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Quadro esposto al Museo Andersen
Quadro esposto al Museo Andersen
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Stefano Torossi Modifica articolo

20 Novembre 2017 - 09.14


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Al primo piano del Museo Andersen c’è questo quadro che, oltre a essere ben dipinto, ritrae con grande delicatezza, bisogna proprio dirlo, un momento di intimità: la fine di un incontro omosessuale, scena forse non tanto comune ma certamente accettata all’epoca fra artisti del nord, e magari giovani locali.

Il Museo Andersen è una grande villa Art Nouveau appena fuori Porta del Popolo, in una traversa della Via Flaminia. Sconosciuta ai più, è stata l’abitazione e lo studio di Hendrik Christian Andersen, scultore norvegese della prima metà del novecento (niente a che fare con Hans Christian, quello delle favole), il quale, una volta scoperta Roma, come succedeva a molti viaggiatori europei, preferibilmente ricchi, ci aveva messo su casa e non se n’era più andato.

Tanto è vero che qui è morto ed è stato sepolto nel cimitero acattolico, giardino di grande suggestione a Porta San Paolo, dietro la piramide Cestia, uno degli spazi ancora campestre entro le Mura Aureliane. Una gentile concessione del Papa che non voleva avere niente a che fare, nei suoi cimiteri ufficiali, con questi stranieri senza dio; ma d’altra parte non poteva scontentare i re non cattolici che avevano rappresentanze a Roma e ogni tanto qualcuno dovevano seppellirlo anche loro.

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Vicino a lui c’è la tomba di un personaggio oscuro, figlio di uno invece famoso, Wolfgang Goethe. Situazione pesante quella del ragazzo, tanto è vero che al poveretto sulla lapide non hanno neanche riconosciuto il diritto a un nome: è segnalato semplicemente come Goethe Filius.

Hendrik fu legato per anni da un affettuoso, anzi, a giudicare dalla corrispondenza, affettuosissimo rapporto con lo scrittore americano Henry James. Il quale faceva parte, appunto, di quella schiera di “eccentrici” (così venivano garbatamente chiamati gli intellettuali omosessuali che scendevano in Italia per vivere la loro condizione in una terra dalla libertà leggendaria, lontani dalla morale stretta del resto d’Europa e degli Stati Uniti). Erano Wilde, Maugham, Munthe, Forster, Douglas e tanti altri, per finire con il ricchissimo industriale dell’acciaio Friedrich Alfred Krupp, il quale, evidentemente non trasgressivo come gli altri, nel 1902, travolto dallo scandalo, si suicidò.

 

Altri scandali e altri tempi, per fortuna andati.

Passiamo a un argomento altrettanto intimo, ma di sicuro privo di qualsiasi connotazione peccaminosa: il divino allattamento al seno.

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E che seno, che allattamento! Parliamo della Madonna, del Bambinello e, già che ci siamo, di anatomia.

Questa nostra non è un’analisi artistica; è solo uno stupore che ci prende all’osservare le Madonne allattanti della pittura prerinascimentale.

Rappresentazioni in cui l’anatomia, addirittura la semplice osservazione dal vero, se ne vanno per conto loro.

Sì perché i Bambinelli (spesso dipinti come adolescenti ben oltre l’età dell’allattamento, ma sempre miniaturizzati alla taglia di un poppante), stanno attaccati a sacre mammelle che, fra drappi e manti, fanno capolino da una spalla, da un’ascella, da una clavicola, in ogni caso da punti del corpo dove nella realtà c’è impiantato qualcosa di ben diverso.

Forse questa indifferenza verso la verità rendeva irreale, e quindi non pericolosa per il fedele maschio la visione di un organo che, papi o non papi, continuava a mantenere il suo richiamo più terreno che spirituale.

Tanto è vero che, qualche anno più tardi, questo concetto che all’epoca non era ancora chiaro né agli artisti né agli ecclesiastici committenti, fu codificato dal concilio di Trento, lo stesso che poi decise di far mettere le mutande alle figure di Michelangelo nel Giudizio Universale.

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E da allora, nell’arte sacra, addio nudità, se non contrabbandata da qualche artista malizioso e furbacchione (vedi Bernini e altri) come estasi mistica.

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