Il militare sardo che portò le bare a Bergamo: "La gente continua a non capire..."
Top

Il militare sardo che portò le bare a Bergamo: "La gente continua a non capire..."

Tomaso Chessa era alla guida di uno dei mezzi dell'esercito usati per trasportare le bare in altri luoghi perché non c’era spazio. "Fanno parte di me vorrei un giorno conoscere i parenti di quei defunti"

Mezzi militari per portare via le bare da Bergamo
Mezzi militari per portare via le bare da Bergamo
Preroll

globalist Modifica articolo

8 Maggio 2020 - 08.18


ATF

A sentire molti politici e demagoghi che hanno sposato incondizionatamente la linea Trump, chi si oppone alle riaperture incondizionate è un irresponsabile. E mediatamente sta piano piano passando l’idea che se bar e ristoranti sono ancora chiusi la colpa è della cattiveria di qualcuno e non perché l’epidemia c’è ancora e una seconda ondata potrebbe essere devastante.
Adesso Tomaso Chessa, militare sardo alla guida di uno dei mezzi dell’esercito usati per trasportare le bare da Bergamo in altri luoghi perché non c’era spazio ricorda quei momenti. “Quelle bare fanno parte di me, c’ho messo l’anima: vorrei un giorno conoscere i parenti di quei defunti – scrive in un lungo e commovente post su Facebook. – Ma la gente continua a non capire,  facile dire qua non siamo a Bergamo”.
”Termina la fase uno…. che dire? Forse la gente non si rende conto, non ha materialmente avuto il tempo di percepire la realtà. Io vi dico la mia, anche se sono cosciente di non rendere (per fortuna l’idea)”.

Con queste parole inizia la lettera aperta che il caporalmaggiore capo scelto Chessa, 42 anni, sassarese, scrive per raccontare le sue settimane alla guida di un camion dell’Esercito adibito al trasporto delle vittime bergamasche di coronavirus.
 In servizio nel Reggimento di supporto tattico e logistico di Solbiate Olona (Varese), Chessa ripercorre i pensieri che hanno accompagnato “l’ultimo viaggio” di quei “compagni di viaggio”.
 “Essere alla guida di un camion, una giornata qualunque dove il pensiero ti porta oltre la tua quotidianità – scrive. – Tu guidi, scambi due chiacchere con il collega alla parte opposta della cabina, ma quando per forza di cose, per un istante il silenzio rompe la tua routine, il tuo pensiero si posa su di loro, realizzi che dentro quel camion non siamo in due, ma in sette…. cinque dei quali affrontano il loro ultimo viaggio… e sì…. l’ultimo”.
“Ti rendi conto – continua – di essere la persona sbagliata, o meglio, qualcuno doveva essere al posto tuo, ma purtroppo non può… tocca a te…. ed è lì che sentì addosso quella grande responsabilità, qualcosa che ti preme dentro, ogni buca, ogni avvallamento sembra una mancanza di rispetto nei loro confronti… poi arrivi lì, alla fine del tuo viaggio, dove ti ritrovi ad abbandonare “il tuo carico”, oramai fa parte di te, come se ti togliessero una parte di cuore, ed è li che cerchi di capire l’identità del tuo compagno di viaggio… cosa difficilissima”.
“Delle otto persone che personalmente ho accompagnato, – ricorda – l’unico dei quali sono riuscito a risalite alla sua identità è il Signor Guerra, classe 1938. Pagherei oro per conoscere tutti i parenti delle otto persone e potergli dire che nonostante il contesto non avrebbero potuto fare un viaggio migliore”.
 “La cosa che mi dispiace di più, nonostante questo, – continua, – è che amici e famigliari continuano a non rendersi conto che tutto questo non è uno scherzo, la gente muore, chi non muore soffre, facile dire qua non siamo a Bergamo… Bene, abbiate la coscienza e il buon senso di tutelare i nostri cari che hanno la fortuna di vivere in posti più sicuri, ma non dimenticate che sbagliare è un attimo”.
 Fino all’appello finale rivolto ai bergamaschi: “Spero un giorno di poter conoscere i cari dei miei compagni del loro ultimo viaggio, ma se cosi non fosse sappiano che c’ho messo l’anima!”

Native

Articoli correlati