Da Tangentopoli ad Enrico Mattei, la spettacolarizzazione della giustizia
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Da Tangentopoli ad Enrico Mattei, la spettacolarizzazione della giustizia

Da Di Pietro in poi, la nascita del processo mediatico, quello che tanto va di moda oggi nei salotti televisivi.

Antonio Di Pietro
Antonio Di Pietro
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Stefano Pignataro Modifica articolo

17 Maggio 2017 - 14.52


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Nell’articolo “il processo alla politica in Tv diventa il racconto di un Paese”, pubblicato nella raccolta del 2012 “Mani Pulite-l’Inchiesta che ha cambiato l’Italia” del Corriere della Sera in occasione dei vent’anni dell’origine dell’inchiesta, Aldo Grasso, critico televisivo che come ben sanno i suoi lettori è uno studioso non solo di storia della Televisione ma anche delle mode intellettuali degli italiani, attribuì soprattutto alla cultura delle immagini ed alla propaganda televisiva la fortuna della rapidità con la quale i protagonisti del pool di Mani Pulite giunsero alla celebrità. Grasso parla dell’ultima requisitoria di Antonio Di Pietro e di come l’uomo “schernito per l’incerta sintassi” sia oramai divenuto un capo carismatico; sembra che ad egli, citando le parole di un Indro Montanelli intervistato da Alain Elkann per la sua “Storia d’Italia”, mancherebbe solamente di assurgere all’ultima delle sue mansioni, quelle di “uomo della Provvidenza”. Grasso indica che l’attento giudice Di Pietro è l’ideatore del “processo mediatico”, quel processo che tanto oggi va di moda nei salotti televisivi e che spesso negli ultimi tempi sta dando purtroppo prova di fiacchezza e di mancanza di idee puntando di più sull’emotività, sullo spettacolo casereccio e sulla rissa televisiva che sulla sostanza. Con i processi di Tangentopoli in tv secondo Grasso si è giunti ad un processo di “ridiscorsivizzazione”, in quanto un processo non deve, come vorrebbe una qualsivollia deontologia professionale, fornire una precisa ricostruzione della vicenda discussa, ma deve mutare in un autentico spettacolo, ove imputati e giudici siano personaggi originali e spontanei con ruoli ben delineati. Il caso giudiziario diviene insomma non circoscritto alle aule di Tribunale, ma ne diventa tema scottante e popolare finendo nei lacci dei media e dunque del grande pubblico. Grasso , nel suo attualissimo articolo, ci tiene a sottolineare che tutto quello che la Televisione fa “nel nome del popolo italiano lo fa sempre e soltanto in termine di audience”; La spettacolarizzazione di Tangentopoli, avvenne anni prima, seppur in modalità ed in trame differenti, per il Mistero di Via Monaci. Esso fu il primo caso di cronaca nera giudiziaria che appassionò gli italiani. Il caso sembrava esaurirsi intorno ad un banale uxoricidio da parte di un mite geometra milanese, Giovanni Fenaroli; in seguito questo banale uxoricidio si rivelò essere un piano diabolico in cui vi erano implicati i Servizi segreti del Generale Di Lorenzo e si discusse attorno ad un possibile coinvolgimento del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Tutto questo mitizzare portò e porta al prevedibile effetto di Nietzschiana memoria: il non esistere fatti ma solo interpretazioni di fatti.
L’inchiesta di Tangentopoli a venticinque anni dal suo inizio è stato il tema di un convegno che ho avuto il piacere di organizzare all’Università di Salerno lo scorso 27 aprile con il Gruppo “Futura” e patrocinata dal Dipartimento di studi umanistici della stessa Università. Il convegno ha visto protagonista lo stesso Antonio Di Pietro e l’Avvocato Giuseppe Lucibello (al quale è stata affidata la memoria “giudiziaria” di Tangentopoli come storico avvocato dell’inchiesta). Avendo volutamente dato un taglio storico e non politico all’iniziativa, le relazioni che si sono succedute a quelle di Antonio Di Pietro e di Giuseppe Lucibello hanno sottolineato proprio l’impatto socio-storico del disvelamento della corruzione in Italia e sugli italiani. Interessante è stato l’intervento