuno già chiama lo schema nefasto) una forte e ricompattata coalizione di centrodestra che si ponga in continuità con l’esperienza del governo Monti. Che insomma la transizione del governo tecnico restituisca al paese l’equilibrio di sempre, solo senza Berlusconi.

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