del prof. Marcello Ravveduto, docente di Public e Digital History, (la cui cattedra, anch’essa patrocinante dell’evento, è la prima in Italia) che, riprendendo il discorso di Aldo Grasso, ha messo in luce come Mani Pulite abbia portato al cambiamento di percezione tra Stato e presente. La relazione di Antonio Di Pietro,ha toccato vari punti, dalla ricostruzione delle indagini senza dimenticarsi di dedicare alla platea di studenti di Lettere (platea differente dalla sua consueta platea di studenti di Diritto) ad una completa ed approfondita relazione sullo stato della politica e dei partiti prima che Tangentopoli prendesse piede.
Ciò che a mio parere risulta estremamente interessante ed attuale della relazione di Antonio Di Pietro è stata l’ipotesi complottista che più di ogni altra ha reso Mani Pulite oggetto di speculazioni, indagini e varie e molteplici interpretazioni. Di Pietro ha presentato al pubblico ed ha offerta all’Associazione Futura due copie della relazioni del Copasir (26-10.1995, Documento numero 3 e 5-3-1996-Documento numero 6 )in cui si evince la presenza di apparati dei Servizi segreti dello Stato mandati dalle più alte cariche dello Stato con il preciso compito di bloccare l’inchiesta di Mani Pulite. Ancora peggio, Di Pietro è convinto che esisteva un piano ben congegnato per eliminarlo svelatogli da due pentiti di mafia; deve la vita alla sua delegittimazione.
Per un personale parere, vi è proprio in questo il fattore centrale che ci riporta anche al tema della “spettacolarizzazione”. Tralasciando la imponente mole di dati e di indagini relativi alla Macchinazione del complotto, quello che è importante rilevare, dando rilievo o meno all’ipotesi del complotto, è proprio questo ritardo rilevante di un retroscena comunque possibile. La Storia d’ Italia ha insegnato che il nostro è stato un Paese forse da sempre governato da un “doppio Stato” da anni lasciato libero di effettuare le sue azioni. La spettacolarizzazione dei casi giudiziari e dei delitti ha sempre In Italia (ma anche in altri Paesi) lasciato campo libero di inquinare e depistare e spesso eliminare indizi fondamentali per quantomeno aprire nuove indagini. I delitti più efferati e più discussi sono passati per questa condizione: se vi si prende ad esempio il delitto Pasolini ed il caso Mattei si può notare come per anni abbiamo avuto un’altra verità completamente distorta da quella “ufficiale” poiché la verità fasulla occupava gli schermi televisivi e le pagine dei giornali dato il maggiore impatto visivo nel pubblico. In certi casi, come appunto per il caso Pasolini, sono venuti meno pezzi del racconto fondamentali per le indagini di una banalità sconcertante ma che saputi al momento opportuno avrebbe sin da subito ribaltato l’inchiesta ed indirizzato subito ad altri studi in determinati ambienti; uno fra tutti, la conoscenza già di vari mesi tra Pelosi e Pasolini che fa decadere la tanto decantata tesi dell’incontro casuale alla stazione Termini la sera del primo novembre 1975. Vi è stato solo un caso in cui questa spettacolarizzazione ha dato risultati positivi per la Storia ed in contrapposizione esiti tragici per il protagonista; nel 1971 Francesco Rosi cominciò a lavorare al film sul caso Mattei deceduto in circostanze mai del tutto chiarito nove anni prima nel bosco di Bascapè vittima dello schianto del suo aereo. Il film fu uno straordinario successo ed uno dei pochi che fu riconosciuto di interesse storico per la ricostruzione storica di uno dei delitti più controversi d’Italia e che celava le più oscure connivenze. Mauro De Mauro, come si sa, fu vittima del suo eccessivo zelo e della sua bravura, venendo rapito quasi sicuramente da Cosa Nostra la sera del 16 settembre 1970 e mai più ritrovato. Sciascia asserì che “De Mauro aveva detto la cosa giusta all’uomo sbagliato e la cosa sbagliata all’uomo giusto”. Almeno in questo caso la “spettacolarizzazione” in maniera rigorosamente scientifica, anche se costò la vita del meticoloso giornalista de L’Ora, diede i suoi frutti.

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